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Goethe alla ricerca degli «archetipi» della materia
Wolfgang von Goethe, aveva un'amante? Bella scoperta! Della lunga storia con Charlotte von Stein parlano tutte le biografie del genio di Francoforte. Oltre alle amanti più o meno note, egli ne aveva però una segreta. Lo confessa («meine heimliche Geliebte») in una lettera del 1770, e fa anche il nome della bella sconosciuta: «Chymie», cioè - nel tedesco d'allora - la chimica, scienza che plasmò il suo intelletto molto più di quanto si sappia.
Goethe aveva sedici anni nel 1765, quando il padre lo spedì a studiar legge a Lipsia. Il volere paterno si sarebbe compiuto altrove e con un certo ritardo, sia per la tisi e la pleurite che nel 1768 costrinsero il giovane a tornare a casa, sia per la sua scarsissima dedizione agli studi giuridici.
Quello «studentesco impetuoso» (la definizione è sua) alle pandette e ai codici preferiva le corse sfrenate a cavallo, concluse talvolta da cadute rovinose, e il vivere all'aria aperta perfino nelle giornate di maltempo. All'università ci andava soprattutto per medicina e fisica: quest'inclinazione avrebbe poi prodotto, per esempio, la sua nota teoria dei colori.
A diciannove anni Wolfgang, sempre più malandato di salute, esce praticamente in fin di vita da un'operazione. Lo salva il medico di un'amica di sua madre, la von Klettenberg, a cui poi Goethe s'ispirerà per l'«anima bella» del "Noviziato di Guglielmo Meister". La donna e il dottore, appassionati d'alchimia, trasmettono al giovane la loro passione per questa disciplina, i cui confini con la chimica, intesa come scienza nel senso moderno, rimarranno un po' incerti sino alla rivoluzione chiarificatrice di Lavoisier.
D'altronde in Goethe è ben radicata una propensione alchimistico-filosofica, Amrine e Zucker hanno scritto che per lui la realtà più profonda della natura non consiste nelle particelle elementari della fisica o nelle leggi che le governano, ma piuttosto in archetipi («Ideen») da comprendere nella loro essenza emotiva e spirituale («geistig»).
Secondo Zimmermann, autore di Come il giovane Goethe vedeva il mondo, non si può interpretare la sua opera senza un'attenzione speciale all'interesse alchimistico giovanile. Si penserà subito al Faust, ma più curiosa è la Fiaba, uscita nel 1795 sulla rivista di Schiller «Le Ore»: sul suo arduo simbolismo, tratto in gran parte proprio dal linguaggio iniziatico dell'alchimia, i commentatori hanno versato «fiumi d'inchiostro. Bonaventura Tecchi e altri prima di lui hanno suggerito d'abbandonarsi piuttosto alla musicalità fascinosa dell'insieme. Del resto gli sforzi interpretativi dei suoi contemporanei divertivano moltissimo Goethe, che si rifiutava con decisione di svelare le allegorie dei re d'oro, d'argento e di bronzo e degli altri personaggi misteriosi.
Nell'ultimo decennio del diciottesimo secolo Goethe, ormai più che quarantenne, senza ripudiare la forza poetica propria dell'alchimia, s'accosta alla chimica vera e propria, avviata ormai alla dignità di scienza moderna. Da consigliere influente del duca di Weimar, concepisce un progetto poco realistico: riaprire la miniera di rame abbandonata d'Ilmenau per risolvere la crisi finanziaria del ducato e i gravi problemi sociali creati dalla disoccupazione.
Ad analizzare di persona il minerale impara in un paio di giorni. Il fatto che gli ultimi gestori della miniera avessero ragione - il minerale risulta molto povero - non lo scoraggia. Va in Slesia, dove è in uso un processo estrattivo particolarmente efficace, basato sul mercurio; ma a Ilmenau non rende nemmeno questo metodo, perché di rame nel minerale ce n'è davvero troppo poco. Per puri motivi sociali, l'estrazione va comunque avanti per qualche anno.
L'amore di Goethe per la chimica non si smorza neppure dopo una seconda delusione. Nel 1783, appena gli giunge la notizia del successo dei fratelli Mongolfier nella costruzione d'un aerostato, crede che essi abbiano usato idrogeno e si mette a riempire di questo gas piccoli palloni di prova. Essi però si sgonfiano rapidamente. Goethe non capisce che la colpa è di minutissime gocce d'acido solforico, usato nella preparazione dell'idrogeno. Trascinate dal gas, corrodono l'involucro sottile che lo raccoglie.
Eppure la chimica continua a occupare un posto di rilievo nel suo cuore. Ce ne offrono una testimonianza vistosa Le affinità elettive, che anni fa un film portò all'attenzione del pubblico. Già il titolo del romanzo esprime il parallelo fra gli esseri umani e il concetto chimico d'affinità. Fra i personaggi, Edoardo legge libri di chimica, mentre il capitano cita la reazione fra acido solforico diluito e calcare: «Si ha dunque una separazione e una nuova composizione, il che giustifica l'uso dell'espressione "affinità elettiva", perché s'ha l'impressione che un rapporto venga preferito all'altro, venga eletto in luogo dell'altro».
Per la sua amante spirituale, ormai non più segreta, Goethe arriva a dimenticare gli appuntamenti con la Stein, come il 5 agosto 1784, quand'è tutto preso da un esperimento con l'ossigeno. Sette anni dopo, in cura a Bad Pyrmont, inventa un paio di giochetti che ancora oggi vengono ripetuti per chi soggiorna in quelle terme. Fa galleggiare delle bolle di sapone sulla superficie invisibile che, in una caverna con esalazioni d'anidride carbonica. separa questo gas pesante dallo strato superiore d'aria respirabile. Poi regge uno stoppino acceso, che tende a spengersi se egli lo porta in basso, ma si ravviva appena risollevato. Partendo per Weimar, Goethe porta con sé alcune bottiglie piene del gas raccolto nella grotta: gli servirà per ripetere in salotto, di fronte agli ospiti, questi due prodigi dentro a bicchieri da spumante.
Una passione fatta, insomma, di passatempi, come questi ultimi, o di velleità intellettualistiche, come la faccenda della miniera? In parte sì, ma nella chimica un ruolo importante Goethe l'ebbe davvero, seppure indiretto. Meinel, storico di questa scienza, ha rilevato che fu lui il motore d'un avvenimento tutt'altro che secondario: nel 1789 fece istituire apposta per essa una cattedra a Jena, superando dopo lotta strenua le resistenze dei professori di medicina, che in tutta l'Europa avevano interesse a mantenerla limitata come parte secondaria dei loro corsi.
Döbereiner, secondo a occupare questa cattedra, mise a punto un processo che dall'amido di patate produceva zucchero, allora scarso a causa della risposta inglese al blocco continentale napoleonico: lo zucchero di canna non poteva più arrivare dall'America, e la coltivazione della barbabietola per gli zuccherifici non aveva ancora preso piede. Col sostegno finanziario del governo e suo personale, Goethe fece costruire uno stabilimento, e partecipava in pubblico alla propaganda, bollendo l'amido con acido in un vaso di terracotta.
Döbereiner inventò poi l'accendisigari a idrogeno: il gas s'infiammava spontaneamente all'aria grazie a un catalizzatore di platino. Goethe gli consigliò invano di brevettarlo: il professore si pentì ben presto di non aver seguito il suo consiglio, perché l'apparecchietto veniva liberamente costruito - e largamente venduto - dagli artigiani.
Runge, allievo di Döbereiner, nel 1819 fu ricevuto dal settantenne Goethe, interessato alle sue ricerche sulla dilatazione della pupilla per effetto di alcaloidi. Regalandogli una scatola di chicchi di caffè, il poeta disse al giovane di lavorare anche su quelli. Poco tempo dopo Runge isolò la caffeina.
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