Da un incontro di civiltà nacque Milano
Il mito di fondazione della città include gli stranieri.
A differenza di quello ateniese
di EVA CANTARELLA
I miti aiutano a capire la storia? La domanda è antica. Nel Settecento, Voltaire scriveva che per capire il
mondo pagano bisognava ignorare quelle «favole assurde». Per Vico, invece, il mito era «uno specchio
della storia». Nell'Ottocento, Max Mueller considerava i racconti mitici una «malattia del linguaggio »,
frutto della incapacità degli antichi di rappresentarsi le astrazioni; per J.J. Bachofen, invece, il mito delle
Amazzoni contribuiva a dimostrare che prima del patriarcato era esistito il matriarcato. Recentemente, in
Italia, con riferimento alla storia di Roma, Andrea Carandini ha sostenuto che le nuove scoperte
archeologiche consentono di identificare il nucleo di verità storica contenuto nei miti; Emilio Gabba lo ha
escluso.
Problema complesso, quello del mito: ma forse la diversità delle posizioni può dipendere, quantomeno in
qualche misura, dalle domande che gli si pongono. Se è infatti controvertibile che esso consenta di risalire
a fatti, avvenimenti e personaggi, è assai meno difficile ammettere che aiuti a individuare le credenze, i
riti, le istituzioni e le mentalità che, nel complesso, formano la cultura di un gruppo nel senso più ampio,
antropologico di questo termine. Più in particolare, è difficile negare valore storico in questo senso ai miti
di fondazione, attraverso i quali un gruppo si racconta ed esalta la sua identità, inevitabilmente definita
nel suo rapporto con gli altri. Questo rapporto, infatti — a seconda che sia di esclusione o di inclusione —
influisce non solo sulla consapevolezza di sé dei componenti del gruppo, ma anche sulle istituzioni sociali,
politiche e la politica estera di questo. Come dimostra la lettura di due celebri miti (quello di Atene e
quello di Roma) che per questa ragione leggeremo, a mo' di paradigma, prima di chiederci come
intendere, in questa prospettiva, il mito di fondazione di Milano. Un giorno, racconta il mito ateniese,
Efesto, innamoratosi di Atena, tentò di possederla; ma non ci riuscì, e il suo seme cadde sulla gamba della
dea, che si deterse inorridita con uno straccio, e quindi lo gettò a terra. Il seme divino, tuttavia, non andò
sprecato: dalla terra fecondata nacque Erittonio, futuro re di Atene. Più che chiari i caratteri della città
che il mito tramanda: l'origine divina di questa e l'autoctonia dei suoi abitanti, dalla quale derivavano la
loro diversità e la loro fortuna: gli ateniesi — leggiamo nella Medea di Euripide — sono felici perché «figli
degli dèi beati, nati da una terra mai contaminata…».
Nella specie, dunque, il mito definisce l'identità ateniese attraverso la totale esclusione dell'altro,
segnalando la assoluta estraneità dello straniero e l'impossibilità di integrarlo: in perfetta sintonia — non
a caso — con l'organizzazione civica e la storia di Atene. Basterà un esempio: Atene era una città
commerciale, dove viveva stabilmente una categoria di persone fondamentale per la sua economia, gli
stranieri chiamati meteci (da metoikein, vivere insieme). Eppure i meteci non solo erano privi dei diritti
politici, ma non potevano possedere terre, sposare una donna ateniese, e potevano partecipare ai processi
solo con l'assistenza di un cittadino che garantiva per loro. A questo aggiungasi che il mito dell'autoctonia
da un canto descrive Atene come la città della democrazia (nati dalla terra, figli della stessa madre, tutti
gli ateniesi sono uguali), dall'altro la oppone alle altre città, composte da un assemblaggio eterogeneo di
persone provenienti da un suolo straniero. Passiamo a Roma.
Secondo la leggenda, il fondatore della città, Romolo, discendeva da Enea, l'eroe troiano sopravvissuto
alla distruzione della sua città perché destinato a perpetuare la stirpe dei troiani. Impossibile, qui,
raccontare dell'arrivo di Enea nel Lazio e del suo matrimonio con Lavinia, figlia del re Latino. Impossibile
e superfluo seguire la storia dei loro discendenti fino a Romolo, il fondatore di Roma: la profonda
differenza tra il mito di fondazione di Atene e quello di Roma è comunque evidente. Roma cerca le sue
origini in un'etnia diversa, che si fonde con la stirpe locale. In Romolo scorre sangue laziale e sangue
troiano. Come se questo non bastasse, per popolare Roma egli apre un asilo, in cui offre rifugio a
chiunque chiede ospitalità e protezione, e per ovviare alla mancanza di donne rapisce le Sabine. Per non
parlare dell'apertura sociale e culturale che accompagna la commistione di stirpi. I romani, infatti, oltre
alle altre genti, assimilavano anche gli schiavi liberati, che con la libertà acquistavano la cittadinanza
romana. Il dato etnico, per loro, era meno importate di quello politico. Per i romani integrazione voleva
dire capacità di innovazione. Questo è quel che ricorda il loro mito di fondazione.
E tutto ciò premesso, veniamo finalmente a Milano. Racconta Tito Livio (V, 34) che quando a Roma
regnava Tarquinio Prisco (siamo, dunque, all'inizio del VI secolo a.C.), la massima autorità tra i celti era
Ambigato, re dei Biturigi. Preoccupato per l'eccesso di popolazione, questi mandò due suoi nipoti, di
nome Segoveso e Belloveso, alla ricerca di nuove terre. Belloveso, seguendo l'indicazione degli dèi, si
diresse verso l'Italia, valicò le Alpi, sconfisse gli Etruschi non lontano dal Ticino e fondò una città, che
chiamò Mediolanum. Quali sono i caratteri dell'identità milanese celebrati da questo racconto?
Certamente, non l'autoctonia e la separatezza celebrate dal mito ateniese. Caratterizzando l'immigrazione
celtica come un'impresa assolutamente pacifica, la saga di Belloveso suggerisce piuttosto un incontro e
una commistione di culture: quella degli indigeni, quella dei celti venuti d'oltralpe, e nei secoli successivi
quella romana. Per mettere in evidenza il carattere composito della città Livio ricorda, non a caso, che
Belloveso fonda Milano in una zona che aveva lo stesso nome di una tribù celtica, e, celebrando le nobili e
antiche origini dei Biturigi, tende a valorizzare, all'interno della cultura romana di cui si sentiva parte
integrante, l'apporto di quella celtica, alla quale, essendo padovano, ugualmente sentiva di appartenere. A
distanza di due millenni dal momento in cui venne scritto, il mito trasmette l'immagine di una città
etnicamente e culturalmente aperta ai contributi esterni, pronta a recepirli e a trasformarli in ricchezza.
Caratteri che ha mantenuto nei secoli, oggi nuovamente alla prova dei grandi flussi migratori e degli
antichi problemi dell'ospitalità e dell'integrazione.
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Il mito di fondazione della città include gli stranieri.
A differenza di quello ateniese
di EVA CANTARELLA
I miti aiutano a capire la storia? La domanda è antica. Nel Settecento, Voltaire scriveva che per capire il
mondo pagano bisognava ignorare quelle «favole assurde». Per Vico, invece, il mito era «uno specchio
della storia». Nell'Ottocento, Max Mueller considerava i racconti mitici una «malattia del linguaggio »,
frutto della incapacità degli antichi di rappresentarsi le astrazioni; per J.J. Bachofen, invece, il mito delle
Amazzoni contribuiva a dimostrare che prima del patriarcato era esistito il matriarcato. Recentemente, in
Italia, con riferimento alla storia di Roma, Andrea Carandini ha sostenuto che le nuove scoperte
archeologiche consentono di identificare il nucleo di verità storica contenuto nei miti; Emilio Gabba lo ha
escluso.
Problema complesso, quello del mito: ma forse la diversità delle posizioni può dipendere, quantomeno in
qualche misura, dalle domande che gli si pongono. Se è infatti controvertibile che esso consenta di risalire
a fatti, avvenimenti e personaggi, è assai meno difficile ammettere che aiuti a individuare le credenze, i
riti, le istituzioni e le mentalità che, nel complesso, formano la cultura di un gruppo nel senso più ampio,
antropologico di questo termine. Più in particolare, è difficile negare valore storico in questo senso ai miti
di fondazione, attraverso i quali un gruppo si racconta ed esalta la sua identità, inevitabilmente definita
nel suo rapporto con gli altri. Questo rapporto, infatti — a seconda che sia di esclusione o di inclusione —
influisce non solo sulla consapevolezza di sé dei componenti del gruppo, ma anche sulle istituzioni sociali,
politiche e la politica estera di questo. Come dimostra la lettura di due celebri miti (quello di Atene e
quello di Roma) che per questa ragione leggeremo, a mo' di paradigma, prima di chiederci come
intendere, in questa prospettiva, il mito di fondazione di Milano. Un giorno, racconta il mito ateniese,
Efesto, innamoratosi di Atena, tentò di possederla; ma non ci riuscì, e il suo seme cadde sulla gamba della
dea, che si deterse inorridita con uno straccio, e quindi lo gettò a terra. Il seme divino, tuttavia, non andò
sprecato: dalla terra fecondata nacque Erittonio, futuro re di Atene. Più che chiari i caratteri della città
che il mito tramanda: l'origine divina di questa e l'autoctonia dei suoi abitanti, dalla quale derivavano la
loro diversità e la loro fortuna: gli ateniesi — leggiamo nella Medea di Euripide — sono felici perché «figli
degli dèi beati, nati da una terra mai contaminata…».
Nella specie, dunque, il mito definisce l'identità ateniese attraverso la totale esclusione dell'altro,
segnalando la assoluta estraneità dello straniero e l'impossibilità di integrarlo: in perfetta sintonia — non
a caso — con l'organizzazione civica e la storia di Atene. Basterà un esempio: Atene era una città
commerciale, dove viveva stabilmente una categoria di persone fondamentale per la sua economia, gli
stranieri chiamati meteci (da metoikein, vivere insieme). Eppure i meteci non solo erano privi dei diritti
politici, ma non potevano possedere terre, sposare una donna ateniese, e potevano partecipare ai processi
solo con l'assistenza di un cittadino che garantiva per loro. A questo aggiungasi che il mito dell'autoctonia
da un canto descrive Atene come la città della democrazia (nati dalla terra, figli della stessa madre, tutti
gli ateniesi sono uguali), dall'altro la oppone alle altre città, composte da un assemblaggio eterogeneo di
persone provenienti da un suolo straniero. Passiamo a Roma.
Secondo la leggenda, il fondatore della città, Romolo, discendeva da Enea, l'eroe troiano sopravvissuto
alla distruzione della sua città perché destinato a perpetuare la stirpe dei troiani. Impossibile, qui,
raccontare dell'arrivo di Enea nel Lazio e del suo matrimonio con Lavinia, figlia del re Latino. Impossibile
e superfluo seguire la storia dei loro discendenti fino a Romolo, il fondatore di Roma: la profonda
differenza tra il mito di fondazione di Atene e quello di Roma è comunque evidente. Roma cerca le sue
origini in un'etnia diversa, che si fonde con la stirpe locale. In Romolo scorre sangue laziale e sangue
troiano. Come se questo non bastasse, per popolare Roma egli apre un asilo, in cui offre rifugio a
chiunque chiede ospitalità e protezione, e per ovviare alla mancanza di donne rapisce le Sabine. Per non
parlare dell'apertura sociale e culturale che accompagna la commistione di stirpi. I romani, infatti, oltre
alle altre genti, assimilavano anche gli schiavi liberati, che con la libertà acquistavano la cittadinanza
romana. Il dato etnico, per loro, era meno importate di quello politico. Per i romani integrazione voleva
dire capacità di innovazione. Questo è quel che ricorda il loro mito di fondazione.
E tutto ciò premesso, veniamo finalmente a Milano. Racconta Tito Livio (V, 34) che quando a Roma
regnava Tarquinio Prisco (siamo, dunque, all'inizio del VI secolo a.C.), la massima autorità tra i celti era
Ambigato, re dei Biturigi. Preoccupato per l'eccesso di popolazione, questi mandò due suoi nipoti, di
nome Segoveso e Belloveso, alla ricerca di nuove terre. Belloveso, seguendo l'indicazione degli dèi, si
diresse verso l'Italia, valicò le Alpi, sconfisse gli Etruschi non lontano dal Ticino e fondò una città, che
chiamò Mediolanum. Quali sono i caratteri dell'identità milanese celebrati da questo racconto?
Certamente, non l'autoctonia e la separatezza celebrate dal mito ateniese. Caratterizzando l'immigrazione
celtica come un'impresa assolutamente pacifica, la saga di Belloveso suggerisce piuttosto un incontro e
una commistione di culture: quella degli indigeni, quella dei celti venuti d'oltralpe, e nei secoli successivi
quella romana. Per mettere in evidenza il carattere composito della città Livio ricorda, non a caso, che
Belloveso fonda Milano in una zona che aveva lo stesso nome di una tribù celtica, e, celebrando le nobili e
antiche origini dei Biturigi, tende a valorizzare, all'interno della cultura romana di cui si sentiva parte
integrante, l'apporto di quella celtica, alla quale, essendo padovano, ugualmente sentiva di appartenere. A
distanza di due millenni dal momento in cui venne scritto, il mito trasmette l'immagine di una città
etnicamente e culturalmente aperta ai contributi esterni, pronta a recepirli e a trasformarli in ricchezza.
Caratteri che ha mantenuto nei secoli, oggi nuovamente alla prova dei grandi flussi migratori e degli
antichi problemi dell'ospitalità e dell'integrazione.
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