Bene e Klossowski. Forme di un dialogo
Bene e Klossowski. Forme di un dialogo
A prima vista un avvicinamento – sfociato poi in amicizia e collaborazione – fra lo scrittore, saggista e disegnatore Pierre Klossowski e l’attore, regista e scrittore Carmelo Bene poteva dirsi confinato nell’ambito dell’improbabile. Erano in causa infatti due personaggi provenienti da mondi del tutto diversi: non è certo un’inezia, per limitarci all’emblematico dato iniziale, la differenza che intercorre fra l’essere nati a Parigi nel 1905 e a Campi Salentina nel 1937. Quando però, vari decenni dopo, i rispettivi percorsi artistici e intellettuali giungono di fatto ad incrociarsi, la distanza si è ormai ridotta in misura considerevole: il più giovane conosce bene le opere del più anziano, e a quest’ultimo non mancano certo le doti necessarie a comprendere di trovarsi di fronte ad un artista di livello tutt’altro che comune.
Il primo incontro è probabilmente quello, propiziato da Jean-Paul Manganaro e descritto più volte da Bene, che ha luogo nel 1977 a Parigi, in un caffè situato di fronte all’entrata degli artisti dell’Opéra-Comique, teatro in cui Carmelo sta per rappresentare il suo S.A.D.E. I due, oltre a brindare con cocktail a base di vodka e kir, familiarizzano subito, discutendo in francese di Nietzsche e di teologia(1). Dopo vari altri contatti, Klossowski rende pubblica la sua ammirazione per l’amico scrivendo alcuni testi di rilievo. In seguito il vulcanico attore-regista, nell’ambito dello sfortunato progetto veneziano della Biennale Teatro 1989, ipotizza di incentrare il secondo ciclo di attività di ricerca (1991-92) sul romanzo klossowskiano Le Baphomet(2). L’iniziativa prevede fra l’altro l’edificazione, su un’isola della laguna veneta, di una sorta di tempio neoclassico istoriato a partire da opere grafiche dello scrittore francese. Nonostante il rapido e conflittuale estinguersi del rapporto fra Bene e la Biennale, Klossowski (che, ricordiamolo, è già ultraottantenne) profonde in quest’iniziativa un notevole impegno, realizzando numerosi disegni a matite colorate e registrando una lettura di parte del romanzo(3). In seguito, ai due amici manca forse il tempo di riprendere in forma mutata il progetto: il più anziano muore infatti nel 2001, mentre l’altro, precocemente, l’anno successivo.
Fin qui, ridotti al minimo, i dati esteriori. Resta però da capire quali siano stati gli effettivi punti di contatto, sul piano delle idee, fra due personaggi così originali e multiformi. Al fine di comprendere cos’abbia rappresentato per Bene il suo interlocutore, può essere utile considerare dapprima gli aspetti della vita e dell’opera klossowskiane su cui egli non ha mostrato di volersi soffermare, pur potendo ragionevolmente farlo. Notiamo subito che, ai suoi occhi, Klossowski non è affatto una «vecchia gloria» o un illustre testimone del passato, ossia qualcuno che ha avuto il privilegio di appartenere a una stagione ormai mitica dell’arte e della cultura, tanto da poter vantare, col succedersi delle varie generazioni, la propria amicizia con personaggi di spicco che vanno da Gide a Rilke, da Bataille a Benjamin, da Lacan a Barthes, da Deleuze a Foucault, per citarne solo alcuni. Curiosamente, Bene non ha fatto cenno neppure ad altri episodi della biografia klossowskiana, che in teoria avrebbero dovuto attrarre la sua attenzione, essendo connessi al mondo teatrale o cinematografico. Ha passato così sotto silenzio – nonostante l’interesse che da sempre ha rivolto ad Artaud – il fatto che una delle ipotizzate rappresentazioni del Théâtre de la Cruauté, Le Château de Valmore, avrebbe dovuto basarsi sull’adattamento di un racconto di Sade, Eugénie de Franval, realizzato dal giovanissimo Klossowski(4). Né si è premurato di ricordare che più tardi lo scrittore è stato, per qualche aspetto, un uomo di spettacolo: è noto infatti che, prendendo spunto da una delle proprie opere narrative, Roberte ce soir(5), egli si era cimentato, con la complicità della moglie e di alcuni amici, in tentativi di rappresentazione scenica, sia pure condotti in forma rigorosamente privata(6). Tali tentativi hanno a loro volta ispirato opere successive, come il romanzo Le Souffleur ou Un théâtre de société oppure il filmRoberte, in cui lo stesso Klossowski figura, assieme alla consorte, nelle vesti di attore(7).
L’autore francese viene visto dunque da Carmelo soprattutto come un filosofo e un narratore, le cui idee non sono da assumere in prospettiva storica, ma in stretta connessione col presente. Tuttavia occorre aggiungere che esistono anche aspetti del pensiero klossowskiano per i quali Bene dimostra idiosincrasia, in particolare quelli connessi al presunto «cattolicesimo» dell’amico, che proprio perciò viene da lui affettuosamente sbeffeggiato col nomignolo di «Saint-Pierre»(8). Se dissenso si manifesta, è proprio quando il più giovane sospetta, a ragione o a torto, inflessioni religiose nel linguaggio dell’altro: «Una sera a cena gli proposi questa definizione del porno: “Il porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò: “Très beau, Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è l’al di là del desiderio”. Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in quella definizione»(9). Tuttavia la consonanza di fondo trova conferma nel fatto che, in un verso del suo poema plurilinguistico, Bene non esita ad applicare all’osceno (termine che per lui è sinonimo di «porno») la formula klossowskiana: «Ob-sceno è l’au-delà del our desire»(10). Inoltre gli è ben chiaro che le posizioni teoriche del suo interlocutore sono incompatibili con qualunque ortodossia cristiana: non a caso egli parla, sempre scherzosamente, di un «Saint-Pierre Klossowski politeista»(11).
Carmelo ritiene di aver di fronte in primo luogo un grande studioso di due autori a cui egli attribuisce particolare importanza, ossia Sade e Nietzsche. Tuttavia si dimostra originale anche come lettore delle opere klossowskiane, manifestando la propria predilezione per certi particolari testi. Così dichiara di preferire alla prima versione di Sade mon prochain la seconda, e in particolare il nuovo saggio introduttivo,Le philosophe scélérat(12), oppure mostra di aver presente, più ancora della grande monografia sul filosofo tedesco, un saggio anteriore, dal titolo Nietzsche, le polythéisme et la parodie(13). Naturalmente non si tratta di una mera questione di gusti personali, perché si potrebbe mostrare come questi testi contengano temi e concetti che sono in accordo con le idee e con lo stesso operare artistico di Bene. Per brevità e a puro titolo di esempio, citeremo solo un passo da ciascuno dei due scritti cui si è fatto riferimento. In Le philosophe scélérat, Klossowski osserva che il personaggio sadiano del perverso «si comporta essenzialmente da maniaco: subordina il proprio godimento all’esecuzione di un unico gesto […]. Nel contesto di quel che all’epoca viene chiamato “libertinaggio”, niente è meno libero del gesto del perverso. Infatti, se per libertinaggio s’intende la pura e semplice propensione all’orgia, per quanto priva di scrupoli possa essere, il desiderio del perverso si soddisfa sempre e soltanto grazie al gusto scrupoloso per un dettaglio, alla ricerca accurata di esso, ad un gesto che mira scrupolosamente a quel dettaglio, e il cui assillo sfugge a chi si abbandona allo scatenarsi di appetiti banali»(14). Un brano del genere può essere letto come una sorta di programma di scena per un preciso lavoro teatrale di Bene, il già citato S.A.D.E., dove il padrone, tormentato da un tic masturbatorio, trova modo di sfogarsi solo quando gli viene dato di assistere al verificarsi di circostanze del tutto specifiche, faticosamente ricostruite e simulate dal servo. Quanto a Nietzsche, le polythéisme et la parodie, la scelta potrebbe cadere su un passo come il seguente: «Il problema dell’attore in Nietzsche, e dell’irruzione di una potenza nel sedicente carattere, che minaccia di sommergerlo sino ad estinguerlo, concerne in modo immediato l’identità stessa di Nietzsche, la rimessa in causa di quest’identità considerata come fortuitamente ricevuta, e dunque assunta come può esserlo un ruolo – in quanto il ruolo scelto fra molti altri da interpretare poteva essere respinto al modo di una maschera in favore di un’altra»(15). Anche per Carmelo si tratta essenzialmente di mostrare che l’identità del personaggio (e, a un diverso livello, quella dell’attore) è destinata a dissolversi, per effetto del concorrere di pulsioni differenti e contraddittorie, che lo dominano e che rappresentano al tempo stesso delle possibilità e degli impedimenti. Come direbbe lo stesso Bene, «handicappati da questa selva di significanti che noi stessi predisponiamo in scena, non possiamo che dimetterci in quanto significati, in corpo e voce, perché in balìa di una molteplicità incalcolabile di doppi»(16).
Senza voler fare un inventario completo dei testi klossowskiani citati da Carmelo, noteremo che egli si è richiamato più volte ad uno scritto complesso e provocatorio quale La monnaie vivante, definendolo «una grande lezione d’economia», un «superbo saggioeconomico»(17). Ciò che lo colpisce, in esso, è il discorso relativo alla mercificazione della donna, specie in quanto attrice o diva cinematografica; è noto però che a un tale processo degradante Klossowski non contrappone un’utopia di tipo liberatorio, bensì l’aspirazione ad una società in cui i singoli individui possano essere considerati non più solo come produttori o consumatori, ma anche come «moneta vivente» (il cui valore sarà particolarmente elevato, ad esempio, nel caso delle star di cui sopra). Bene trova negli argomenti usati dallo scrittore francese la conferma di una propria tesi, quella della perdita di prestigio che ha colpito la moderna donna di spettacolo; egli si dichiara infatti nostalgico del teatro elisabettiano, che, bandendo radicalmente dal palcoscenico ogni presenza femminile, riusciva ad esaltare la femminilità (di entrambi i sessi) (18). Sempre in connessione a problematiche che riguardano direttamente il proprio lavoro, Carmelo presta attenzione ad un altro saggio klossowskiano, nel quale si parla dei giochi scenici dell’antica Roma. Bene riassume così i temi che lo attraggono: «Un corpo animato e gestito da matrone lascive, donzelle e fanciulle lussuriose. Dopo la preghiera e l’adorazione, gli dei incarnati in siffatte scollacciate figure davano spettacolo osceno di sé nei pubblici teatri. […] Simulacri divini, di per sé inaccessibili, invisibili, impassibili, che assumono dei corpi osceni e metamorfici. Dove poi si è soffermata tanta demonologia della chiesa, da Tertulliano, Sant’Agostino, gli altri padri. È questa la perversità del genio nel suo abbandonarsi all’atto, istigato dalla sterminata galassia dei doppi»(19). In quel remoto contesto culturale, le donne erano sì presenti sulla scena, ma solo in quanto simulacri viventi di divinità, ovvero in quanto corpi resi gloriosi dal proprio totale spossessamento.
Fin qui non si è ancora detto nulla del modo in cui Bene ha letto gli scritti narrativi di Klossowski, ma il problema non può essere eluso del tutto, specie in relazione alBaphomet, opera tanto stimolante per l’attore-regista italiano da fargli concepire l’idea di darle voce e figura. Anche se non è possibile descrivere un lavoro teatrale che, per i motivi di cui si è detto, non è giunto a compimento, resta lecito formulare alcune considerazioni di carattere generale, sulla base delle dichiarazioni fornite dallo stesso Carmelo. Un primo dato da sottolineare, perché conferma come le scelte dell’attore-regista non siano mai le più banali e prevedibili, consiste nel fatto che egli non ha preso in considerazione i testi klossowskiani scritti in forma esplicitamente teatrale(20). Inoltre, se si considera lo stessoBaphomet, si nota subito che esso è composto da due sezioni distinte: la prima è un ampio prologo, nel quale vengono riferiti gli eventi che avrebbero preceduto, agli inizi del Trecento, lo scioglimento dell’Ordine dei Templari, mentre tutto ciò che segue ha luogo in un sorprendente aldilà, dove turbinano i «soffi spirati», pronti ad assumere le più diverse parvenze corporee. Ebbene, a giudicare da ciò che Carmelo dice quando parla dell’opera, la sua attenzione si incentra non tanto sulla prima parte, quella più «terrestre» e dunque più agevole da visualizzare(21), quanto sulla seconda. A suo avviso, infatti, è il teatro in sé, così come viene da lui concepito, che tende a somigliare allo scenario ultraterreno descritto nel romanzo: «Se con queste congenite qualità affronti la questione teatrale, ti accorgi che non c’è più nulla da questionare, che non c’è più nulla da affermare o negare. Ti accorgi che la scena è un ideale tappeto del vuoto, il ring del nulla, dove si sfondano le porte aperte e i soffi del Principe dei mutamenti di Klossowski circolano, vanno e vengono. Soffio klossowskiano da flatus. Respirare è questo soffio dell’“eroismo templare” che ancora festeggia nell’eterno ritorno (dell’eterno) l’anniversario del proprio falò umano»(22). Basterebbe un passo del genere a farci rimpiangere la mancata realizzazione del Baphomet da parte di Bene.
Resta ancora da indagare sull’altro versante del dialogo, ossia sul modo in cui Klossowski si è rapportato all’opera dell’attore-regista italiano. In questo caso, però, il compito è reso più agevole dal fatto che esistono alcuni testi nei quali il punto di vista dello scrittore si trova esposto con chiarezza. Il più ampio e importante, che ha per titolo Ce que me suggère le jeu de Carmelo Bene, è stato del resto definito dallo stesso dedicatario come un «sintetico, eccezionale saggio sul mio teatro»(23). Klossowski esordisce confrontando il modello di recitazione dominante nel teatro occidentale degli ultimi secoli, basato sull’identificazione dell’attore con una determinata figura desunta da un copione già scritto, con quello adottato invece da Carmelo, il quale rifiuta di offrire allo spettatore un’immagine convenzionale e rassicurante del personaggio, e «rivela in esso stati e gesticolazioni contraddittori, ma che conseguono da identità discontinue»(24). Ciò presuppone un altro modo di rapportarsi all’interpretazione scenica, ed anche una diversa concezione della persona dell’attore che, «perdendo essa stessa tale certezza di sé, costretta da identità coesistenti nel proprio individuo, non potrebbe esprimerle diversamente che contraffacendole come altrettante potenze sconosciute che si disputano il suo corpo»(25). Quello di Bene è dunque un operare complesso, che concerne i due distinti piani della dramatis persona e dell’interprete, e tiene conto idealmente anche di un terzo livello, quello delle scissioni o delle virtualità che è lecito ipotizzare nella mente del drammaturgo al momento di concepire i propri personaggi. Ma non è affatto in causa una teoria o prassi d’avanguardia, poiché anzi «Carmelo restituisce il significato metafisico del teatro, e più in particolare dei giochi scenici in cui degeneravano le divinità del politeismo romano»(26). Klossowski torna qui su tematiche a lui care, come quella del «demone intermediario» che, secondo le teorie neoplatoniche, si sarebbe prestato ad offrire un simulacro corporeo a divinità di per sé inaccessibili all’essere umano(27). L’attore dei giochi scenici pagani svolgeva, in certo modo, la stessa funzione, ed è appunto a tale figura storicamente remota che lo scrittore francese ritiene si possa ricondurre il modo di recitare di Bene. Ciò però non impedisce a quest’ultimo di manifestare una problematica quanto mai attuale, che riguarda da vicino lo spettatore: «Ad ogni istante, appena assistiamo ai gesti, appena percepiamo il proferire urlante o sussurrante di Carmelo, è il nostro proprio dilemma quello che ci afferra alla gola: dove, in quali circostanze possiamo riconoscerci come crediamo di essere, finché siamo? Carmelo, dotato effettivamente di un corpo sottile, è l’interprete per eccellenza delle anime separate dai loro corpi o dei corpi separati dalle loro anime»(28). L’attore si pone dunque come colui che esteriorizza sulla scena, in modo al tempo stesso mirabile e spietato, le incertezze di fondo sulla propria identità che l’uomo contemporaneo si sforza invano di rimuovere.
Klossowski ha redatto anche una nota senza titolo sul Manfred di Bene(29). Questo breve scritto, pur essendo riferito ad un’opera musicale (restituita però da Carmelo «nel suo carattere di oratorio vaticinante»), ci riconduce in altra forma alle tematiche già evidenziate: «Tra l’orchestra e il coro, Carmelo dà vita alla fisionomia di Manfred agitato dal desiderio furioso di abolire l’immortalità della propria anima, mentre si dibatte contro i demoni e le potenze celesti che di volta in volta l’assalgono – egli stesso simula talora i loro sussurri insinuanti». Traendo da sé, oltre alla voce del protagonista, anche quelle degli altri personaggi maschili, demoni inclusi, Bene non si limita a dimostrare le proprie doti recitative, ma esprime con chiarezza l’idea che tutto avviene nella mente di Manfred, o dell’attore-regista che gli dà vita. In questa versione, si assiste dunque alla coincidenza fra un tema dell’opera, quello dell’evocazione di presenze altre, e le modalità esecutive dell’opera stessa: in tal senso Klossowski può parlare di quell’«attualizzazione dello spazio degli spiriti di cui Carmelo Bene si rivela qui, ancora una volta, l’evocatore eccezionale». Sia il personaggio che l’attore fanno la stessa cosa: danno voce e corpo a virtualità demoniche che contengono dentro di sé.
L’ultimo dei testi klossowskiani dedicati a Bene risale ad un periodo successivo, quello del lavoro comune condotto nell’ambito della Biennale Teatro(30). Si tratta di uno scritto piuttosto singolare già nella forma, essendo costituito da una serie di frammenti di poche righe ciascuno. L’autore contrappone all’idea tradizionale del teatro, basata sul desiderio di vedere degli spettatori, una diversa concezione, di cui il laboratorio veneziano creato da Bene, ermeticamente chiuso al pubblico, è la migliore dimostrazione. Alla base di questa scelta c’è «un’esperienza d’attore: non di un attore che dice non sono fatto per fare teatro, nient’affatto – perché Carmelo è la personalità più emozionante del nostro tempo… – ma, al contrario, perché Carmelo ha scoperto e svelato un problema»(31). Negare l’accesso agli spettatori rappresenta un modo efficace per evidenziare la necessità e l’importanza che la prassi teatrale potrebbe acquisire attraverso il superamento delle convenzioni: «Il teatro è un giuoco necessario, ma le forme nascondono il bisogno di quel teatro che Carmelo vuole inventare. Bisogna eccedere le forme»(32). Pur facendo vari riferimenti, in apparenza divaganti, a Sade, Fourier e Nietzsche, Klossowski non manca di esporre una propria visione del ruolo dell’attore, ruolo quasi chirurgico e salvifico giacché consiste nel «guarire» e non nel divertire. Del resto, sia per lui che per Carmelo, non è ormai più possibile pensare ad un teatro di intrattenimento: «A partire dalla passeggiata di Nietzsche, la commedia è finita…»(33). Ed è forse proprio l’idea che l’attività artistica non può lasciare indenne né chi la pratica né chi la fruisce a costituire il più saldo punto di contatto fra due artefici e pensatori pur diversi come Bene e Klossowski, e a rendere lo studio dell’opera di entrambi così necessario per noi oggi.
Il primo incontro è probabilmente quello, propiziato da Jean-Paul Manganaro e descritto più volte da Bene, che ha luogo nel 1977 a Parigi, in un caffè situato di fronte all’entrata degli artisti dell’Opéra-Comique, teatro in cui Carmelo sta per rappresentare il suo S.A.D.E. I due, oltre a brindare con cocktail a base di vodka e kir, familiarizzano subito, discutendo in francese di Nietzsche e di teologia(1). Dopo vari altri contatti, Klossowski rende pubblica la sua ammirazione per l’amico scrivendo alcuni testi di rilievo. In seguito il vulcanico attore-regista, nell’ambito dello sfortunato progetto veneziano della Biennale Teatro 1989, ipotizza di incentrare il secondo ciclo di attività di ricerca (1991-92) sul romanzo klossowskiano Le Baphomet(2). L’iniziativa prevede fra l’altro l’edificazione, su un’isola della laguna veneta, di una sorta di tempio neoclassico istoriato a partire da opere grafiche dello scrittore francese. Nonostante il rapido e conflittuale estinguersi del rapporto fra Bene e la Biennale, Klossowski (che, ricordiamolo, è già ultraottantenne) profonde in quest’iniziativa un notevole impegno, realizzando numerosi disegni a matite colorate e registrando una lettura di parte del romanzo(3). In seguito, ai due amici manca forse il tempo di riprendere in forma mutata il progetto: il più anziano muore infatti nel 2001, mentre l’altro, precocemente, l’anno successivo.
Fin qui, ridotti al minimo, i dati esteriori. Resta però da capire quali siano stati gli effettivi punti di contatto, sul piano delle idee, fra due personaggi così originali e multiformi. Al fine di comprendere cos’abbia rappresentato per Bene il suo interlocutore, può essere utile considerare dapprima gli aspetti della vita e dell’opera klossowskiane su cui egli non ha mostrato di volersi soffermare, pur potendo ragionevolmente farlo. Notiamo subito che, ai suoi occhi, Klossowski non è affatto una «vecchia gloria» o un illustre testimone del passato, ossia qualcuno che ha avuto il privilegio di appartenere a una stagione ormai mitica dell’arte e della cultura, tanto da poter vantare, col succedersi delle varie generazioni, la propria amicizia con personaggi di spicco che vanno da Gide a Rilke, da Bataille a Benjamin, da Lacan a Barthes, da Deleuze a Foucault, per citarne solo alcuni. Curiosamente, Bene non ha fatto cenno neppure ad altri episodi della biografia klossowskiana, che in teoria avrebbero dovuto attrarre la sua attenzione, essendo connessi al mondo teatrale o cinematografico. Ha passato così sotto silenzio – nonostante l’interesse che da sempre ha rivolto ad Artaud – il fatto che una delle ipotizzate rappresentazioni del Théâtre de la Cruauté, Le Château de Valmore, avrebbe dovuto basarsi sull’adattamento di un racconto di Sade, Eugénie de Franval, realizzato dal giovanissimo Klossowski(4). Né si è premurato di ricordare che più tardi lo scrittore è stato, per qualche aspetto, un uomo di spettacolo: è noto infatti che, prendendo spunto da una delle proprie opere narrative, Roberte ce soir(5), egli si era cimentato, con la complicità della moglie e di alcuni amici, in tentativi di rappresentazione scenica, sia pure condotti in forma rigorosamente privata(6). Tali tentativi hanno a loro volta ispirato opere successive, come il romanzo Le Souffleur ou Un théâtre de société oppure il filmRoberte, in cui lo stesso Klossowski figura, assieme alla consorte, nelle vesti di attore(7).
L’autore francese viene visto dunque da Carmelo soprattutto come un filosofo e un narratore, le cui idee non sono da assumere in prospettiva storica, ma in stretta connessione col presente. Tuttavia occorre aggiungere che esistono anche aspetti del pensiero klossowskiano per i quali Bene dimostra idiosincrasia, in particolare quelli connessi al presunto «cattolicesimo» dell’amico, che proprio perciò viene da lui affettuosamente sbeffeggiato col nomignolo di «Saint-Pierre»(8). Se dissenso si manifesta, è proprio quando il più giovane sospetta, a ragione o a torto, inflessioni religiose nel linguaggio dell’altro: «Una sera a cena gli proposi questa definizione del porno: “Il porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò: “Très beau, Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è l’al di là del desiderio”. Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in quella definizione»(9). Tuttavia la consonanza di fondo trova conferma nel fatto che, in un verso del suo poema plurilinguistico, Bene non esita ad applicare all’osceno (termine che per lui è sinonimo di «porno») la formula klossowskiana: «Ob-sceno è l’au-delà del our desire»(10). Inoltre gli è ben chiaro che le posizioni teoriche del suo interlocutore sono incompatibili con qualunque ortodossia cristiana: non a caso egli parla, sempre scherzosamente, di un «Saint-Pierre Klossowski politeista»(11).
Carmelo ritiene di aver di fronte in primo luogo un grande studioso di due autori a cui egli attribuisce particolare importanza, ossia Sade e Nietzsche. Tuttavia si dimostra originale anche come lettore delle opere klossowskiane, manifestando la propria predilezione per certi particolari testi. Così dichiara di preferire alla prima versione di Sade mon prochain la seconda, e in particolare il nuovo saggio introduttivo,Le philosophe scélérat(12), oppure mostra di aver presente, più ancora della grande monografia sul filosofo tedesco, un saggio anteriore, dal titolo Nietzsche, le polythéisme et la parodie(13). Naturalmente non si tratta di una mera questione di gusti personali, perché si potrebbe mostrare come questi testi contengano temi e concetti che sono in accordo con le idee e con lo stesso operare artistico di Bene. Per brevità e a puro titolo di esempio, citeremo solo un passo da ciascuno dei due scritti cui si è fatto riferimento. In Le philosophe scélérat, Klossowski osserva che il personaggio sadiano del perverso «si comporta essenzialmente da maniaco: subordina il proprio godimento all’esecuzione di un unico gesto […]. Nel contesto di quel che all’epoca viene chiamato “libertinaggio”, niente è meno libero del gesto del perverso. Infatti, se per libertinaggio s’intende la pura e semplice propensione all’orgia, per quanto priva di scrupoli possa essere, il desiderio del perverso si soddisfa sempre e soltanto grazie al gusto scrupoloso per un dettaglio, alla ricerca accurata di esso, ad un gesto che mira scrupolosamente a quel dettaglio, e il cui assillo sfugge a chi si abbandona allo scatenarsi di appetiti banali»(14). Un brano del genere può essere letto come una sorta di programma di scena per un preciso lavoro teatrale di Bene, il già citato S.A.D.E., dove il padrone, tormentato da un tic masturbatorio, trova modo di sfogarsi solo quando gli viene dato di assistere al verificarsi di circostanze del tutto specifiche, faticosamente ricostruite e simulate dal servo. Quanto a Nietzsche, le polythéisme et la parodie, la scelta potrebbe cadere su un passo come il seguente: «Il problema dell’attore in Nietzsche, e dell’irruzione di una potenza nel sedicente carattere, che minaccia di sommergerlo sino ad estinguerlo, concerne in modo immediato l’identità stessa di Nietzsche, la rimessa in causa di quest’identità considerata come fortuitamente ricevuta, e dunque assunta come può esserlo un ruolo – in quanto il ruolo scelto fra molti altri da interpretare poteva essere respinto al modo di una maschera in favore di un’altra»(15). Anche per Carmelo si tratta essenzialmente di mostrare che l’identità del personaggio (e, a un diverso livello, quella dell’attore) è destinata a dissolversi, per effetto del concorrere di pulsioni differenti e contraddittorie, che lo dominano e che rappresentano al tempo stesso delle possibilità e degli impedimenti. Come direbbe lo stesso Bene, «handicappati da questa selva di significanti che noi stessi predisponiamo in scena, non possiamo che dimetterci in quanto significati, in corpo e voce, perché in balìa di una molteplicità incalcolabile di doppi»(16).
Senza voler fare un inventario completo dei testi klossowskiani citati da Carmelo, noteremo che egli si è richiamato più volte ad uno scritto complesso e provocatorio quale La monnaie vivante, definendolo «una grande lezione d’economia», un «superbo saggioeconomico»(17). Ciò che lo colpisce, in esso, è il discorso relativo alla mercificazione della donna, specie in quanto attrice o diva cinematografica; è noto però che a un tale processo degradante Klossowski non contrappone un’utopia di tipo liberatorio, bensì l’aspirazione ad una società in cui i singoli individui possano essere considerati non più solo come produttori o consumatori, ma anche come «moneta vivente» (il cui valore sarà particolarmente elevato, ad esempio, nel caso delle star di cui sopra). Bene trova negli argomenti usati dallo scrittore francese la conferma di una propria tesi, quella della perdita di prestigio che ha colpito la moderna donna di spettacolo; egli si dichiara infatti nostalgico del teatro elisabettiano, che, bandendo radicalmente dal palcoscenico ogni presenza femminile, riusciva ad esaltare la femminilità (di entrambi i sessi) (18). Sempre in connessione a problematiche che riguardano direttamente il proprio lavoro, Carmelo presta attenzione ad un altro saggio klossowskiano, nel quale si parla dei giochi scenici dell’antica Roma. Bene riassume così i temi che lo attraggono: «Un corpo animato e gestito da matrone lascive, donzelle e fanciulle lussuriose. Dopo la preghiera e l’adorazione, gli dei incarnati in siffatte scollacciate figure davano spettacolo osceno di sé nei pubblici teatri. […] Simulacri divini, di per sé inaccessibili, invisibili, impassibili, che assumono dei corpi osceni e metamorfici. Dove poi si è soffermata tanta demonologia della chiesa, da Tertulliano, Sant’Agostino, gli altri padri. È questa la perversità del genio nel suo abbandonarsi all’atto, istigato dalla sterminata galassia dei doppi»(19). In quel remoto contesto culturale, le donne erano sì presenti sulla scena, ma solo in quanto simulacri viventi di divinità, ovvero in quanto corpi resi gloriosi dal proprio totale spossessamento.
Fin qui non si è ancora detto nulla del modo in cui Bene ha letto gli scritti narrativi di Klossowski, ma il problema non può essere eluso del tutto, specie in relazione alBaphomet, opera tanto stimolante per l’attore-regista italiano da fargli concepire l’idea di darle voce e figura. Anche se non è possibile descrivere un lavoro teatrale che, per i motivi di cui si è detto, non è giunto a compimento, resta lecito formulare alcune considerazioni di carattere generale, sulla base delle dichiarazioni fornite dallo stesso Carmelo. Un primo dato da sottolineare, perché conferma come le scelte dell’attore-regista non siano mai le più banali e prevedibili, consiste nel fatto che egli non ha preso in considerazione i testi klossowskiani scritti in forma esplicitamente teatrale(20). Inoltre, se si considera lo stessoBaphomet, si nota subito che esso è composto da due sezioni distinte: la prima è un ampio prologo, nel quale vengono riferiti gli eventi che avrebbero preceduto, agli inizi del Trecento, lo scioglimento dell’Ordine dei Templari, mentre tutto ciò che segue ha luogo in un sorprendente aldilà, dove turbinano i «soffi spirati», pronti ad assumere le più diverse parvenze corporee. Ebbene, a giudicare da ciò che Carmelo dice quando parla dell’opera, la sua attenzione si incentra non tanto sulla prima parte, quella più «terrestre» e dunque più agevole da visualizzare(21), quanto sulla seconda. A suo avviso, infatti, è il teatro in sé, così come viene da lui concepito, che tende a somigliare allo scenario ultraterreno descritto nel romanzo: «Se con queste congenite qualità affronti la questione teatrale, ti accorgi che non c’è più nulla da questionare, che non c’è più nulla da affermare o negare. Ti accorgi che la scena è un ideale tappeto del vuoto, il ring del nulla, dove si sfondano le porte aperte e i soffi del Principe dei mutamenti di Klossowski circolano, vanno e vengono. Soffio klossowskiano da flatus. Respirare è questo soffio dell’“eroismo templare” che ancora festeggia nell’eterno ritorno (dell’eterno) l’anniversario del proprio falò umano»(22). Basterebbe un passo del genere a farci rimpiangere la mancata realizzazione del Baphomet da parte di Bene.
Resta ancora da indagare sull’altro versante del dialogo, ossia sul modo in cui Klossowski si è rapportato all’opera dell’attore-regista italiano. In questo caso, però, il compito è reso più agevole dal fatto che esistono alcuni testi nei quali il punto di vista dello scrittore si trova esposto con chiarezza. Il più ampio e importante, che ha per titolo Ce que me suggère le jeu de Carmelo Bene, è stato del resto definito dallo stesso dedicatario come un «sintetico, eccezionale saggio sul mio teatro»(23). Klossowski esordisce confrontando il modello di recitazione dominante nel teatro occidentale degli ultimi secoli, basato sull’identificazione dell’attore con una determinata figura desunta da un copione già scritto, con quello adottato invece da Carmelo, il quale rifiuta di offrire allo spettatore un’immagine convenzionale e rassicurante del personaggio, e «rivela in esso stati e gesticolazioni contraddittori, ma che conseguono da identità discontinue»(24). Ciò presuppone un altro modo di rapportarsi all’interpretazione scenica, ed anche una diversa concezione della persona dell’attore che, «perdendo essa stessa tale certezza di sé, costretta da identità coesistenti nel proprio individuo, non potrebbe esprimerle diversamente che contraffacendole come altrettante potenze sconosciute che si disputano il suo corpo»(25). Quello di Bene è dunque un operare complesso, che concerne i due distinti piani della dramatis persona e dell’interprete, e tiene conto idealmente anche di un terzo livello, quello delle scissioni o delle virtualità che è lecito ipotizzare nella mente del drammaturgo al momento di concepire i propri personaggi. Ma non è affatto in causa una teoria o prassi d’avanguardia, poiché anzi «Carmelo restituisce il significato metafisico del teatro, e più in particolare dei giochi scenici in cui degeneravano le divinità del politeismo romano»(26). Klossowski torna qui su tematiche a lui care, come quella del «demone intermediario» che, secondo le teorie neoplatoniche, si sarebbe prestato ad offrire un simulacro corporeo a divinità di per sé inaccessibili all’essere umano(27). L’attore dei giochi scenici pagani svolgeva, in certo modo, la stessa funzione, ed è appunto a tale figura storicamente remota che lo scrittore francese ritiene si possa ricondurre il modo di recitare di Bene. Ciò però non impedisce a quest’ultimo di manifestare una problematica quanto mai attuale, che riguarda da vicino lo spettatore: «Ad ogni istante, appena assistiamo ai gesti, appena percepiamo il proferire urlante o sussurrante di Carmelo, è il nostro proprio dilemma quello che ci afferra alla gola: dove, in quali circostanze possiamo riconoscerci come crediamo di essere, finché siamo? Carmelo, dotato effettivamente di un corpo sottile, è l’interprete per eccellenza delle anime separate dai loro corpi o dei corpi separati dalle loro anime»(28). L’attore si pone dunque come colui che esteriorizza sulla scena, in modo al tempo stesso mirabile e spietato, le incertezze di fondo sulla propria identità che l’uomo contemporaneo si sforza invano di rimuovere.
Klossowski ha redatto anche una nota senza titolo sul Manfred di Bene(29). Questo breve scritto, pur essendo riferito ad un’opera musicale (restituita però da Carmelo «nel suo carattere di oratorio vaticinante»), ci riconduce in altra forma alle tematiche già evidenziate: «Tra l’orchestra e il coro, Carmelo dà vita alla fisionomia di Manfred agitato dal desiderio furioso di abolire l’immortalità della propria anima, mentre si dibatte contro i demoni e le potenze celesti che di volta in volta l’assalgono – egli stesso simula talora i loro sussurri insinuanti». Traendo da sé, oltre alla voce del protagonista, anche quelle degli altri personaggi maschili, demoni inclusi, Bene non si limita a dimostrare le proprie doti recitative, ma esprime con chiarezza l’idea che tutto avviene nella mente di Manfred, o dell’attore-regista che gli dà vita. In questa versione, si assiste dunque alla coincidenza fra un tema dell’opera, quello dell’evocazione di presenze altre, e le modalità esecutive dell’opera stessa: in tal senso Klossowski può parlare di quell’«attualizzazione dello spazio degli spiriti di cui Carmelo Bene si rivela qui, ancora una volta, l’evocatore eccezionale». Sia il personaggio che l’attore fanno la stessa cosa: danno voce e corpo a virtualità demoniche che contengono dentro di sé.
L’ultimo dei testi klossowskiani dedicati a Bene risale ad un periodo successivo, quello del lavoro comune condotto nell’ambito della Biennale Teatro(30). Si tratta di uno scritto piuttosto singolare già nella forma, essendo costituito da una serie di frammenti di poche righe ciascuno. L’autore contrappone all’idea tradizionale del teatro, basata sul desiderio di vedere degli spettatori, una diversa concezione, di cui il laboratorio veneziano creato da Bene, ermeticamente chiuso al pubblico, è la migliore dimostrazione. Alla base di questa scelta c’è «un’esperienza d’attore: non di un attore che dice non sono fatto per fare teatro, nient’affatto – perché Carmelo è la personalità più emozionante del nostro tempo… – ma, al contrario, perché Carmelo ha scoperto e svelato un problema»(31). Negare l’accesso agli spettatori rappresenta un modo efficace per evidenziare la necessità e l’importanza che la prassi teatrale potrebbe acquisire attraverso il superamento delle convenzioni: «Il teatro è un giuoco necessario, ma le forme nascondono il bisogno di quel teatro che Carmelo vuole inventare. Bisogna eccedere le forme»(32). Pur facendo vari riferimenti, in apparenza divaganti, a Sade, Fourier e Nietzsche, Klossowski non manca di esporre una propria visione del ruolo dell’attore, ruolo quasi chirurgico e salvifico giacché consiste nel «guarire» e non nel divertire. Del resto, sia per lui che per Carmelo, non è ormai più possibile pensare ad un teatro di intrattenimento: «A partire dalla passeggiata di Nietzsche, la commedia è finita…»(33). Ed è forse proprio l’idea che l’attività artistica non può lasciare indenne né chi la pratica né chi la fruisce a costituire il più saldo punto di contatto fra due artefici e pensatori pur diversi come Bene e Klossowski, e a rendere lo studio dell’opera di entrambi così necessario per noi oggi.
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Note
Note
(1) Cfr. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Milano, Longanesi, 1983, poi in Opere, Milano, Bompiani, 1995, pp. 1160-1161, e C. Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998, pp. 323-324. Il testo del S.A.D.E. è apparso in C. Bene, A boccaperta, Torino, Einaudi, 1976 e ripreso in Opere, cit., pp. 279-349.
(2) P. Klossowski, Le Baphomet, Paris, Mercure de France, 1965; Paris, Gallimard, 1987 (tr. it. Il Bafometto, Milano, Sugar, 1966; Milano, ES, 1994).
(3) Su tutto ciò, cfr. Vita di Carmelo Bene, cit., pp. 364-374. Nel 2007 si è tenuta a Venezia, presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, una mostra dei citati lavori visivi: sedici di grande formato e cinque abbozzi più piccoli, tutti riprodotti nel catalogo Pierre Klossowski e Le Baphomet. Disegni inediti dalla collezione di Carmelo Bene, Venezia, Marsilio, 2007.
(4) Artaud annunciava questo progetto in Le Théâtre de la Cruauté (Premier manifeste), apparso nel 1932: cfr. Antonin Artaud, Le Théâtre et son Double, in Œuvres complètes, IV, Paris, Gallimard, 1978, pp. 96 e 317.
(5) P. Klossowski, Roberte ce soir, Paris, Éditions de Minuit, 1953, ripreso poi all’interno della trilogia Les lois de l’hospitalité, Paris, Gallimard, 1965 (tr. it. Le leggi dell’ospitalità, Milano, Sugar, 1968; Milano, ES, 2005).
(6) Cfr. la testimonianza di uno di questi amici, lo scrittore Michel Butor: Souvenirs sur le théâtre de société, in «Cahiers pour un temps», ottobre 1985, pp. 27-29.
(7) Cfr. P. Klossowski, Le Souffleur ou Un théâtre de société, Paris, Pauvert, 1960, poi inserito nella citata trilogia. Quanto a Roberte, si tratta di un lungometraggio a colori del 1978, realizzato dal regista Pierre Zucca sulla base di una sinossi di Klossowski. Quest’ultimo aveva partecipato anche, come interprete secondario, ad altri due film, uno celebre (Au hasard Balthazar di Robert Bresson, del 1966) e l’altro meno noto (Aline di François Weyergans, del 1967).
(8) Cfr. Sono apparso alla Madonna, cit., pp. 1160 e 1162.
(9) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 35.
(10) C. Bene, ’l mal de’ fiori, Milano, Bompiani, 2000, p. 56.
(11) Sono apparso alla Madonna, cit., pp. 1160.
(12) Cfr. P. Klossowski, Sade mon prochain, Paris, Éditions du Seuil, 1947; nuova edizione riveduta Sade mon prochain, précédé de Le philosophe scélérat, ivi, 1967 (tr. it. Sade prossimo mio, preceduto da Il filosofo scellerato, Milano, Sugar, 1970; Milano, ES, 2003).
(13) Il rinvio è a due lavori klossowskiani: il volume Nietzsche et le cercle vicieux, Paris, Mercure de France, 1969 (tr. it. Nietzsche e il circolo vizioso, Milano, Adelphi, 1981) e il saggio Nietzsche, le polythéisme et la parodie, in Un si funeste désir, Paris, Gallimard, 1963, pp. 185-228 (tr. it. Nietzsche, il politeismo e la parodia, nel volume dallo stesso titolo, Milano, SE, 1999, pp. 9-55).
(14) Sade mon prochain, précédé de Le philosophe scélérat, cit., p. 29 (tr. it., edizione ES, p. 28).
(15) Nietzsche, le polythéisme et la parodie, cit., p. 218 (tr. it. p. 45).
(16) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 138.
(17) Cfr. P. Klossowski, La monnaie vivante, Paris, Éric Losfeld, 1970 (tr. it. La moneta vivente, Milano, Mimesis, 1989). Le due definizioni si leggono in Autografia d’un ritratto, in Opere, cit., pp. VIII e XXI.
(18) Su tutto ciò, cfr. Autografia d’un ritratto, cit., pp. XX-XXI, e Vita di Carmelo Bene, cit., pp. 99-100.
(19) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 332. Il libro di cui si parla è: P. Klossowski, Origines cultuelles et mythiques d’un certain comportement des dames romaines, Montpellier, Fata Morgana, 1968 (tr. it. Origini cultuali e mitiche di un certo comportamento delle dame romane, Milano, Adelphi, 1973).
(20) Alludiamo al già citato Roberte ce soir, e anche a P. Klossowski,Les derniers travaux de Gulliver, suivi de Sade et Fourier, Montpellier, Fata Morgana, 1974 (tr. it. Le ultime fatiche di Gulliver, seguito da Sade e Fourier, Pescara, Tracce, 1997).
(21) Lo dimostra il fatto che lo stesso Klossowski ha pubblicato in seguito un rifacimento, destinato alla scena, del solo prologo delBaphomet: L’Adolescent immortel, Paris, Lettres Vives, 1994 (tr. it.L’Adolescente immortale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997).
(22) Sono apparso alla Madonna, cit., pp. 1066-1067.
(23) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 330. Lo scritto klossowskiano è apparso nel 1980 nel catalogo della rappresentazione beniana delManfred (da Byron, con musica di Schumann) al Teatro alla Scala di Milano. Mai ripreso dall’autore in volume, è però agevolmente reperibile su Internet; la traduzione italiana, con l’assurdo titolo Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene, è apparsa prima in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Milano, Feltrinelli, 1981, poi in appendice ad Opere, cit., pp. 1467-1473.
(24) Ibid., tr. it. p. 1468.
(25) Ibid., tr. it. p. 1469.
(26) Ibid., tr. it. p. 1472.
(27) È l’argomento che si trova al centro di un’altra opera klossowskiana, Le bain de Diane, Paris, Pauvert, 1956; Paris, Gallimard, 1980 (tr. it. Il bagno di Diana, Milano, Silva, 1962; Milano, ES, 1993).
(28) Ce que me suggère le jeu de Carmelo Bene, tr. it. cit., p. 1473.
(29) Inclusa nel catalogo della rappresentazione milanese dell’opera, è comparsa poi nel libretto che accompagnava l’edizione discografica del Manfred (1981) e si legge ora nel booklet della versione su CD (da cui traiamo le citazioni che seguono).
(30) Lo scritto in questione è Généreux jusqu’au vice, la cui versione italiana figura in AA. VV., Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, poi in appendice ad Opere, cit., pp. 1528-1531.
(31) Ibid., pp. 1528-1529.
(32) Ibid., p. 1529.
(33) Ibid., p. 1531.
(2) P. Klossowski, Le Baphomet, Paris, Mercure de France, 1965; Paris, Gallimard, 1987 (tr. it. Il Bafometto, Milano, Sugar, 1966; Milano, ES, 1994).
(3) Su tutto ciò, cfr. Vita di Carmelo Bene, cit., pp. 364-374. Nel 2007 si è tenuta a Venezia, presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, una mostra dei citati lavori visivi: sedici di grande formato e cinque abbozzi più piccoli, tutti riprodotti nel catalogo Pierre Klossowski e Le Baphomet. Disegni inediti dalla collezione di Carmelo Bene, Venezia, Marsilio, 2007.
(4) Artaud annunciava questo progetto in Le Théâtre de la Cruauté (Premier manifeste), apparso nel 1932: cfr. Antonin Artaud, Le Théâtre et son Double, in Œuvres complètes, IV, Paris, Gallimard, 1978, pp. 96 e 317.
(5) P. Klossowski, Roberte ce soir, Paris, Éditions de Minuit, 1953, ripreso poi all’interno della trilogia Les lois de l’hospitalité, Paris, Gallimard, 1965 (tr. it. Le leggi dell’ospitalità, Milano, Sugar, 1968; Milano, ES, 2005).
(6) Cfr. la testimonianza di uno di questi amici, lo scrittore Michel Butor: Souvenirs sur le théâtre de société, in «Cahiers pour un temps», ottobre 1985, pp. 27-29.
(7) Cfr. P. Klossowski, Le Souffleur ou Un théâtre de société, Paris, Pauvert, 1960, poi inserito nella citata trilogia. Quanto a Roberte, si tratta di un lungometraggio a colori del 1978, realizzato dal regista Pierre Zucca sulla base di una sinossi di Klossowski. Quest’ultimo aveva partecipato anche, come interprete secondario, ad altri due film, uno celebre (Au hasard Balthazar di Robert Bresson, del 1966) e l’altro meno noto (Aline di François Weyergans, del 1967).
(8) Cfr. Sono apparso alla Madonna, cit., pp. 1160 e 1162.
(9) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 35.
(10) C. Bene, ’l mal de’ fiori, Milano, Bompiani, 2000, p. 56.
(11) Sono apparso alla Madonna, cit., pp. 1160.
(12) Cfr. P. Klossowski, Sade mon prochain, Paris, Éditions du Seuil, 1947; nuova edizione riveduta Sade mon prochain, précédé de Le philosophe scélérat, ivi, 1967 (tr. it. Sade prossimo mio, preceduto da Il filosofo scellerato, Milano, Sugar, 1970; Milano, ES, 2003).
(13) Il rinvio è a due lavori klossowskiani: il volume Nietzsche et le cercle vicieux, Paris, Mercure de France, 1969 (tr. it. Nietzsche e il circolo vizioso, Milano, Adelphi, 1981) e il saggio Nietzsche, le polythéisme et la parodie, in Un si funeste désir, Paris, Gallimard, 1963, pp. 185-228 (tr. it. Nietzsche, il politeismo e la parodia, nel volume dallo stesso titolo, Milano, SE, 1999, pp. 9-55).
(14) Sade mon prochain, précédé de Le philosophe scélérat, cit., p. 29 (tr. it., edizione ES, p. 28).
(15) Nietzsche, le polythéisme et la parodie, cit., p. 218 (tr. it. p. 45).
(16) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 138.
(17) Cfr. P. Klossowski, La monnaie vivante, Paris, Éric Losfeld, 1970 (tr. it. La moneta vivente, Milano, Mimesis, 1989). Le due definizioni si leggono in Autografia d’un ritratto, in Opere, cit., pp. VIII e XXI.
(18) Su tutto ciò, cfr. Autografia d’un ritratto, cit., pp. XX-XXI, e Vita di Carmelo Bene, cit., pp. 99-100.
(19) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 332. Il libro di cui si parla è: P. Klossowski, Origines cultuelles et mythiques d’un certain comportement des dames romaines, Montpellier, Fata Morgana, 1968 (tr. it. Origini cultuali e mitiche di un certo comportamento delle dame romane, Milano, Adelphi, 1973).
(20) Alludiamo al già citato Roberte ce soir, e anche a P. Klossowski,Les derniers travaux de Gulliver, suivi de Sade et Fourier, Montpellier, Fata Morgana, 1974 (tr. it. Le ultime fatiche di Gulliver, seguito da Sade e Fourier, Pescara, Tracce, 1997).
(21) Lo dimostra il fatto che lo stesso Klossowski ha pubblicato in seguito un rifacimento, destinato alla scena, del solo prologo delBaphomet: L’Adolescent immortel, Paris, Lettres Vives, 1994 (tr. it.L’Adolescente immortale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997).
(22) Sono apparso alla Madonna, cit., pp. 1066-1067.
(23) Vita di Carmelo Bene, cit., p. 330. Lo scritto klossowskiano è apparso nel 1980 nel catalogo della rappresentazione beniana delManfred (da Byron, con musica di Schumann) al Teatro alla Scala di Milano. Mai ripreso dall’autore in volume, è però agevolmente reperibile su Internet; la traduzione italiana, con l’assurdo titolo Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene, è apparsa prima in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Milano, Feltrinelli, 1981, poi in appendice ad Opere, cit., pp. 1467-1473.
(24) Ibid., tr. it. p. 1468.
(25) Ibid., tr. it. p. 1469.
(26) Ibid., tr. it. p. 1472.
(27) È l’argomento che si trova al centro di un’altra opera klossowskiana, Le bain de Diane, Paris, Pauvert, 1956; Paris, Gallimard, 1980 (tr. it. Il bagno di Diana, Milano, Silva, 1962; Milano, ES, 1993).
(28) Ce que me suggère le jeu de Carmelo Bene, tr. it. cit., p. 1473.
(29) Inclusa nel catalogo della rappresentazione milanese dell’opera, è comparsa poi nel libretto che accompagnava l’edizione discografica del Manfred (1981) e si legge ora nel booklet della versione su CD (da cui traiamo le citazioni che seguono).
(30) Lo scritto in questione è Généreux jusqu’au vice, la cui versione italiana figura in AA. VV., Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, poi in appendice ad Opere, cit., pp. 1528-1531.
(31) Ibid., pp. 1528-1529.
(32) Ibid., p. 1529.
(33) Ibid., p. 1531.
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