Aquileia la madre di Venezia, l'emporio che attraverso le merci veicolo' le i-dee, le religioni e le filosofie.
Un omaggio e un ricordo a Renato Jacumin il primo studioso che affrontò e arrivo a comprendere il vero significato dei pavimenti musivi dell'aula nord.
Un cristianesimo che non era passato da Roma, ma veniva direttamente da alessandria portato dalla diaspora dei terapeuti di alessandria che lasciarono loro tracce anche a Napoli.
SULLE TRACCE DI UN PRIMITIVO CRISTIANESIMO GNOSTICO
di Diego Marin e Stefania Marin
1. Fratellanza Bianca e Terapeuti
Una delle più importanti scuole misteriche dell’antichità fu la “Grande Fratellanza Bianca” del faraone Thutmosi III (1469-1436 a.C.), in Egitto. Il nome della confraternita deriva dall'uso nei rituali di una misteriosa polvere bianca. La stessa polvere fu trovata nel 1904 sul monte Horeb dall'archeologo inglese William Matthew Flinders Petrie (1853-1942) durante un’esplorazione dell’altipiano del Sinai. Oggi il monte è conosciuto col nome di Serabit El Khadim; qui Petrie ritrovò i resti di un antico tempio egizio dedicato alla dea Hator[1], risalente al 2600 a.C. circa. In alcune zone del tempio e di fronte alla grotta-santuario di Hator, l’egittologo rinvenne una grande quantità di cenere bianca purissima, senza residui di carbone o di brace, risalente probabilmente alla XII dinastia. Lo strato "si estendeva lungo un'area di 100x50 piedi (30,5 x 15,2 m) con uno spessore oscillante fra i 3 e i 18 pollici (7,6 - 45,7 cm), ammontando globalmente ad almeno 50 tonnellate di polvere"[2]. Petrie ipotizzò che si trattasse della polvere prodotta da fumigazioni dell'incenso a scopo religioso.
L’Alto Consiglio della Fratellanza, la cui sede si trovava nel tempio di Karnak, a Luxor, era composto da trentanove uomini e donne. Più tardi un ramo di quest’Ordine divenne noto con il nome di Terapeuti (guaritori), insediato ad Eliopoli e lungo le sponde del lago Mareotis vicino a Rhakotis (poi Alessandria).
Filone di Alessandria (20 a.C. - 45 d.C.) scriveva nel De Vita contemplativa che i Terapeuti vivevano in piccoli gruppi sparsi dall'Egitto alla Grecia. Secondo il filosofo, essi praticavano una medicina superiore a tutte le altre perché non solo curava il corpo, ma anche l’anima.
La loro influenza si estese in Palestina e stimolò la nascita della setta Essena. Il termine Essene (“esseni”) deriva dalla parola aramaica asayya, che significa “medico”, che corrisponde alla parola greca essenoi, denotando allo stesso tempo qualcosa di essaios, vale a dire segreto o mistico[3]. Terapeuti ed Esseni dividevano entrambi l’anno in intervalli di cinquanta giorni, al termine dei quali celebravano una festa solenne[4].
Secondo Eusebio di Cesarea (265 - 340 d.C.) il cristianesimo in Egitto era iniziato con la conversione dei Terapeuti da parte di San Marco[5]. E la stessa idea era accettata dal santo Epifanio che li chiamava “Iesseni”. Eusebio (al pari di San Girolamo nel De viris illustribus[6]) era arrivato a sostenere - erroneamente - che la comunità dei Terapeuti fosse stata addirittura fondata da San Marco.
Una delle più importanti scuole misteriche dell’antichità fu la “Grande Fratellanza Bianca” del faraone Thutmosi III (1469-1436 a.C.), in Egitto. Il nome della confraternita deriva dall'uso nei rituali di una misteriosa polvere bianca. La stessa polvere fu trovata nel 1904 sul monte Horeb dall'archeologo inglese William Matthew Flinders Petrie (1853-1942) durante un’esplorazione dell’altipiano del Sinai. Oggi il monte è conosciuto col nome di Serabit El Khadim; qui Petrie ritrovò i resti di un antico tempio egizio dedicato alla dea Hator[1], risalente al 2600 a.C. circa. In alcune zone del tempio e di fronte alla grotta-santuario di Hator, l’egittologo rinvenne una grande quantità di cenere bianca purissima, senza residui di carbone o di brace, risalente probabilmente alla XII dinastia. Lo strato "si estendeva lungo un'area di 100x50 piedi (30,5 x 15,2 m) con uno spessore oscillante fra i 3 e i 18 pollici (7,6 - 45,7 cm), ammontando globalmente ad almeno 50 tonnellate di polvere"[2]. Petrie ipotizzò che si trattasse della polvere prodotta da fumigazioni dell'incenso a scopo religioso.
L’Alto Consiglio della Fratellanza, la cui sede si trovava nel tempio di Karnak, a Luxor, era composto da trentanove uomini e donne. Più tardi un ramo di quest’Ordine divenne noto con il nome di Terapeuti (guaritori), insediato ad Eliopoli e lungo le sponde del lago Mareotis vicino a Rhakotis (poi Alessandria).
Filone di Alessandria (20 a.C. - 45 d.C.) scriveva nel De Vita contemplativa che i Terapeuti vivevano in piccoli gruppi sparsi dall'Egitto alla Grecia. Secondo il filosofo, essi praticavano una medicina superiore a tutte le altre perché non solo curava il corpo, ma anche l’anima.
La loro influenza si estese in Palestina e stimolò la nascita della setta Essena. Il termine Essene (“esseni”) deriva dalla parola aramaica asayya, che significa “medico”, che corrisponde alla parola greca essenoi, denotando allo stesso tempo qualcosa di essaios, vale a dire segreto o mistico[3]. Terapeuti ed Esseni dividevano entrambi l’anno in intervalli di cinquanta giorni, al termine dei quali celebravano una festa solenne[4].
Secondo Eusebio di Cesarea (265 - 340 d.C.) il cristianesimo in Egitto era iniziato con la conversione dei Terapeuti da parte di San Marco[5]. E la stessa idea era accettata dal santo Epifanio che li chiamava “Iesseni”. Eusebio (al pari di San Girolamo nel De viris illustribus[6]) era arrivato a sostenere - erroneamente - che la comunità dei Terapeuti fosse stata addirittura fondata da San Marco.
2. La città di Aquileia
Era il 46 d.C. quando il terapeuta alessandrino Mamo Rosar Amru e sei suoi discepoli si convertirono al Cristianesimo a opera di San Marco, fondendo la dottrina cristiana coi misteri egiziani. I sette attraversarono il mare per attraccare in Italia, guidati da San Marco e dai discepoli di quest'ultimo. Ma probabilmente non furono i soli.
Dopo la descrizione contenuta nel De vita contemplativa, dei Terapeuti non si sa più nulla; sembrano misteriosamente scomparsi dalla scena nel I secolo d.C.. La cosa si può ragionevolmente spiegare ipotizzando una loro migrazione quasi totale in Italia.
Fondarono nuove comunità nelle città portuali di Napoli e di Otranto, così da suggerire un loro arrivo su rotte separate. Mamo assunse in quegli anni il titolo di Ormus (l’Olmo). “Ormus” era anche un acrostico, formato da un certo numero di parole chiave e di simboli. Conteneva il simbolo zodiacale della vergine al posto della M, che nel linguaggio iconografico medievale identificava sia Maria Madre di Gesù che Maria Maddalena. Le prime due lettere, “or”, significavano “Oro”, mentre le ultime due, “us”, sono una contrazione di “Ours”, il francese Orso, emblema dei re Merovingi di Francia.
I cronisti romani testimoniano che una colonia di Alessandrini si stabilì a Napoli nel I secolo d.C., precisamente nella Regio Nilensis (l’attuale via Nilo), il quartiere sud-occidentale della città. Qui si trova Piazzetta Nilo, un piccolo spiazzo che prende il nome dalla statua del dio Nilo, voluta dai coloni e collocata tutt’oggi nella posizione originaria[7]. La scultura raffigura il dio del fiume nelle vesti di un vecchio barbuto e seminudo, disteso su una pietra. Con la mano destra tiene una cornucopia, appoggiando i piedi sulla testa di un coccodrillo.
I Napoletani accolsero gli Alessandrini amichevolmente e battezzarono le colonie "le nilesi", in onore del fiume egiziano. L'odierna via Mezzocannone, uno dei tanti cardini del centro storico, era anticamente chiamata vicus Alexandrinus[8]. I coloni fusero i ulteriormente i propri misteri con gli arcani della scuola pitagorica di Napoli, dando vita ad un nuovo Ordine chiamato Rosa+Croce. La scelta del nome discende dai simboli rappresentativi dell’ordine, appunto la rosa e la croce di spine. Così scrive Erik Hornung in Egitto Esoterico:
Nell’Ordine della Rosa d’Oro di Antico Sistema, che comparve nel 1757, troviamo le dottrine segrete egizie. Esse vennero cristianizzate da un sacerdote alessandrino di nome Ormus battezzato dall’Evangelista Marco e tramandate fino all’Ordine della Rosa d’Oro, il cui massimo esponente in quel tempo era un Mago veneziano che viveva in Egitto.
In epoche più recenti Napoli ha mantenuto un ruolo centrale nell’operato delle scuole misteriche: il gran maestro Raimondo Lullo (teologo e missionario, 1233 - 1316) fu iniziato all’alchimia da una confraternita che risiedeva presso Napoli. Era stato allievo di Arnaldo da Villanova, un medico, alchimista e scrittore in catalano del XIII secolo, nonché consigliere del re d’Aragona, del papa e del re di Sicilia. Anche Arnaldo si era recato a Napoli e a Salerno per perfezionare i suoi studi di medicina. Infine guardiamo a Giordano Bruno e Tommaso Campanella, gran maestri della Rosa+Croce e alti esponenti dell’ermetismo rinascimentale. Essi trascorsero il proprio noviziato nel convento di San Domenico Maggiore, alla fine di via Nilo.
Non tutti gli alessandrini si fermarono però a Napoli o ad Otranto. Molti risalirono la penisola e lo stesso San Marco nel 50 d.C. approdò a Grado, nella laguna di fronte ad Aquileia, in Friuli Venezia Giulia (regione del nord-est italiano).
Aquileia in epoca romana era una delle città più importanti e popolate d'Italia. Essa costituiva un ponte verso l’Oriente e grazie al suo enorme porto divenne un rilevante centro di traffici commerciali con il Baltico e la Pannonia. Aquileia rappresentava un punto d’incontro vitale tra genti di diversa cultura, studiosi e dotti di ogni tipo, artisti, nobili e mercanti. Potremmo paragonarla ad Alessandria d’Egitto, con cui tra l’altro esistevano già nel I secolo d.C. rotte regolari di navigazione e commercio. Era quindi prevedibile che tra di esse si instaurassero relazioni culturali, artistiche e religiose. In tal modo sia la chiesa alessandrina che quella aquileiese poterono vantare la paternità di San Marco.
Tra il II ed il V secolo d.C. Aquileia divenne un baluardo dell’ideologia cristiana e qui iniziarono a sorgere prestigiose scuole di teologia[9]. Dal IV secolo il Patriarcato di Aquileia ebbe una vita intensa, sia in campo religioso che politico, tanto da costituire un vero e proprio punto di raccordo tra la cultura orientale (bizantina) e quella occidentale. A consacrare la sua autonomia fu, nel 554, lo Scisma dei Tre Capitoli o Tricapitolino. La chiesa aquileiese rimase libera dalla gerarchia di Roma e Costantinopoli fino al Concilio di Pavia del 699, che segnò il suo ritorno nelle fila dell'ortodossia cattolica.
Aquileia risentì pesantemente dell’arrivo di Attila e degli Unni, nel 452. Un secolo più tardi subì l’invasione longobarda (568), quando il Vescovo Paolino fuggì a Grado con il tesoro patriarcale. Venezia era allora in piena ascesa e approfittò della debolezza di Aquileia per rubarle il simbolo del Leone (di San Marco) trasformandolo nel proprio emblema.
Dal 1077 al 1420 il Patriarcato ottenne l'investitura feudale, costituendo il Principato ecclesiastico di Aquileia, feudo del Sacro Romano Impero. La diocesi di Aquileia si estendeva a parecchie zone della Pianura Padana raggiungendo Como, oltre che in territorio sloveno e in parte austriaco. Essa, unendo il mondo latino con quello germanico e slavo, formò la diocesi più grande del mondo medievale europeo, tanto da divenire la seconda chiesa per importanza dopo Roma.
Durante il Rinascimento, il Vaticano si impose gradualmente grazie ad una struttura politico-militare ormai consolidata e a un irrigidimento della dottrina, derivato dall’esigenza di contrastare i crescenti movimenti eretici. Nel luglio del 1751, papa Benedetto XIV soppresse definitivamente con la BollaIniuncta nobis il Patriarcato di Aquileia; al suo posto furono istituite l’Arcidiocesi di Udine, per il territorio soggetto alla Serenissima, e quella di Gorizia, per quello austriaco.
Era il 46 d.C. quando il terapeuta alessandrino Mamo Rosar Amru e sei suoi discepoli si convertirono al Cristianesimo a opera di San Marco, fondendo la dottrina cristiana coi misteri egiziani. I sette attraversarono il mare per attraccare in Italia, guidati da San Marco e dai discepoli di quest'ultimo. Ma probabilmente non furono i soli.
Dopo la descrizione contenuta nel De vita contemplativa, dei Terapeuti non si sa più nulla; sembrano misteriosamente scomparsi dalla scena nel I secolo d.C.. La cosa si può ragionevolmente spiegare ipotizzando una loro migrazione quasi totale in Italia.
Fondarono nuove comunità nelle città portuali di Napoli e di Otranto, così da suggerire un loro arrivo su rotte separate. Mamo assunse in quegli anni il titolo di Ormus (l’Olmo). “Ormus” era anche un acrostico, formato da un certo numero di parole chiave e di simboli. Conteneva il simbolo zodiacale della vergine al posto della M, che nel linguaggio iconografico medievale identificava sia Maria Madre di Gesù che Maria Maddalena. Le prime due lettere, “or”, significavano “Oro”, mentre le ultime due, “us”, sono una contrazione di “Ours”, il francese Orso, emblema dei re Merovingi di Francia.
I cronisti romani testimoniano che una colonia di Alessandrini si stabilì a Napoli nel I secolo d.C., precisamente nella Regio Nilensis (l’attuale via Nilo), il quartiere sud-occidentale della città. Qui si trova Piazzetta Nilo, un piccolo spiazzo che prende il nome dalla statua del dio Nilo, voluta dai coloni e collocata tutt’oggi nella posizione originaria[7]. La scultura raffigura il dio del fiume nelle vesti di un vecchio barbuto e seminudo, disteso su una pietra. Con la mano destra tiene una cornucopia, appoggiando i piedi sulla testa di un coccodrillo.
I Napoletani accolsero gli Alessandrini amichevolmente e battezzarono le colonie "le nilesi", in onore del fiume egiziano. L'odierna via Mezzocannone, uno dei tanti cardini del centro storico, era anticamente chiamata vicus Alexandrinus[8]. I coloni fusero i ulteriormente i propri misteri con gli arcani della scuola pitagorica di Napoli, dando vita ad un nuovo Ordine chiamato Rosa+Croce. La scelta del nome discende dai simboli rappresentativi dell’ordine, appunto la rosa e la croce di spine. Così scrive Erik Hornung in Egitto Esoterico:
Nell’Ordine della Rosa d’Oro di Antico Sistema, che comparve nel 1757, troviamo le dottrine segrete egizie. Esse vennero cristianizzate da un sacerdote alessandrino di nome Ormus battezzato dall’Evangelista Marco e tramandate fino all’Ordine della Rosa d’Oro, il cui massimo esponente in quel tempo era un Mago veneziano che viveva in Egitto.
In epoche più recenti Napoli ha mantenuto un ruolo centrale nell’operato delle scuole misteriche: il gran maestro Raimondo Lullo (teologo e missionario, 1233 - 1316) fu iniziato all’alchimia da una confraternita che risiedeva presso Napoli. Era stato allievo di Arnaldo da Villanova, un medico, alchimista e scrittore in catalano del XIII secolo, nonché consigliere del re d’Aragona, del papa e del re di Sicilia. Anche Arnaldo si era recato a Napoli e a Salerno per perfezionare i suoi studi di medicina. Infine guardiamo a Giordano Bruno e Tommaso Campanella, gran maestri della Rosa+Croce e alti esponenti dell’ermetismo rinascimentale. Essi trascorsero il proprio noviziato nel convento di San Domenico Maggiore, alla fine di via Nilo.
Non tutti gli alessandrini si fermarono però a Napoli o ad Otranto. Molti risalirono la penisola e lo stesso San Marco nel 50 d.C. approdò a Grado, nella laguna di fronte ad Aquileia, in Friuli Venezia Giulia (regione del nord-est italiano).
Aquileia in epoca romana era una delle città più importanti e popolate d'Italia. Essa costituiva un ponte verso l’Oriente e grazie al suo enorme porto divenne un rilevante centro di traffici commerciali con il Baltico e la Pannonia. Aquileia rappresentava un punto d’incontro vitale tra genti di diversa cultura, studiosi e dotti di ogni tipo, artisti, nobili e mercanti. Potremmo paragonarla ad Alessandria d’Egitto, con cui tra l’altro esistevano già nel I secolo d.C. rotte regolari di navigazione e commercio. Era quindi prevedibile che tra di esse si instaurassero relazioni culturali, artistiche e religiose. In tal modo sia la chiesa alessandrina che quella aquileiese poterono vantare la paternità di San Marco.
Tra il II ed il V secolo d.C. Aquileia divenne un baluardo dell’ideologia cristiana e qui iniziarono a sorgere prestigiose scuole di teologia[9]. Dal IV secolo il Patriarcato di Aquileia ebbe una vita intensa, sia in campo religioso che politico, tanto da costituire un vero e proprio punto di raccordo tra la cultura orientale (bizantina) e quella occidentale. A consacrare la sua autonomia fu, nel 554, lo Scisma dei Tre Capitoli o Tricapitolino. La chiesa aquileiese rimase libera dalla gerarchia di Roma e Costantinopoli fino al Concilio di Pavia del 699, che segnò il suo ritorno nelle fila dell'ortodossia cattolica.
Aquileia risentì pesantemente dell’arrivo di Attila e degli Unni, nel 452. Un secolo più tardi subì l’invasione longobarda (568), quando il Vescovo Paolino fuggì a Grado con il tesoro patriarcale. Venezia era allora in piena ascesa e approfittò della debolezza di Aquileia per rubarle il simbolo del Leone (di San Marco) trasformandolo nel proprio emblema.
Dal 1077 al 1420 il Patriarcato ottenne l'investitura feudale, costituendo il Principato ecclesiastico di Aquileia, feudo del Sacro Romano Impero. La diocesi di Aquileia si estendeva a parecchie zone della Pianura Padana raggiungendo Como, oltre che in territorio sloveno e in parte austriaco. Essa, unendo il mondo latino con quello germanico e slavo, formò la diocesi più grande del mondo medievale europeo, tanto da divenire la seconda chiesa per importanza dopo Roma.
Durante il Rinascimento, il Vaticano si impose gradualmente grazie ad una struttura politico-militare ormai consolidata e a un irrigidimento della dottrina, derivato dall’esigenza di contrastare i crescenti movimenti eretici. Nel luglio del 1751, papa Benedetto XIV soppresse definitivamente con la BollaIniuncta nobis il Patriarcato di Aquileia; al suo posto furono istituite l’Arcidiocesi di Udine, per il territorio soggetto alla Serenissima, e quella di Gorizia, per quello austriaco.
3. Influssi asiani o alessandrini?
Alcuni aspetti della liturgia aquileense, registrati dal vescovo Cromazio tra il 388 e il 408 d.C., avevano indotto diversi studiosi a ricercarne l'origine nelle liturgie di Efeso e Smirne (Turchia egea). Queste chiese (dette asiane o giovennee[10]) erano state fondate da San Giovanni apostolo sotto l’influenza delle correnti essene siriane.
Cromazio adottava il simbolismo animale della tradizione gnostico-asiana, associando il leone a San Giovanni anziché a San Marco, lasciando invece a quest’ultimo l'emblema dell’aquila (spettante solitamente a Luca). Il simbolismo cattolico-ortodosso venne imposto solo alla morte di Cromazio per intervento di San Gerolamo.
Un’ulteriore comunanza con le chiese asiane era il rito pre-battesimale della lavanda dei piedi, descritto soltanto nel Vangelo di Giovanni. Infine, la liturgia pasquale di Aquileia si imperniava sull’Omelia Pasquale di San Melitone, che interpretava la Pasqua come la “vittoria di Cristo sulla morte”, da celebrarsi come la Pasqua ebraica nella notte del 14 del mese di Nisan, qualunque fosse il giorno settimanale. Similmente le Chiese asiane celebravano la Pasqua come “vittoria sacrificale di Cristo-Messia”, nella veglia del 14 del mese di Nisan. Mentre la Pasqua domenicale fu imposta nella chiesa asiana dal Concilio di Nicea (325 d.C.), ad Aquileia la tradizione originale poté conservarsi indisturbata.
Non sappiamo quali motivazioni abbiano indotto gli studiosi a cercare somiglianze in Asia Minore piuttosto che ad Alessandria. Come vedremo più tardi, esiste la possibilità che Marco e Giovanni siano la stessa persona. Ciò che importa, è che i tratti delle chiese asiane possono trovarsi tali e quali tra i Terapeuti, rivelando quel ruolo che la comunità di San Marco ebbe certamente ad Aquileia. Lo storico Renato Iacumin ci viene incontro, sostenendo l’esistenza di prove archeologiche e letterarie (anteriori al 250 d.C.) che attesterebbero la presenza in Friuli, e in particolare ad Aquileia, di una comunità cristiana di stampo terapeuta.
Capiremo tra poco che ad Aquileia fino al III secolo esisteva una vera e propria comunità di Terapeuti che professava indisturbata il proprio credo, denominato “gnosticismo alessandrino”. In epoca costantiniana (306 - 337 d.C.) la comunità gnostica di Aquileia fu sostituita dalla chiesa cristiana-ortodossa, guidata dal vescovo Teodoro. Il nuovo cristianesimo venne spinto con forza nella provincia romana “Venetia et Histria”, senza riuscire però ad imporsi completamente. Il popolo non era pronto a dimenticare i Lari (gli spiriti degli avi) o le divinità pagane come Mithra[11] o Iside.
Nei pressi di Aquileia sono stati rinvenuti parecchi reperti che testimoniano la presenza in tali luoghi di culti orientali, peraltro affini allo gnosticismo in quanto fondati su riti di iniziazione ai misteri. La déa Iside era sicuramente venerata in loco tra il I e il III secolo d.C. come déa di fertilità e rinascita e le era dedicato un tempio nella zona a nord dell’attuale porto.
Alcuni aspetti della liturgia aquileense, registrati dal vescovo Cromazio tra il 388 e il 408 d.C., avevano indotto diversi studiosi a ricercarne l'origine nelle liturgie di Efeso e Smirne (Turchia egea). Queste chiese (dette asiane o giovennee[10]) erano state fondate da San Giovanni apostolo sotto l’influenza delle correnti essene siriane.
Cromazio adottava il simbolismo animale della tradizione gnostico-asiana, associando il leone a San Giovanni anziché a San Marco, lasciando invece a quest’ultimo l'emblema dell’aquila (spettante solitamente a Luca). Il simbolismo cattolico-ortodosso venne imposto solo alla morte di Cromazio per intervento di San Gerolamo.
Un’ulteriore comunanza con le chiese asiane era il rito pre-battesimale della lavanda dei piedi, descritto soltanto nel Vangelo di Giovanni. Infine, la liturgia pasquale di Aquileia si imperniava sull’Omelia Pasquale di San Melitone, che interpretava la Pasqua come la “vittoria di Cristo sulla morte”, da celebrarsi come la Pasqua ebraica nella notte del 14 del mese di Nisan, qualunque fosse il giorno settimanale. Similmente le Chiese asiane celebravano la Pasqua come “vittoria sacrificale di Cristo-Messia”, nella veglia del 14 del mese di Nisan. Mentre la Pasqua domenicale fu imposta nella chiesa asiana dal Concilio di Nicea (325 d.C.), ad Aquileia la tradizione originale poté conservarsi indisturbata.
Non sappiamo quali motivazioni abbiano indotto gli studiosi a cercare somiglianze in Asia Minore piuttosto che ad Alessandria. Come vedremo più tardi, esiste la possibilità che Marco e Giovanni siano la stessa persona. Ciò che importa, è che i tratti delle chiese asiane possono trovarsi tali e quali tra i Terapeuti, rivelando quel ruolo che la comunità di San Marco ebbe certamente ad Aquileia. Lo storico Renato Iacumin ci viene incontro, sostenendo l’esistenza di prove archeologiche e letterarie (anteriori al 250 d.C.) che attesterebbero la presenza in Friuli, e in particolare ad Aquileia, di una comunità cristiana di stampo terapeuta.
Capiremo tra poco che ad Aquileia fino al III secolo esisteva una vera e propria comunità di Terapeuti che professava indisturbata il proprio credo, denominato “gnosticismo alessandrino”. In epoca costantiniana (306 - 337 d.C.) la comunità gnostica di Aquileia fu sostituita dalla chiesa cristiana-ortodossa, guidata dal vescovo Teodoro. Il nuovo cristianesimo venne spinto con forza nella provincia romana “Venetia et Histria”, senza riuscire però ad imporsi completamente. Il popolo non era pronto a dimenticare i Lari (gli spiriti degli avi) o le divinità pagane come Mithra[11] o Iside.
Nei pressi di Aquileia sono stati rinvenuti parecchi reperti che testimoniano la presenza in tali luoghi di culti orientali, peraltro affini allo gnosticismo in quanto fondati su riti di iniziazione ai misteri. La déa Iside era sicuramente venerata in loco tra il I e il III secolo d.C. come déa di fertilità e rinascita e le era dedicato un tempio nella zona a nord dell’attuale porto.
4. La Basilica di Aquileia
L’attuale Basilica di Aquileia è una costruzione in stile romanico-gotico, con facciata a capanna rialzata e due spioventi laterali con un'alta torre campanaria. L'interno della chiesa è a croce latina a tre navate. Il pavimento della Basilica è costituito da un variopinto mosaico, riportato alla luce dagli archeologi tra il 1909 e il 1912. La Basilica si innalza su un edificio precedente a forma di "U", dedicato al culto e fatto costruire dal vescovo Teodoro[12] nel 313 d.C..
L’edificio di Teodoro comprendeva due aule, chiamate appunto “Aula teodoriana Sud” (dove sorge la basilica (3)) e “Aula teodoriana Nord” (nella zona dell’attuale campanile (1)). L’Aula Nord costituiva l’ampliamento di un precedente luogo di culto (risalente al periodo in cui il Cristianesimo non era ancora la religione ufficiale dell’impero romano), mentre l’Aula Sud era stata edificata da zero. Le aule erano parallele e collegate fra loro da una terza aula trasversale (2), un corridoio pavimentato a cocciopesto.
L’attuale Basilica di Aquileia è una costruzione in stile romanico-gotico, con facciata a capanna rialzata e due spioventi laterali con un'alta torre campanaria. L'interno della chiesa è a croce latina a tre navate. Il pavimento della Basilica è costituito da un variopinto mosaico, riportato alla luce dagli archeologi tra il 1909 e il 1912. La Basilica si innalza su un edificio precedente a forma di "U", dedicato al culto e fatto costruire dal vescovo Teodoro[12] nel 313 d.C..
L’edificio di Teodoro comprendeva due aule, chiamate appunto “Aula teodoriana Sud” (dove sorge la basilica (3)) e “Aula teodoriana Nord” (nella zona dell’attuale campanile (1)). L’Aula Nord costituiva l’ampliamento di un precedente luogo di culto (risalente al periodo in cui il Cristianesimo non era ancora la religione ufficiale dell’impero romano), mentre l’Aula Sud era stata edificata da zero. Le aule erano parallele e collegate fra loro da una terza aula trasversale (2), un corridoio pavimentato a cocciopesto.
I pavimenti delle due aule sono interamente mosaicati e costituiscono la più ampia superficie musiva paleocristiana a noi pervenuta. L'Aula Sud (3) era adibita alla preparazione dei catecumeni, cioè alla dottrina, e il mosaico pavimentale ivi presente rappresenta una sorta di percorso illustrato da cui apprendere le verità della fede.
L'Aula Nord (1) era destinata invece alla celebrazione eucaristica; si trattava della chiesa vera e propria, a cui si accedeva solo dopo il Battesimo. È chiamata anche “aula gnostica” poiché prima di Teodoro era sede di una comunità cristiana primitiva di tipo gnostico-alessandrino.
Alla metà del IV secolo l'Aula Nord subì un notevole ampliamento al fine di poter contenere un numero maggiore di fedeli. Accanto ad essa fu poi costruito un nuovo battistero con vasca esagonale. Un ampio nartece[13] precedeva l'ingresso di questa prima Basilica, articolata in tre navate. Essa fu distrutta da un incendio innescato dagli Unni di Attila nel 452 d.C.
L'Aula Nord (1) era destinata invece alla celebrazione eucaristica; si trattava della chiesa vera e propria, a cui si accedeva solo dopo il Battesimo. È chiamata anche “aula gnostica” poiché prima di Teodoro era sede di una comunità cristiana primitiva di tipo gnostico-alessandrino.
Alla metà del IV secolo l'Aula Nord subì un notevole ampliamento al fine di poter contenere un numero maggiore di fedeli. Accanto ad essa fu poi costruito un nuovo battistero con vasca esagonale. Un ampio nartece[13] precedeva l'ingresso di questa prima Basilica, articolata in tre navate. Essa fu distrutta da un incendio innescato dagli Unni di Attila nel 452 d.C.
Alla fine del IV secolo, l’Aula Sud (3) venne trasformata dal vescovo Cromazio in un edificio a tre navate con un grande battistero (a) di fronte al suo ingresso principale. Quest’aula è molto importante poiché da essa si sviluppò l’attuale Basilica attraverso successive modifiche che consentono tuttavia di riconoscere le parti originali paleocristiane.
Tra il 400 e il 452, quelle che potremmo chiamare Basilica post-teodoriana Nord e Basilica post-teodoriana Sud si presentavano parallele su Piazza del Capitolo.
Durante questo periodo, probabilmente, la post-teodoriana Nord veniva utilizzata come cappella per la venerazione di reliquie apostoliche, ma dopo l'incendio del 452 non fu mai più ricostruita. el 840 d.C. il patriarca Massenzio avviò i primi lavori di ristrutturazione della Basilica creando il transetto, la cripta degli affreschi (sotto il presbiterio), il portico e la Chiesa dei Pagani (b). Rialzò inoltre il presbiterio. Nel 1031 il patriarca Poppone consacrò la nuova cattedrale e fece coprire il meraviglioso pavimento musivo con piastrelle bianche e rosse (rimosse agli inizi del XX secolo). Poppone è responsabile della sopraelevazione dei muri perimetrali, del rifacimento dei capitelli, dell’affresco dell'abside e della costruzione dell'imponente campanile (c), alto 73 metri. Altri interventi furono realizzati in seguito: nel XII secolo il patriarca Voldorico di Treffen introdusse affreschi nella cripta massenziana con scene della vita di Sant’Ermacora, della Passione di Cristo e altre a carattere allegorico e profano.
Tra il 400 e il 452, quelle che potremmo chiamare Basilica post-teodoriana Nord e Basilica post-teodoriana Sud si presentavano parallele su Piazza del Capitolo.
Durante questo periodo, probabilmente, la post-teodoriana Nord veniva utilizzata come cappella per la venerazione di reliquie apostoliche, ma dopo l'incendio del 452 non fu mai più ricostruita. el 840 d.C. il patriarca Massenzio avviò i primi lavori di ristrutturazione della Basilica creando il transetto, la cripta degli affreschi (sotto il presbiterio), il portico e la Chiesa dei Pagani (b). Rialzò inoltre il presbiterio. Nel 1031 il patriarca Poppone consacrò la nuova cattedrale e fece coprire il meraviglioso pavimento musivo con piastrelle bianche e rosse (rimosse agli inizi del XX secolo). Poppone è responsabile della sopraelevazione dei muri perimetrali, del rifacimento dei capitelli, dell’affresco dell'abside e della costruzione dell'imponente campanile (c), alto 73 metri. Altri interventi furono realizzati in seguito: nel XII secolo il patriarca Voldorico di Treffen introdusse affreschi nella cripta massenziana con scene della vita di Sant’Ermacora, della Passione di Cristo e altre a carattere allegorico e profano.
Nel XIV secolo, il patriarca Marquardo di Randek introdusse archi a sesto acuto fra le colonne e modificò tutta la parte alta della Basilica. Il tetto a carena di nave rovesciata è probabilmente di epoca rinascimentale. Sovrapponendo la pianta della Basilica Teodoriana alla pianta attuale possiamo capire quali parti dell’antica Basilica sono giunte fino a noi.
Nel 1863 George Niemann diede inizio allo scavo che svelò gran parte dei mosaici dell’Aula Nord (1) e di una piccola porzione sotto il pavimento della chiesa (aula Sud (3)). Nel 1915 le operazioni di scavo furono ultimate da Anton Gnirs, che rinvenne tutti i mosaici di entrambe le aule. Agli inizi degli anni Trenta, Giovanni Brusin scoprì i mosaici della fase post-teodoriana a est del campanile e nel 1962 fu riportato alla luce il mosaico teodoriano dentro al campanile. Le operazioni di scavo furono completate agli inizi degli anni Settanta.
L’Aula Sud (detta oggi teodosiana) si ergeva in corrispondenza della seconda e terza navata dell’attuale basilica, a partire dall’attuale entrata fino al presbiterio. Era rettangolare e divisa anch’essa in tre navate come la chiesa moderna, ma più strette e più corte. Il suo tappeto musivo è riemerso un secolo fa in buono stato di conservazione, suddiviso in quattro campate bordate con festoni di acanto stilizzato, esclusa la campata detta “di Giona[14]”. Ogni campata è divisa in tre scomparti nel senso della larghezza.
Ad Aquileia, nelle riunioni dell’assemblea, non si esponevano esclusivamente i libri canonici del Nuovo e dell’Antico Testamento. Secondo Ruffino si leggevano anche l’Apocalisse di Pietro e Il Pastore di Erma, due scritti molto antichi (135 e 150 d.C.) sviluppati dai primi cristiani della Palestina che per lo più appartenevano all'ambiente esseno. Cromazio nei suoi Sermoni si rifà allo Acta Johannis, un apocrifo dalle molte influenze gnostiche, nonché allaDidachè o Dottrina degli Apostoli, espressione di una fede legata alla tradizione essene. Erano inoltre conosciute senz’altro le Omelie sulla Genesi di Origene.
Dalle omelie di Cromazio apprendiamo che nell’Aquileia di Teodoro si credeva in una salvezza eterna possibile in tre diversi destini: il paradiso, il regno dei cieli e la nuova terra. Il tappeto musivo dell’Aula Sud riporta questa dottrina.
Nella prima campata è presentata la salvezza dei quattro giusti che secondo l’Antico Testamento avrebbero stretto o rinnovato l'alleanza con Dio (primo comparto). Il figlio di Dio sarebbe disceso negli inferi (secondo comparto), strappandoli al Limbo che spettava ai non battezzati in Cristo, per poi condurli nel Regno dei Cieli (terzo comparto).
Nella seconda campata viene descritta la salvezza di coloro che dalla sinagoga (primo comparto) attraverso la chiesa (secondo comparto) arrivano al paradiso (terzo comparto).
Nella terza campata è riportata la salvezza proposta a tutti (prima comparto), rappresentati dagli animali che entrano nella vera arca di Noè, la chiesa, da dove mediante la penitenza e la grazia (secondo comparto) si arriva alla nuova terra (comparto di destra).
Nella quarta campata si sviluppano la storia di Giona e della grande pesca. Qui la vicenda del profeta prefigura la morte, la discesa agli inferi e la resurrezione di Gesù. La grande pesca ribadisce invece la chiamata di tutti alla salvezza e allude al Battesimo.
L’Aula Nord (1) copre una superficie di 644 m2 ed è divisa in quattro campate da fasce decorative parallele ai lati corti. I segni di colonne suggeriscono che avesse una pianta a tre navate, parallele ai lati più lunghi. Quest’aula è il risultato dell’ampliamento, voluto da Teodoro, di locali preesistenti: in particolare, le zone di sinistra della seconda, terza e quarta campata appartenevano alla cosiddetta “aula gnostica”, decorata con un pavimento a mosaico di pregevole fattura[15].
L’Aula Sud (detta oggi teodosiana) si ergeva in corrispondenza della seconda e terza navata dell’attuale basilica, a partire dall’attuale entrata fino al presbiterio. Era rettangolare e divisa anch’essa in tre navate come la chiesa moderna, ma più strette e più corte. Il suo tappeto musivo è riemerso un secolo fa in buono stato di conservazione, suddiviso in quattro campate bordate con festoni di acanto stilizzato, esclusa la campata detta “di Giona[14]”. Ogni campata è divisa in tre scomparti nel senso della larghezza.
Ad Aquileia, nelle riunioni dell’assemblea, non si esponevano esclusivamente i libri canonici del Nuovo e dell’Antico Testamento. Secondo Ruffino si leggevano anche l’Apocalisse di Pietro e Il Pastore di Erma, due scritti molto antichi (135 e 150 d.C.) sviluppati dai primi cristiani della Palestina che per lo più appartenevano all'ambiente esseno. Cromazio nei suoi Sermoni si rifà allo Acta Johannis, un apocrifo dalle molte influenze gnostiche, nonché allaDidachè o Dottrina degli Apostoli, espressione di una fede legata alla tradizione essene. Erano inoltre conosciute senz’altro le Omelie sulla Genesi di Origene.
Dalle omelie di Cromazio apprendiamo che nell’Aquileia di Teodoro si credeva in una salvezza eterna possibile in tre diversi destini: il paradiso, il regno dei cieli e la nuova terra. Il tappeto musivo dell’Aula Sud riporta questa dottrina.
Nella prima campata è presentata la salvezza dei quattro giusti che secondo l’Antico Testamento avrebbero stretto o rinnovato l'alleanza con Dio (primo comparto). Il figlio di Dio sarebbe disceso negli inferi (secondo comparto), strappandoli al Limbo che spettava ai non battezzati in Cristo, per poi condurli nel Regno dei Cieli (terzo comparto).
Nella seconda campata viene descritta la salvezza di coloro che dalla sinagoga (primo comparto) attraverso la chiesa (secondo comparto) arrivano al paradiso (terzo comparto).
Nella terza campata è riportata la salvezza proposta a tutti (prima comparto), rappresentati dagli animali che entrano nella vera arca di Noè, la chiesa, da dove mediante la penitenza e la grazia (secondo comparto) si arriva alla nuova terra (comparto di destra).
Nella quarta campata si sviluppano la storia di Giona e della grande pesca. Qui la vicenda del profeta prefigura la morte, la discesa agli inferi e la resurrezione di Gesù. La grande pesca ribadisce invece la chiamata di tutti alla salvezza e allude al Battesimo.
L’Aula Nord (1) copre una superficie di 644 m2 ed è divisa in quattro campate da fasce decorative parallele ai lati corti. I segni di colonne suggeriscono che avesse una pianta a tre navate, parallele ai lati più lunghi. Quest’aula è il risultato dell’ampliamento, voluto da Teodoro, di locali preesistenti: in particolare, le zone di sinistra della seconda, terza e quarta campata appartenevano alla cosiddetta “aula gnostica”, decorata con un pavimento a mosaico di pregevole fattura[15].
L’ampliamento teodoriano ha esteso il manto musivo all’intera aula conservando quello preesistente, salvo qualche ritocco per ragioni di culto. Nonostante gli anni, il pavimento musivo è giunto ai nostri giorni ben conservato, anche se una parte consistente è andata perduta con la costruzione del campanile.
Possiamo facilmente distinguere i mosaici più antichi da quelli del tempo di Teodoro: il tappeto musivo più antico è disseminato di animali fantastici, piante ed altri soggetti, per lo più estranei alla tradizione iconografia cristiana e il cui simbolismo è di difficile interpretazione[16].
Possiamo facilmente distinguere i mosaici più antichi da quelli del tempo di Teodoro: il tappeto musivo più antico è disseminato di animali fantastici, piante ed altri soggetti, per lo più estranei alla tradizione iconografia cristiana e il cui simbolismo è di difficile interpretazione[16].
Se la II, III e IV campata dell'Aula Nord (1) custodiscono i mosaici più remoti, la rimanente parte di quest’aula è coperta da un tappeto musivo meno interessante sia dal punto di vista storico che artistico. In questi mosaici meno antichi si intuisce facilmente sia il fine didattico di chi li ha commissionati, sia lo sforzo comunicativo di chi li ha eseguiti; il messaggio è palesemente incentrato sulla resurrezione di Cristo e sulla vita nuova che ne deriva.
È sicuramente sui mosaici dell’Aula Gnostica, i più misteriosi e affascinanti, che vale la pena di soffermarsi. Questi sono stati evidentemente concepiti da qualcuno che aveva dimestichezza col pensiero gnostico-terapeuta. Essi espongono un contenuto allegorico che appartiene strettamente all’Alessandria di fine II secolo, rifacendosi profondamente al testo gnostico Pistis Sophia.
È sicuramente sui mosaici dell’Aula Gnostica, i più misteriosi e affascinanti, che vale la pena di soffermarsi. Questi sono stati evidentemente concepiti da qualcuno che aveva dimestichezza col pensiero gnostico-terapeuta. Essi espongono un contenuto allegorico che appartiene strettamente all’Alessandria di fine II secolo, rifacendosi profondamente al testo gnostico Pistis Sophia.
5. Lo Gnosticismo
Lo Gnosticismo (dal greco gnósis = conoscenza) è un movimento filosofico-religioso molto complesso, che si diffuse principalmente nel II e III secolo d.C.. Sinteticamente potremmo definirlo come "la dottrina della salvezza tramite la conoscenza". Vi appartengono un gran numero di sette diverse tra loro, che si rifanno in buona parte al credo terapeuta, alla cabala ebraica e all’ermetismo.
Secondo gli gnostici, la materia e l’universo sarebbero i frutti della perversione di un dio malvagio, interpretando i corpi degli uomini come prigioni per le anime. Queste sarebbero composte della stessa sostanza del dio buono, che all’inizio dei tempi avrebbe diviso la sua essenza in miliardi di anime. Siamo quindi in presenza di due divinità, contrapposte e in perenne lotta tra loro.
Gli gnostici insegnavano che il fine ultimo di ogni essere era il superamento della bassezza della materia e il ritorno allo spirito genitore; tale ritorno sarebbe stato facilitato dall'apparizione di alcuni salvatori inviati da Dio[17], compreso il Cristo, che però non supera (tranne in rari casi) la figura del profeta.
Secondo l'Ebraismo l'anima raggiunge la salvezza attraverso l'osservanza delle 613 mitzvòt, mentre secondo il Cristianesimo vi perviene attraverso la fede, le opere e la grazia. Per lo Gnosticismo, invece, la salvezza dell'anima può scaturire solamente dal possesso di una conoscenza quasi intuitiva dei misteri dell'universo e dalla padronanza di formule magiche indicative di quella conoscenza[18].
La gnosi è una conoscenza speciale, non una conquista della verità a partire dall’esperienza o da principi presunti. I misteri divini sono trasmessi agli iniziati sotto forma di mito e la loro comprensione necessita di uno “slancio intuitivo[19]”.
Nel pensiero gnostico è evidente il contrasto tra l’irraggiungibile perfezione di Dio e l’universo con tutto il male in esso contenuto. Vi sarebbero quindi due mondi, uno dei quali (il mondo materiale) costituirebbe un ostacolo al pieno realizzarsi dell’altro, l’unico veramente reale. Il contrasto è sovente espresso nella contrapposizione simbolica tra luce e tenebre (Si veda il 1° capitolo del Vangelo di Giovanni).
Il mondo della luce è detto Pleroma e sarebbe abitato da esseri puramente spirituali chiamati eoni. La ribellione di un eone causò la spaccatura del Pleroma e nello spazio vuoto si sviluppò il mondo materiale. Particelle di luce caddero però nel baratro e si mescolarono alla materia ordinaria.
Il primo eone, da cui nacquero tutti gli altri, è il vero Dio inconoscibile, contrapposto al dio malvagio, l’eone ribelle denominato Yahweh, Yaldabaoth, Samael o Demiurgo, di cui gli gnostici disdegnavano le leggi. L’universo materiale sarebbe stato creato da Yahweh per incatenare le anime degli uomini[20].
Come il mondo, anche l’uomo è quindi un miscuglio di materia inerte (carne) e di luce divina (anima). L’anima deve essere liberata da un processo di purificazione e di redenzione[21] che le permetta di riunirsi a dio: la redenzione è raggiunta soltanto da chi vive nello spirito (pneumatico, da “pneuma” = spirito) divenendo così capace di accogliere e intendere la conoscenza, cioè di diventare gnostico[22].
Questa distinzione porta a posizioni decisamente diverse nei confronti degli “esterni” alla comunità: dal distacco e l’indifferenza, fino alla loro condanna. Varia è inoltre, nei singoli sistemi e scuole, la prassi religiosa: essa richiede di solito una simbologia complicata, sacramenti e riti, soprattutto d’iniziazione e purificazione, con riunioni liturgiche, canto di inni, feste ecc., oltre a vere e proprie azioni magiche[23].
Gli Gnostici mostravano una certa apertura all’idea della reincarnazione (presente già nel neoplatonismo e nella scuola pitagorica). Questa ipotesi si insinuò nell’opera di Sant’Origene di Alessandria, il padre della chiesa che fu causa dello scisma di Aquileia. Origene scriveva:
Le anime possono reincarnarsi per amore del loro prossimo[24]. Le anime potevano ritornare sulla terra, per tedio della contemplazione divina o raffreddamento dell’amore di Dio e che esse venivano mandate nuovamente nei corpi, per castigo[25].
Vicina alle concezioni gnostiche, sempre nel pensiero di Origene, era anche l’interpretazione “allegorica” della Bibbia.
Per lungo tempo lo Gnosticismo è stato studiato nei pochi testi d'epoca tarda (V secolo) e soprattutto nelle opere di autori ortodossi che ne confutavano le dottrine[26]. Le poche fonti originali consistono per lo più in frammenti di testi, riportati principalmente da San Clemente Alessandrino. Abbiamo quindi un piccolo gruppo di testi completi, quali la Lettera di Tolomeo a Flora, le Odi di Salomone (siriache), il Pistis Sophia e i due Libri di Jeu, in copto, ritrovati invece in papiri. Fortunatamente un’intera biblioteca gnostica è stata scoperta nel 1945 a Nag Hammadi: si tratta di una cinquantina di trattati sulla gnosi in lingua copta che traducono testi greci del II secolo.
Maestri di gnosi più o meno leggendari furono Simon Mago, Menandro suo discepolo (entrambi samaritani) e Saturnino (antiocheno). Esponenti di maggiore rilievo furono invece Basilide, Carpocrate, Valentino e Marcione[27].
Sebbene l’importanza del pensiero gnostico cominci a tramontare a partire dal IV secolo, esistono tracce della persistenza di tali concezioni nella storia del pensiero religioso e filosofico occidentale fino ai giorni nostri. La comunità gnostica dei Messaliani sopravvisse con compattezza dal V al XI secolo, ad Edessa (oggi Urfa, al confine turco-siriano), riuscendo ad espandersi nei Balcani. Si trattava di iniziati gnostici fuggiti da Alessandria durante le persecuzioni di Teofilo, arcivescovo ortodosso dal 384 al 412. Nel Medioevo, le comunità dei Catari (in Linguadoca) e dei Bogomili (nei Balcani, forse eredi dei Messaliani) abbracciarono le concezioni dualistiche sviluppate dallo Gnosticismo.
Ad Alessandria il pensiero gnostico assorbì talune concezioni dal Corpus Hermeticum[28], una raccolta di scritti sapienziali di epoca ellenistica. La loro compilazione si deve ai faraoni Tolomei, discendenti di Tolomeo I Sotere, generale di Alessandro Magno. I Tolomei fecero copiare numerosi testi geroglifici provenienti dalle tombe e dai templi egizi, preoccupati che finissero per deperire sotto l’imminente dominio di Roma. La loro composizione si ascrive ad un saggio di nome Hermes Trismegisto, il tre volte grande, nato a Tebe nel 1399 a.C. e morto ad El Amarna nel 1257 a.C.. Fu “tre volte grande” perché durante la sua lunga vita partecipò all’installazione di Akhenaton come maestro della Fratellanza Bianca, divenne lui stesso maestro e nel 1259 a.C. installò come maestro un tale Atonamen[29].
I testi furono tradotti in greco e rielaborati in linea con il pensiero neoplatonico (derivante dal pensiero pitagorico).
Lo Gnosticismo (dal greco gnósis = conoscenza) è un movimento filosofico-religioso molto complesso, che si diffuse principalmente nel II e III secolo d.C.. Sinteticamente potremmo definirlo come "la dottrina della salvezza tramite la conoscenza". Vi appartengono un gran numero di sette diverse tra loro, che si rifanno in buona parte al credo terapeuta, alla cabala ebraica e all’ermetismo.
Secondo gli gnostici, la materia e l’universo sarebbero i frutti della perversione di un dio malvagio, interpretando i corpi degli uomini come prigioni per le anime. Queste sarebbero composte della stessa sostanza del dio buono, che all’inizio dei tempi avrebbe diviso la sua essenza in miliardi di anime. Siamo quindi in presenza di due divinità, contrapposte e in perenne lotta tra loro.
Gli gnostici insegnavano che il fine ultimo di ogni essere era il superamento della bassezza della materia e il ritorno allo spirito genitore; tale ritorno sarebbe stato facilitato dall'apparizione di alcuni salvatori inviati da Dio[17], compreso il Cristo, che però non supera (tranne in rari casi) la figura del profeta.
Secondo l'Ebraismo l'anima raggiunge la salvezza attraverso l'osservanza delle 613 mitzvòt, mentre secondo il Cristianesimo vi perviene attraverso la fede, le opere e la grazia. Per lo Gnosticismo, invece, la salvezza dell'anima può scaturire solamente dal possesso di una conoscenza quasi intuitiva dei misteri dell'universo e dalla padronanza di formule magiche indicative di quella conoscenza[18].
La gnosi è una conoscenza speciale, non una conquista della verità a partire dall’esperienza o da principi presunti. I misteri divini sono trasmessi agli iniziati sotto forma di mito e la loro comprensione necessita di uno “slancio intuitivo[19]”.
Nel pensiero gnostico è evidente il contrasto tra l’irraggiungibile perfezione di Dio e l’universo con tutto il male in esso contenuto. Vi sarebbero quindi due mondi, uno dei quali (il mondo materiale) costituirebbe un ostacolo al pieno realizzarsi dell’altro, l’unico veramente reale. Il contrasto è sovente espresso nella contrapposizione simbolica tra luce e tenebre (Si veda il 1° capitolo del Vangelo di Giovanni).
Il mondo della luce è detto Pleroma e sarebbe abitato da esseri puramente spirituali chiamati eoni. La ribellione di un eone causò la spaccatura del Pleroma e nello spazio vuoto si sviluppò il mondo materiale. Particelle di luce caddero però nel baratro e si mescolarono alla materia ordinaria.
Il primo eone, da cui nacquero tutti gli altri, è il vero Dio inconoscibile, contrapposto al dio malvagio, l’eone ribelle denominato Yahweh, Yaldabaoth, Samael o Demiurgo, di cui gli gnostici disdegnavano le leggi. L’universo materiale sarebbe stato creato da Yahweh per incatenare le anime degli uomini[20].
Come il mondo, anche l’uomo è quindi un miscuglio di materia inerte (carne) e di luce divina (anima). L’anima deve essere liberata da un processo di purificazione e di redenzione[21] che le permetta di riunirsi a dio: la redenzione è raggiunta soltanto da chi vive nello spirito (pneumatico, da “pneuma” = spirito) divenendo così capace di accogliere e intendere la conoscenza, cioè di diventare gnostico[22].
Questa distinzione porta a posizioni decisamente diverse nei confronti degli “esterni” alla comunità: dal distacco e l’indifferenza, fino alla loro condanna. Varia è inoltre, nei singoli sistemi e scuole, la prassi religiosa: essa richiede di solito una simbologia complicata, sacramenti e riti, soprattutto d’iniziazione e purificazione, con riunioni liturgiche, canto di inni, feste ecc., oltre a vere e proprie azioni magiche[23].
Gli Gnostici mostravano una certa apertura all’idea della reincarnazione (presente già nel neoplatonismo e nella scuola pitagorica). Questa ipotesi si insinuò nell’opera di Sant’Origene di Alessandria, il padre della chiesa che fu causa dello scisma di Aquileia. Origene scriveva:
Le anime possono reincarnarsi per amore del loro prossimo[24]. Le anime potevano ritornare sulla terra, per tedio della contemplazione divina o raffreddamento dell’amore di Dio e che esse venivano mandate nuovamente nei corpi, per castigo[25].
Vicina alle concezioni gnostiche, sempre nel pensiero di Origene, era anche l’interpretazione “allegorica” della Bibbia.
Per lungo tempo lo Gnosticismo è stato studiato nei pochi testi d'epoca tarda (V secolo) e soprattutto nelle opere di autori ortodossi che ne confutavano le dottrine[26]. Le poche fonti originali consistono per lo più in frammenti di testi, riportati principalmente da San Clemente Alessandrino. Abbiamo quindi un piccolo gruppo di testi completi, quali la Lettera di Tolomeo a Flora, le Odi di Salomone (siriache), il Pistis Sophia e i due Libri di Jeu, in copto, ritrovati invece in papiri. Fortunatamente un’intera biblioteca gnostica è stata scoperta nel 1945 a Nag Hammadi: si tratta di una cinquantina di trattati sulla gnosi in lingua copta che traducono testi greci del II secolo.
Maestri di gnosi più o meno leggendari furono Simon Mago, Menandro suo discepolo (entrambi samaritani) e Saturnino (antiocheno). Esponenti di maggiore rilievo furono invece Basilide, Carpocrate, Valentino e Marcione[27].
Sebbene l’importanza del pensiero gnostico cominci a tramontare a partire dal IV secolo, esistono tracce della persistenza di tali concezioni nella storia del pensiero religioso e filosofico occidentale fino ai giorni nostri. La comunità gnostica dei Messaliani sopravvisse con compattezza dal V al XI secolo, ad Edessa (oggi Urfa, al confine turco-siriano), riuscendo ad espandersi nei Balcani. Si trattava di iniziati gnostici fuggiti da Alessandria durante le persecuzioni di Teofilo, arcivescovo ortodosso dal 384 al 412. Nel Medioevo, le comunità dei Catari (in Linguadoca) e dei Bogomili (nei Balcani, forse eredi dei Messaliani) abbracciarono le concezioni dualistiche sviluppate dallo Gnosticismo.
Ad Alessandria il pensiero gnostico assorbì talune concezioni dal Corpus Hermeticum[28], una raccolta di scritti sapienziali di epoca ellenistica. La loro compilazione si deve ai faraoni Tolomei, discendenti di Tolomeo I Sotere, generale di Alessandro Magno. I Tolomei fecero copiare numerosi testi geroglifici provenienti dalle tombe e dai templi egizi, preoccupati che finissero per deperire sotto l’imminente dominio di Roma. La loro composizione si ascrive ad un saggio di nome Hermes Trismegisto, il tre volte grande, nato a Tebe nel 1399 a.C. e morto ad El Amarna nel 1257 a.C.. Fu “tre volte grande” perché durante la sua lunga vita partecipò all’installazione di Akhenaton come maestro della Fratellanza Bianca, divenne lui stesso maestro e nel 1259 a.C. installò come maestro un tale Atonamen[29].
I testi furono tradotti in greco e rielaborati in linea con il pensiero neoplatonico (derivante dal pensiero pitagorico).
6. Gli Arconti dell’Hebdomad
La religione di Esseni e cristiani gnostici includeva la conoscenza dell’Hebdomad, un mondo di mezzo sospeso tra la terra e il cielo (il Pleroma), popolato da sette arconti al servizio del dio della materia.
Nel 1882, a Berlino, il Congresso degli Orientalisti evidenziò alcune somiglianze tra lo gnosticismo e la religione sincretica che si sviluppò a Babilonia dopo la conquista persiana di Ciro il Grande (539 a.C.). Il motivo sta nel fatto che la stessa Fratellanza Bianca era nato come "filiale" egiziana della più potente Fratellanza di Babilonia che controllava al contempo le scuole misteriche della Grecia e dell'Asia minore.
I Caldei (i Babilonesi conquistati) avevano sviluppato la prima astrologia, convinti che il sistema planetario influenzasse gli affari di questo mondo. Il sacro Hebdomad (lett. La Grandezza dei Sette) identifica il gruppo delle sette divinità caldee preposte ai sette cieli planetari, tra la terra (Tiamat) e il Pleroma (Anu): sono la Luna (Horaios/ Horus), Mercurio (Elaios/ Elohim), Sole (Adonaios/ Adone), Venere (Astaphanos/ Astaphe), Marte (Sabaoth/ Yahweh Sabaoth), Giove (Iao, Yahweh) e Saturno (Yaldabaoth/ Yalda Bahut). A Babilonia erano simboleggiati da sette torri.
Dopo la conquista persiana i Sette divennero “arconti”, le emanazioni ultime e più basse del dio buono e servitori del dio del male, la cui forza quasi irresistibile contrastava l'uomo. Furono trasformati da déi a devas, spiriti cattivi.
Ogni anima, nella sua ascesa verso il Dio del bene e la luce infinita dell'Ogdoad (Pleroma), doveva combattere contro l'avversa influenza degli arconti dell'Hebdomad. Il viaggio dell'anima attraverso le sfere planetarie fino al paradiso cominciò a venire concepita come una lotta tra poteri opposti e divenne la linea predominante del dualismo gnostico-terapeuta. Pure il nome del discepolo di Marco, Mamo Rosar Amru, è Caldeo[30].
La seconda grande linea del pensiero caldeo fu la magia, il potere di nomi, suoni, gesti ed azioni. Queste formule magiche costituivano una parte essenziale della religione sincretica ed erano presenti in tutte le sue forme. Nessuna gnosis era completa senza la conoscenza delle formule che, se pronunciate, permettevano l'annullamento dei poteri ostili[31]. Queste idee entrarono in contatto col Giudaismo abbastanza presto tramite le colonie ebraiche nella valle dell'Eufrate[32] (VII secolo a.C.), sicuramente rinforzate dalla cattività babilonese (587-539 a.C.).
La religione di Esseni e cristiani gnostici includeva la conoscenza dell’Hebdomad, un mondo di mezzo sospeso tra la terra e il cielo (il Pleroma), popolato da sette arconti al servizio del dio della materia.
Nel 1882, a Berlino, il Congresso degli Orientalisti evidenziò alcune somiglianze tra lo gnosticismo e la religione sincretica che si sviluppò a Babilonia dopo la conquista persiana di Ciro il Grande (539 a.C.). Il motivo sta nel fatto che la stessa Fratellanza Bianca era nato come "filiale" egiziana della più potente Fratellanza di Babilonia che controllava al contempo le scuole misteriche della Grecia e dell'Asia minore.
I Caldei (i Babilonesi conquistati) avevano sviluppato la prima astrologia, convinti che il sistema planetario influenzasse gli affari di questo mondo. Il sacro Hebdomad (lett. La Grandezza dei Sette) identifica il gruppo delle sette divinità caldee preposte ai sette cieli planetari, tra la terra (Tiamat) e il Pleroma (Anu): sono la Luna (Horaios/ Horus), Mercurio (Elaios/ Elohim), Sole (Adonaios/ Adone), Venere (Astaphanos/ Astaphe), Marte (Sabaoth/ Yahweh Sabaoth), Giove (Iao, Yahweh) e Saturno (Yaldabaoth/ Yalda Bahut). A Babilonia erano simboleggiati da sette torri.
Dopo la conquista persiana i Sette divennero “arconti”, le emanazioni ultime e più basse del dio buono e servitori del dio del male, la cui forza quasi irresistibile contrastava l'uomo. Furono trasformati da déi a devas, spiriti cattivi.
Ogni anima, nella sua ascesa verso il Dio del bene e la luce infinita dell'Ogdoad (Pleroma), doveva combattere contro l'avversa influenza degli arconti dell'Hebdomad. Il viaggio dell'anima attraverso le sfere planetarie fino al paradiso cominciò a venire concepita come una lotta tra poteri opposti e divenne la linea predominante del dualismo gnostico-terapeuta. Pure il nome del discepolo di Marco, Mamo Rosar Amru, è Caldeo[30].
La seconda grande linea del pensiero caldeo fu la magia, il potere di nomi, suoni, gesti ed azioni. Queste formule magiche costituivano una parte essenziale della religione sincretica ed erano presenti in tutte le sue forme. Nessuna gnosis era completa senza la conoscenza delle formule che, se pronunciate, permettevano l'annullamento dei poteri ostili[31]. Queste idee entrarono in contatto col Giudaismo abbastanza presto tramite le colonie ebraiche nella valle dell'Eufrate[32] (VII secolo a.C.), sicuramente rinforzate dalla cattività babilonese (587-539 a.C.).
7. Il Pistis Sophia
Il Pistis Sophia, o Libro del Salvatore, è un vangelo gnostico alessandrino scritto in lingua copta presumibilmente nella seconda metà del III secolo. Secondo questo testo, Gesù sarebbe rimasto sulla terra per undici anni dopo la resurrezione al fine di istruire gli apostoli sui misteri.
Gli interlocutori di Gesù in Pistis Sophia sono i dodici apostoli e quattro discepole: Maria madre di Gesù, Salomè, Marta e Maria Maddalena[33]. Quest’ultima appare come sposa e sacerdotessa di Gesù, e come tale simboleggia la conoscenza (gnosi)[34]. Come altre opere gnostiche, il Pistis Sophia andò perduto con la persecuzione dell'eresia gnostica nel V secolo. Una versione del testo fu tuttavia rinvenuta a Londra nel 1772 dal bibliofilo A. Askew (motivo per cui il manoscritto è noto anche come Codice Askew)[35].
Il Pistis Sophia descrive la vicenda umana dalla creazione alla salvezza, passando per la caduta: con la nascita, l’anima scende sulla terra e aumenta l’imperfezione morale, mentre con la morte inizia la risalita verso la perfezione. L’unico strumento che l’anima ha a disposizione per poter ritornare al Padre è la Gnosis, cioè la Conoscenza. Per poter raggiungere tale conoscenza l'uomo deve essere risvegliato dallo stato di torpore in cui si trova: deve rendersi conto che il mondo in cui vive gli è estraneo e tentare di separarsene. La conoscenza così intesa perviene all’uomo tramite un richiamo che lo sproni sotto forma di rivelazione divina.
Per capire meglio questi concetti dobbiamo soffermarci sul cosiddetto “Inno della Perla” degli Atti di Tommaso[36]: qui si narra la vicenda del figlio di un re che abbandonò il regno del padre alla volta dell’Egitto per cercare una perla preziosa. Tuttavia, in questa terra straniera dimenticò la propria origine e il proprio compito (come l'anima che si addormenta nel mondo, scordando da dove proviene e il suo destino). Quando i suoi genitori si resero conto di cosa fosse accaduto, scrissero una lettera al figlio esortandolo a risvegliarsi dal sonno che lo aveva preso e sottomesso, e ricordandogli lo scopo per cui si era recato in Egitto. Questa lettera fu affidata ad un'aquila, che col suo grido e l’agitare delle ali lo destò dal sonno. L'effetto della lettera fu liberatorio e il ragazzo si ricordò della perla per la quale era giunto fin là. Egli riuscì a strappare la perla dalle fauci del drago che la custodiva e riprese così la strada del ritorno per ricongiungersi ai genitori. È interessante e inevitabile il confronto tra questo inno e la parabola evangelica del Figliol prodigo.
Il Pistis Sophia inizia con un'allegoria che paragona la morte e resurrezione di Gesù (in senso simbolico-iniziatico) alla discesa e ascesa dell'anima. Si procede poi nella descrizione di importanti figure della cosmologia gnostica, e infine sono elencati trentadue desideri carnali da superare per raggiungere la salvezza. In questo testo vengono esposte le complesse strutture e gerarchie dei cieli contenute negli insegnamenti gnostici. Il Pistis Sophia allude anche a riferimenti temporali copti e a nomi di demoni o divinità contenuti nei testi magici egiziani.
Al vertice dell'universo si trova un Dio inspiegabile, infinito ed inarrivabile, dalla cui luce deriva ogni cosa. Questi è immerso in tre spazi, nei quali risiedono i più grandi misteri a cui l'uomo può accedere: lo spazio dell'Ineffabile, il primo spazio del Primo Mistero (origine di tutte le emanazioni divine), e il secondo spazio del Primo Mistero.
Sotto questi tre spazi si apre il mondo della Luce Pura, suddiviso, a sua volta, in tre regioni: la regione del Tesoro della Luce (dove si trovano le anime che hanno avuto accesso ai misteri), la regione delle stelle fisse[37] (dove abitano Melkisedek, il grande e il piccolo Sabaoth, il grande e il piccolo Jao e la Vergine Luce[38]) e la regione dei “Sei grandi Principi” (aventi il compito di estrarre dal cosmo inferiore le particelle di luce per ricondurle al Tesoro).
Sotto il mondo della Luce si trova quello degli Eoni o dei cieli planetari, caratterizzato dalla commistione tra materia e luce, dovuta alla rottura dell’integrità primitiva. È qui che luce e materia vengono divise: la prima è inviata verso la sua origine, mentre la seconda è destinata alla distruzione. Anche questo mondo è diviso in tre regioni: la regione dei dodici Eoni, più il tredicesimo con gli Arconti; la regione degli uomini; e la regione degli Inferi.
La serie planetaria descritta nel Pistis Sophia è esattamente rappresentata nei mosaici dell’aula nord della Basilica di Aquileia. Essa è diversa da tutte le altre sequenze conosciute: Cronos (Saturno), Ares (Marte), Hermes (Mercurio), Afrodite (Venere), Zeus (Giove). Le concezioni teologico–filosofiche di quel tempo prevedevano generalmente sette cieli planetari, mentre nel testo gnostico ne appaiono solo cinque e disposti in ordine diverso. Non si tratta della serie mitraica né di quella caldea, e non è riconducibile alla tradizione ermetica o a quella ebraica e neppure a quella apocalittica cristiana. La sequenza dei soli cinque pianeti così disposti, senza Sole e Luna, si trova solo in Pistis Sophia e nel mosaico aquileiese[39]. Oltre i cinque cieli c’è il cielo delle costellazioni, dove l’anima arriva con la sola tendenza al bene, dopo essersi liberata della tendenza al male nei cieli precedenti.
Il Pistis Sophia, o Libro del Salvatore, è un vangelo gnostico alessandrino scritto in lingua copta presumibilmente nella seconda metà del III secolo. Secondo questo testo, Gesù sarebbe rimasto sulla terra per undici anni dopo la resurrezione al fine di istruire gli apostoli sui misteri.
Gli interlocutori di Gesù in Pistis Sophia sono i dodici apostoli e quattro discepole: Maria madre di Gesù, Salomè, Marta e Maria Maddalena[33]. Quest’ultima appare come sposa e sacerdotessa di Gesù, e come tale simboleggia la conoscenza (gnosi)[34]. Come altre opere gnostiche, il Pistis Sophia andò perduto con la persecuzione dell'eresia gnostica nel V secolo. Una versione del testo fu tuttavia rinvenuta a Londra nel 1772 dal bibliofilo A. Askew (motivo per cui il manoscritto è noto anche come Codice Askew)[35].
Il Pistis Sophia descrive la vicenda umana dalla creazione alla salvezza, passando per la caduta: con la nascita, l’anima scende sulla terra e aumenta l’imperfezione morale, mentre con la morte inizia la risalita verso la perfezione. L’unico strumento che l’anima ha a disposizione per poter ritornare al Padre è la Gnosis, cioè la Conoscenza. Per poter raggiungere tale conoscenza l'uomo deve essere risvegliato dallo stato di torpore in cui si trova: deve rendersi conto che il mondo in cui vive gli è estraneo e tentare di separarsene. La conoscenza così intesa perviene all’uomo tramite un richiamo che lo sproni sotto forma di rivelazione divina.
Per capire meglio questi concetti dobbiamo soffermarci sul cosiddetto “Inno della Perla” degli Atti di Tommaso[36]: qui si narra la vicenda del figlio di un re che abbandonò il regno del padre alla volta dell’Egitto per cercare una perla preziosa. Tuttavia, in questa terra straniera dimenticò la propria origine e il proprio compito (come l'anima che si addormenta nel mondo, scordando da dove proviene e il suo destino). Quando i suoi genitori si resero conto di cosa fosse accaduto, scrissero una lettera al figlio esortandolo a risvegliarsi dal sonno che lo aveva preso e sottomesso, e ricordandogli lo scopo per cui si era recato in Egitto. Questa lettera fu affidata ad un'aquila, che col suo grido e l’agitare delle ali lo destò dal sonno. L'effetto della lettera fu liberatorio e il ragazzo si ricordò della perla per la quale era giunto fin là. Egli riuscì a strappare la perla dalle fauci del drago che la custodiva e riprese così la strada del ritorno per ricongiungersi ai genitori. È interessante e inevitabile il confronto tra questo inno e la parabola evangelica del Figliol prodigo.
Il Pistis Sophia inizia con un'allegoria che paragona la morte e resurrezione di Gesù (in senso simbolico-iniziatico) alla discesa e ascesa dell'anima. Si procede poi nella descrizione di importanti figure della cosmologia gnostica, e infine sono elencati trentadue desideri carnali da superare per raggiungere la salvezza. In questo testo vengono esposte le complesse strutture e gerarchie dei cieli contenute negli insegnamenti gnostici. Il Pistis Sophia allude anche a riferimenti temporali copti e a nomi di demoni o divinità contenuti nei testi magici egiziani.
Al vertice dell'universo si trova un Dio inspiegabile, infinito ed inarrivabile, dalla cui luce deriva ogni cosa. Questi è immerso in tre spazi, nei quali risiedono i più grandi misteri a cui l'uomo può accedere: lo spazio dell'Ineffabile, il primo spazio del Primo Mistero (origine di tutte le emanazioni divine), e il secondo spazio del Primo Mistero.
Sotto questi tre spazi si apre il mondo della Luce Pura, suddiviso, a sua volta, in tre regioni: la regione del Tesoro della Luce (dove si trovano le anime che hanno avuto accesso ai misteri), la regione delle stelle fisse[37] (dove abitano Melkisedek, il grande e il piccolo Sabaoth, il grande e il piccolo Jao e la Vergine Luce[38]) e la regione dei “Sei grandi Principi” (aventi il compito di estrarre dal cosmo inferiore le particelle di luce per ricondurle al Tesoro).
Sotto il mondo della Luce si trova quello degli Eoni o dei cieli planetari, caratterizzato dalla commistione tra materia e luce, dovuta alla rottura dell’integrità primitiva. È qui che luce e materia vengono divise: la prima è inviata verso la sua origine, mentre la seconda è destinata alla distruzione. Anche questo mondo è diviso in tre regioni: la regione dei dodici Eoni, più il tredicesimo con gli Arconti; la regione degli uomini; e la regione degli Inferi.
La serie planetaria descritta nel Pistis Sophia è esattamente rappresentata nei mosaici dell’aula nord della Basilica di Aquileia. Essa è diversa da tutte le altre sequenze conosciute: Cronos (Saturno), Ares (Marte), Hermes (Mercurio), Afrodite (Venere), Zeus (Giove). Le concezioni teologico–filosofiche di quel tempo prevedevano generalmente sette cieli planetari, mentre nel testo gnostico ne appaiono solo cinque e disposti in ordine diverso. Non si tratta della serie mitraica né di quella caldea, e non è riconducibile alla tradizione ermetica o a quella ebraica e neppure a quella apocalittica cristiana. La sequenza dei soli cinque pianeti così disposti, senza Sole e Luna, si trova solo in Pistis Sophia e nel mosaico aquileiese[39]. Oltre i cinque cieli c’è il cielo delle costellazioni, dove l’anima arriva con la sola tendenza al bene, dopo essersi liberata della tendenza al male nei cieli precedenti.
8. I mosaici gnostici dell’Aula Nord
I mosaici dell’Aula Nord rappresentano allegoricamente il percorso dell’anima secondo la concezione gnostica: essa, per riuscire a ritornare al Padre (simboleggiato dal Pleroma, la parte più orientale dell’aula), deve oltrepassare il sistema cosmologico costituito dai cieli planetari e dallo Sterèoma (le costellazioni). L’ascesi gnostica subisce quindi l’influenza dei pianeti, e la salvezza o meno della propria anima è determinata a priori. Secondo l’ascesi gnostica di Pistis Sophia, questa è la via detta “di destra”, fatta di luce e di tenebre; la raffigurazione delle altre due vie (dette “di centro” e “di sinistra”) sarebbe andata perduta.
Non conosciamo la posizione del vescovo Teodoro nei confronti di tale concezione, l’unica cosa certa è che in pochi secoli anche la sua opera fu distrutta, col rischio di perdere per sempre le tracce del primitivo culto gnostico e paleocristiano.
Il mosaico va interpretato partendo dalla parete est dell'aula, dove sono raffigurati i cieli planetari; avanzando troviamo le costellazioni e infine il Pleroma, lo spazio riservato a Dio.
Il percorso inizia dalla seconda campata, con la descrizione del mondo terreno. L'umanità e la vita terrena sono rappresentate come una mandria di varie creature. I canestri con fiori o frutta potrebbero essere delle offerte. Della regione degli inferi (ovvero la terza regione del mondo degli Eoni) sembra non esserci traccia.
Nella terza campata si incontrano cinque zone dedicate ai cinque cieli planetari. Ciascuna di queste è suddivisa in due ottagoni curvilinei (individuati da tendine fatte di tondi e ovali) l’uno con un mitico animale (arconte/sorvegliante) e l’altro con una coppia di uccelli giustapposti (l’anima con le due tendenze al bene e al male) ai lati di un tirso di albero da frutta.
Il primo cielo è quello di Zeus (Giove): il relativo arconte è Jachthanabas, il cavallo alato infuocato (si tratta di Pégaso). Questo arconte è violento, ruba le anime che ivi si trovano e le consuma con il fumo e il fuoco. Tuttavia, in particolari situazioni astrologiche, egli permette il passaggio di alcune anime al cielo successivo[40]. Alla sua sinistra, le tendenze dell’anima sono rappresentate da due corvi attorno a un melograno. Le anime stesse appaiono sotto forma di nodi o di fiori all’interno di cerchi od ovali.
I mosaici dell’Aula Nord rappresentano allegoricamente il percorso dell’anima secondo la concezione gnostica: essa, per riuscire a ritornare al Padre (simboleggiato dal Pleroma, la parte più orientale dell’aula), deve oltrepassare il sistema cosmologico costituito dai cieli planetari e dallo Sterèoma (le costellazioni). L’ascesi gnostica subisce quindi l’influenza dei pianeti, e la salvezza o meno della propria anima è determinata a priori. Secondo l’ascesi gnostica di Pistis Sophia, questa è la via detta “di destra”, fatta di luce e di tenebre; la raffigurazione delle altre due vie (dette “di centro” e “di sinistra”) sarebbe andata perduta.
Non conosciamo la posizione del vescovo Teodoro nei confronti di tale concezione, l’unica cosa certa è che in pochi secoli anche la sua opera fu distrutta, col rischio di perdere per sempre le tracce del primitivo culto gnostico e paleocristiano.
Il mosaico va interpretato partendo dalla parete est dell'aula, dove sono raffigurati i cieli planetari; avanzando troviamo le costellazioni e infine il Pleroma, lo spazio riservato a Dio.
Il percorso inizia dalla seconda campata, con la descrizione del mondo terreno. L'umanità e la vita terrena sono rappresentate come una mandria di varie creature. I canestri con fiori o frutta potrebbero essere delle offerte. Della regione degli inferi (ovvero la terza regione del mondo degli Eoni) sembra non esserci traccia.
Nella terza campata si incontrano cinque zone dedicate ai cinque cieli planetari. Ciascuna di queste è suddivisa in due ottagoni curvilinei (individuati da tendine fatte di tondi e ovali) l’uno con un mitico animale (arconte/sorvegliante) e l’altro con una coppia di uccelli giustapposti (l’anima con le due tendenze al bene e al male) ai lati di un tirso di albero da frutta.
Il primo cielo è quello di Zeus (Giove): il relativo arconte è Jachthanabas, il cavallo alato infuocato (si tratta di Pégaso). Questo arconte è violento, ruba le anime che ivi si trovano e le consuma con il fumo e il fuoco. Tuttavia, in particolari situazioni astrologiche, egli permette il passaggio di alcune anime al cielo successivo[40]. Alla sua sinistra, le tendenze dell’anima sono rappresentate da due corvi attorno a un melograno. Le anime stesse appaiono sotto forma di nodi o di fiori all’interno di cerchi od ovali.
Più in alto scorgiamo il cielo di Afrodite (Venere) sorvegliato dall’arconte Typhon o Parhedron, un asino scalpitante; costui controlla trentadue demoni che istigano alla lussuria, al tradimento e alla prostituzione. Alla sua destra, nel riquadro ottagonale, si vedono due pernici contrapposte.
Il terzo cielo è quello di Hermes (Mercurio), sottoposto all’egemonia di Ecate, raffigurata con le tre facce dell’Hermes alessandrino: essa governa ventisette demoni che possono insidiare gli uomini inducendoli a mentire, spergiurare e bramare le cose altrui. A sinistra, nel riquadro arcuato, trovano spazio due fagiani.
Salendo troviamo il cielo di Ares (Marte) governato dall'arconte Ariuth, una capra scura con il drappo rosso, il corno dell’attacco e uno scettro (tutte insegne del comando). Lo scettro è stato trasformato dalla Chiesa ufficiale in un pastorale. Ariuth è promotore di guerre e omicidi e istigatore di violenza. Alla sua destra vediamo una coppia di averle attorno ad un alberello di frutti con tralci di ribes.
Il cielo più alto appartiene a Cronos (Saturno), presieduto dall’arconte Paraplex, il torello dell’abbondanza con la falce messoria[41]. Al suo fianco appaiono due porfirioni sgargianti davanti a un tirso di mele[42].
Procedendo verso est, uscendo dalla regione degli Eoni, si accede alla parte inferiore della quarta campata: il Cielo delle Stelle Fisse (Steréoma). Le anime, ora purificate, varcano il cielo delle costellazioni, ovvero la sfera del destino (in quanto secondo gli gnostici il destino umano è condizionato dalle stelle). Qui sono state usate tessere musive più chiare rispetto a quelle adoperate per le altre zone, probabilmente per enfatizzare la luminosità delle costellazioni. In questo cielo ci dovrebbero essere dieci costellazioni zodiacali (non tutte visibili purtroppo), mentre le due rimanenti (ariete e bilancia) si trovano nel Pleroma con significato diverso.
Secondo il Pistis Sophia, nel cielo delle costellazioni ci sarebbero cinque alberi, ciascuno simboleggiante un millennio trascorso dalla creazione del mondo. Il padre vi sarebbe disceso sotto forma di Colomba. Nel mosaico troviamo ciascun albero sormontato dalla propria costellazione “custode”, raffigurata da un animale mitologico. Le anime sono rappresentate da uccelli singoli, già liberate dalla loro controparte negativa. Seguendo il Pistis Sophia, i cinque “Grandi Custodi della Luce” sarebbero: Mosè, Giosuè, Melchisedech, il “custode della cortina di quelli di destra” e Ieova “il sorvegliante della luce”.
Sul pavimento possiamo facilmente identificarli con gli animali assisi sugli alberi-millennio; purtroppo solo quattro sono visibili, mentre uno è andato perduto sotto il campanile.
Secondo il Pistis Sophia, nel cielo delle costellazioni ci sarebbero cinque alberi, ciascuno simboleggiante un millennio trascorso dalla creazione del mondo. Il padre vi sarebbe disceso sotto forma di Colomba. Nel mosaico troviamo ciascun albero sormontato dalla propria costellazione “custode”, raffigurata da un animale mitologico. Le anime sono rappresentate da uccelli singoli, già liberate dalla loro controparte negativa. Seguendo il Pistis Sophia, i cinque “Grandi Custodi della Luce” sarebbero: Mosè, Giosuè, Melchisedech, il “custode della cortina di quelli di destra” e Ieova “il sorvegliante della luce”.
Sul pavimento possiamo facilmente identificarli con gli animali assisi sugli alberi-millennio; purtroppo solo quattro sono visibili, mentre uno è andato perduto sotto il campanile.
Accovacciato sul primo albero vediamo il Capricorno, la costellazione che rappresenta la capra Amaltea. Zeus era stato affidato dalla madre Rea a questa capra affinché lo allevasse al sicuro dal padre Crònos, il quale aveva la strana abitudine di inghiottire i propri figli. Zeus, per gratitudine, dopo la sua morte l’aveva trasformata in costellazione.
Zeus era il legislatore dei Greci; allo stesso modo Mosè era il legislatore degli Ebrei ed era stato salvato da piccolo dalle acque del Nilo. Nel cristianesimo gnostico le due figure si sovrapposero e di conseguenza il capricorno divenne anche il simbolo di Mosè.
Zeus era il legislatore dei Greci; allo stesso modo Mosè era il legislatore degli Ebrei ed era stato salvato da piccolo dalle acque del Nilo. Nel cristianesimo gnostico le due figure si sovrapposero e di conseguenza il capricorno divenne anche il simbolo di Mosè.
Sul secondo albero si trova una famiglia di pernici, allusiva alle “sette vergini raccoglitrici di Luce” assistenti di Melchisedec. In cielo trovano corrispondenza nelle Pleiadi, gruppo di sette stelle appartenenti al Toro che diventano visibili dal periodo della mietitura (maggio). Il raccolto agricolo è metafora della raccolta di luce (o semi luminosi) affidata agli gnostici. In tal senso si può intendere sia il lavoro interiore di ricostituzione dell’anima, sia quello di ricerca nel mondo delle anime inquiete.
Sul terzo albero troviamo un Gambero, paralizzato dalla scarica della torpedine. Nella stessa situazione è il sole nel solstizio d’estate (solis–statio = fermata del sole) quando, al massimo del suo fulgore, sembra che non prosegua la sua corsa annuale, ma che si fermi per qualche giorno. Nel solstizio d’estate il sole sorge nella casa del Cancro: gli Egizi e i Caldei avevano chiamato questa costellazione Gambero, e possiamo associarla a Giosué perché, com’è noto, egli aveva fermato il sole.
Sopra la torpedine compare la colomba treronina (o colomba pappagallo), dal collare rossiccio e dal meraviglioso colore verdazzurro del piumaggio. E’ racchiusa in un ottagono concavo e rappresenterebbe il Padre che scende attraverso la “cortina”. Questa colomba abita l’Africa orientale e il Medio Oriente, inducendoci a vedere la mano di artisti alessandrini o mediorientali[43].
Sul terzo albero troviamo un Gambero, paralizzato dalla scarica della torpedine. Nella stessa situazione è il sole nel solstizio d’estate (solis–statio = fermata del sole) quando, al massimo del suo fulgore, sembra che non prosegua la sua corsa annuale, ma che si fermi per qualche giorno. Nel solstizio d’estate il sole sorge nella casa del Cancro: gli Egizi e i Caldei avevano chiamato questa costellazione Gambero, e possiamo associarla a Giosué perché, com’è noto, egli aveva fermato il sole.
Sopra la torpedine compare la colomba treronina (o colomba pappagallo), dal collare rossiccio e dal meraviglioso colore verdazzurro del piumaggio. E’ racchiusa in un ottagono concavo e rappresenterebbe il Padre che scende attraverso la “cortina”. Questa colomba abita l’Africa orientale e il Medio Oriente, inducendoci a vedere la mano di artisti alessandrini o mediorientali[43].
Sul quarto albero sostava un drago con la coda a spire (la costellazione del Drago), trasformato in seguito da Teodoro in una sorta capretto[44]. Raffigurerebbe Ieova, il Dio veterotestamentario custode delle dodici tribù d’Israele. Come già detto, il quinto albero è assente, poiché coperto dalla torre campanaria in età medioevale[45]. Così riporta il Pistis Sophia:
tre vie (di destra, di centro e di sinistra) e sulla via di destra il Padre, in forma di colomba, in prossimità dell’albero di Ieova, e poi i “grandi ricevitori di luce”, le “due guide primordiali” e i “cinque alberi”. Al di sopra di tutto il Plèroma, cioè la pienezza di Dio.
Procedendo ancora verso est la raffigurazione continua appunto nel Pleroma, separata da una linea divisoria di qualche tessera nera. Ci imbattiamo in una serie di ottagoni (allegoria dell’ottavo giorno - ottavo millennio - regno del Padre), dei quali solo il secondo e terzo sono originali (gli altri sono stati sostituiti dalla chiesa ortodossa).
Il secondo contiene l'ariete, allegoria del Padre Celeste come principio di ogni cosa: egli è il padre del gregge, sulla cui fronte si vede una sorta di C capovolta. Nel Pistis Sophia essa indica il luogo in cui Gesù radunerà gli Apostoli all’interno del Padre: Gesù invita gli Apostoli a formare una corona attorno a sé nel posto della glorificazione, alla fine dell’ascesi. Secondo il Pistis Sophia ognuno di noi può far parte di tali semi eternamente vivi, il cui destino finale sarà di diventare “corona” sulla fronte del Padre. In tal senso gli Gnostici si ritenevano conoscitori della via della salvezza. Sopra la figura dell’ariete c’era l’iscrizione CYRIACOI (= uomini eletti in quanto detentori della conoscenza), che venne sostituita dalla Chiesa ufficiale con CYRIACE VIBAS (= O uomo-signore, che tu viva in Dio), con cui si voleva esprimere la fede e la speranza nella Resurrezione[46].
Il terzo ottagono è adiacente alle fondamenta del campanile e al suo interno si distinguono un gallo e una tartaruga in lotta, simboleggianti l'eterna opposizione tra il bene e il male. Il gallo rappresenta la luce, mentre la tartaruga (da “Tartaro”, mondo-inferno, letteralmente “abitatore delle tenebre”) indica il maligno, la materia e l’uomo materiale. Dietro gli animali c’è una colonnina che sostiene un sacchetto o un’anfora. Questa iconografia è un caso unico nell'arte paleocristiana: interpretandola secondo il culto pagano di Mithra, il sacchetto sarebbe pieno di denaro, premio per il vincitore. Il credente sarebbe esortato a combattere il peccato per ricevere in dono la vita eterna. In chiave gnostica l’anfora simboleggia invece l'aroma o l'essenza, cioè lo spirito. Curioso che secondo la corrente gnostica dei Sethiani i tre principi che si trovano all’origine di ogni forma esistente sono proprio la luce, le tenebre, lo spirito (o pneuma).
tre vie (di destra, di centro e di sinistra) e sulla via di destra il Padre, in forma di colomba, in prossimità dell’albero di Ieova, e poi i “grandi ricevitori di luce”, le “due guide primordiali” e i “cinque alberi”. Al di sopra di tutto il Plèroma, cioè la pienezza di Dio.
Procedendo ancora verso est la raffigurazione continua appunto nel Pleroma, separata da una linea divisoria di qualche tessera nera. Ci imbattiamo in una serie di ottagoni (allegoria dell’ottavo giorno - ottavo millennio - regno del Padre), dei quali solo il secondo e terzo sono originali (gli altri sono stati sostituiti dalla chiesa ortodossa).
Il secondo contiene l'ariete, allegoria del Padre Celeste come principio di ogni cosa: egli è il padre del gregge, sulla cui fronte si vede una sorta di C capovolta. Nel Pistis Sophia essa indica il luogo in cui Gesù radunerà gli Apostoli all’interno del Padre: Gesù invita gli Apostoli a formare una corona attorno a sé nel posto della glorificazione, alla fine dell’ascesi. Secondo il Pistis Sophia ognuno di noi può far parte di tali semi eternamente vivi, il cui destino finale sarà di diventare “corona” sulla fronte del Padre. In tal senso gli Gnostici si ritenevano conoscitori della via della salvezza. Sopra la figura dell’ariete c’era l’iscrizione CYRIACOI (= uomini eletti in quanto detentori della conoscenza), che venne sostituita dalla Chiesa ufficiale con CYRIACE VIBAS (= O uomo-signore, che tu viva in Dio), con cui si voleva esprimere la fede e la speranza nella Resurrezione[46].
Il terzo ottagono è adiacente alle fondamenta del campanile e al suo interno si distinguono un gallo e una tartaruga in lotta, simboleggianti l'eterna opposizione tra il bene e il male. Il gallo rappresenta la luce, mentre la tartaruga (da “Tartaro”, mondo-inferno, letteralmente “abitatore delle tenebre”) indica il maligno, la materia e l’uomo materiale. Dietro gli animali c’è una colonnina che sostiene un sacchetto o un’anfora. Questa iconografia è un caso unico nell'arte paleocristiana: interpretandola secondo il culto pagano di Mithra, il sacchetto sarebbe pieno di denaro, premio per il vincitore. Il credente sarebbe esortato a combattere il peccato per ricevere in dono la vita eterna. In chiave gnostica l’anfora simboleggia invece l'aroma o l'essenza, cioè lo spirito. Curioso che secondo la corrente gnostica dei Sethiani i tre principi che si trovano all’origine di ogni forma esistente sono proprio la luce, le tenebre, lo spirito (o pneuma).
La coppia di animali richiama la costellazione della Bilancia: l’immagine ricorda una scena classica dell’iconografia egizia, quella del giudizio delle anime, pesate da Anubis sui piatti della bilancia. E’ palese il richiamo al giudizio finale, a cui ogni anima dovrà sottostare prima del ritorno al Padre.
All’estremità superiore del Pleroma troviamo il Padre dall’aspetto di colomba pappagallo, dalle piume verdi-azzurre e dal collare rossiccio. Egli è separato dal resto del cosmo da una doppia linea, il limite (Hòros) che non si può valicare perché Dio non può essere compreso dall'uomo corporeo. Gli gnostici chiamavano questo limite anche “ventilabro”[47] e gli attribuivano la funzione di separare la parte materiale dell’uomo da quella spirituale.
All’estremità superiore del Pleroma troviamo il Padre dall’aspetto di colomba pappagallo, dalle piume verdi-azzurre e dal collare rossiccio. Egli è separato dal resto del cosmo da una doppia linea, il limite (Hòros) che non si può valicare perché Dio non può essere compreso dall'uomo corporeo. Gli gnostici chiamavano questo limite anche “ventilabro”[47] e gli attribuivano la funzione di separare la parte materiale dell’uomo da quella spirituale.
9. Tracce dell’evangelizzazione marciana in Friuli
Alle origini del cristianesimo convivevano varie scuole di pensiero, dominate in numero dalle correntipietrina e paolina (poi prevalsa). Paolo conferma la presenza di più correnti di evangelizzazione nellaLettera ai Romani, affermando di non essere mai andato a costruire “dove altri avevano già piantato il fondamento”:
Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui...[48]
La regione dell’Illiria comprendeva Dalmazia e Pannonia, e probabilmente anche la città di Aquileia[49]. Sull'argomento la questione è ancora aperta: ci si chiede infatti se la missione evangelica di Paolo avesse compreso l’Illirico o se si fosse fermata ai suoi confini. Ci sono infatti buoni motivi per ritenere che la buona novella fosse giunta in questi territori sulla bocca di predicatorinon paolini, probabilmente san Marco e san Pietro.
Le Chiese di matrice petrino-marciana mostravano opposizione e rifiuto verso le chiese paoline[50]. Esponenti di questo gruppo, come le comunità di Alessandria d’Egitto e di Aquileia, hanno ribadito la loro fondazione marciana con forza per secoli. Nel I secolo esistevano due ambiti di predicazione: uno era destinato agli Ebrei (circoncisi) ed era affidato a san Pietro e agli altri apostoli; l’altro era rivolto ai gentili (non circoncisi) ed era gestito da san Paolo e dai suoi aiutanti.
L’elemento più significativo che distingue le due correnti è la pentecostalità. San Paolo non figurava tra i 12 che avevano ricevuto lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, divenendo così le “pietre vive” a fondamenta della Chiesa. San Paolo aveva ricevuto soltanto una rivelazione solitaria sulla via di Damasco, un episodio sospetto agli occhi di quei “cristiani” che aveva a lungo perseguitato[51].
La pentecostalità, che si manifestava nella ebrietas[52] e nella glossolalia[53], era una peculiarità delle comunità non paoline. Tra queste vi era anche Alessandria, come testimoniato dall’identità del suo evangelizzatore, ovvero San Marco. Si tratta di quel Johanna/Marcos indicato dalle fonti come interprete di Pietro (interprete non tanto dell’apostolo, quanto di un particolare carisma: il dono delle lingue, riversato sui dodici apostoli, con Pietro protagonista e Paolo assente).
Sappiamo che Marco accompagnò Barnaba e san Paolo nel loro primo viaggio apostolico, ma abbandonò la missione per alcune divergenze sulla predicazione ai gentili. Non è vero che Pietro e Marco intendevano limitare agli Ebrei l’annuncio di salvezza: il tema dell’universalismo è anzi radicato in Pietro e Marco. Entrambi però non volevano escludere Israele[54], contrariamente a Paolo. Infatti, sia Giacomo (capo della Chiesa di Gerusalemme) che Pietro e Marco predicavano la buona novella senza abbandonare però la legge di Mosè (come facevano gli Ebioniti[55]), promuovendo una sorta di programma giudeo-cristiano.
Un’antica leggenda fa risalire il primo annuncio del Vangelo nel basso Salento al passaggio di san Pietro, accompagnato da san Marco, in viaggio verso Roma. Nei primi secoli dopo Cristo, chiunque volesse recarsi dall’oriente a Roma, doveva passare obbligatoriamente per la Puglia. Due importanti vie romane attraversavano questa regione a partire dal porto di Brindisi, la via Appia e la via Traiana: la prima, passando per Taranto e Venosa, portava a Roma, mentre la seconda si dirigeva verso Benevento[56]. Lungo il litorale adriatico vi sono diverse dedicazioni di chiese o cappelle a san Pietro, san Marco e san Giacomo, cui sovente si accompagna la presenza di sorgive, olle e fonti[57].
Percorsa la Puglia da un estremo all’altro, Pietro e Marco giunsero a Roma. Secondo la tradizione patristica, Pietro avrebbe vissuto a lungo a Roma e qui avrebbe trovato la morte. Eusebio aggiunge che a Roma avvenne anche l’importante incontro con Filone alessandrino, a seguito del quale, forse, quest’ultimo si convertì al cristianesimo, anche se è più probabile che sia stato Marco ad assumere il ruolo di mediatore tra il pescatore Pietro e l’erudito Filone.
Occupiamoci ora della Pentecoste, così cara all’evangelizzazione pietrina e marciana. I Terapeuti di Alessandria accompagnavano la festa con una danza sacra ed estatica, che trova stretta analogia con le usanze degli Ebrei più antichi[58] che a loro volta le avevano apprese in Egitto. Questo tema è stato approfondito dal musicologo Egon Wellesz, interessato agli influssi orientali sul canto ecclesiastico latino.
Secondo Wellesz, la prima testimonianza in epoca cristiana di “canto in due cori” (ovvero canto antifonico, a botta e risposta, con l’esecuzione alternata di uno stesso tema musicale da parte di due gruppi) si troverebbe nel De vita contemplativa del filosofo Filone di Alessandria (ca 40 d.C.). Secondo l’opera di Filone, questa prassi coreica risalirebbe ad una bizzarra comunità di uomini e donne, dediti alla preghiera e alla meditazione, stabilitisi nei pressi di Alessandria d’Egitto: si tratta appunto dei Terapeuti. Ogni sabato si radunavano per lodare Dio, in particolate nel sabato della Pentecoste. In tale circostanza ballavano e cantavano tutta la notte, prima divisi in due cori e poi uniti in uno solo, fino a raggiungere una sorta di estasi collettiva.
Queste celebrazioni ricordano tanto le feste bacchiche quanto i riti ebraici ai tempi dell’Esodo: nel libro sacro leggiamo che durante la traversata del Mar Rosso, alla vista dell’esercito faraonico inghiottito dalle acque, la profetessa Myriam prese in mano un tamburello, e guidò le donne d’Israele in una danza di ringraziamento, salmodiando in due cori[59].
Don Gilberto Pressacco, ammirato investigatore sull’origine marciana della Chiesa di Aquileia, ci informa che una simile usanza era diffusa in Friuli nel XVII secolo. A testimoniarlo sarebbe una lettera-denuncia spedita nel 1624 al Tribunale d’Inquisizione di Aquileia dal parroco di Palazzolo dello Stella. Il prete segnalava la presenza nella sua comunità di uno strano rituale che si svolgeva nella notte del sabato di Pentecoste e coinvolgeva un gruppo di uomini e donne. Costoro si muovevano in processione e aspergevano con un mazzetto di issopo attorno alla villa, cantando un canto a due cori intitolato Schiarazzola Marazzola. Ancora oggi si colloca tra i canti più famosi della tradizione popolare friulana. Il ruolo principale nella celebrazione spettava alle donne, guidate da una certa Maria Alessandrina. Spontaneo il confronto con la profetessa Myriam che guidava le donne d’Israele nell’Esodo[60].
Pratiche coreiche simili erano diffuse all’interno dell’ordine dei Carmelitani Scalzi, fondati da Santa Teresa d’Avila[61] (la città del vescovo eretico Priscilliano) durante la seconda metà del XVI secolo. Questa santa, annoverata tra i 33 Dottori della Chiesa, fu una delle figure più importanti della Controriforma cattolica per la sua attività di scrittrice e di riformatrice degli ordini religiosi.
Nel convento di Avila sono oggi conservati i tamburelli usati da santa Teresa e dalle sue consorelle durante le preghiere. Nell’atrio del convento si trova inoltre un dipinto che raffigura Filone, noto decantatore dei Terapeuti, considerati in senso ampio i precorritori del movimento carmelitano[62]. I Carmelitani Scalzi sono infatti dediti alla vita contemplativa, alla quale uniscono opere di apostolato missionario.
Schiarazzola Marazzola è anche il titolo di un ballo contenuto in una raccolta musicale compilata nel 1578 dal maestro di cappella di Aquileia, pre’ Giorgio Mainerio. La cosa è interessante poiché egli fu inquisito con l’accusa di aver praticato riti notturni attorno a dei fuochi, presso le colline della campagna friulana[63].
Ma cosa significa letteralmente Schiarazzola Marazzola? Don Gilberto Pressacco propone un’interessante chiave di lettura isolando la radice dei due termini: la parola scjaràz in dialetto friulano è usata per indicare una canna; la radice etimologica è greca (càrax) e significa appunto canna o bastone.Marath in greco significa finocchio; ne deriva che schiarazz(ola) e marazz(ola) sono gli equivalenti friulani dei greci “canna e finocchio” a cui è stato aggiunto il suffisso –ola[64].
Come abbiamo accennato, il canto a due cori prevede l’esecuzione alternata, a botta e risposta, tra due gruppi opposti e dialoganti. È possibile, anzi probabile, che la mimica usata nel canto volesse enfatizzare una sorta di battaglia coreica. Questo riporta alla mente le dispute notturne dei Beneandanti[65], che dichiaravano di combattere contro streghe e demoni brandendo proprio canna e finocchio, per proteggere il raccolto delle campagne. Nei secoli XVI e XVII, i Beneandanti erano piccoli gruppi di persone dediti alla protezione dei villaggi e del raccolto dall'intervento malefico delle streghe. Si tratta di un culto agrario pagano diffusosi nel centro-nord Europa e arrivato fino alle regioni nord-orientali dell'Italia. Ne deduciamo che una tradizione coreica dei Terapeuti è andata a mescolarsi con una “battaglia” pagana.
Le tracce dell’evangelizzazione marciana in Friuli devono ricercarsi nelle campagne, in quanto aree non raggiunte dalla cultura ufficiale e dominante. La diffidenza dell’ambiente rurale di fronte ai cambiamenti favorisce la conservazione per secoli di riti e tradizioni. E il rifiuto dell’ambiente cittadino è una prerogativa sia dei Terapeuti che degli Esseni.
Sappiamo che i Terapeuti preferivano la tranquillità della campagna al caos e alla corruzione delle città. Prediligevano luoghi collinari e con acque sorgive, come le acque sorgive dette “olle”[66] che caratterizzano la bassa friulana e in particolare la zona di Aquileia.
La loro comunità era composta da uomini e donne che vivevano in zone divise, potendo così sentirsi ma non vedersi. Vigeva la regola del celibato e le donne erano per lo più vergini anziane. Vestivano in modo sobrio e mangiavano pane comune condito con sale o issopo (proprio quell’issopo usato dalle donne di Palazzolo per l’aspersione). Per essere ammessi all’ordine era necessario lasciare i propri beni (come per gli Esseni) e dedicarsi completamente alla contemplazione e alla preghiera.
Filone chiamava monasterium il luogo in cui vivevano i Terapeuti, e da un passo dell’Apologia contro Girolamo di Rufino si intuisce la presenza di un luogo simile proprio ad Aquileia. Ancora oggi è presente una zona chiamata Monastero, un luogo situato fuori città in cui un tempo sorgeva una sinagoga ebraica[67].
Sembra che i cristiani della campagna osservassero il riposo del sabato, in linea con la tradizione ebraica, diversamente dai fedeli di città. Il Patriarca di Aquileia Paolino, nel canone XIII, steso a conclusione del Concilio provinciale di Cividale del Friuli (796-797), sancì che la celebrazione della domenica dovesse iniziare la sera del sabato e che quanto detto dal profeta Isaia sul Sabato (Isaia 58,13) dovesse intendersi riferito alla domenica. Aggiungeva:
Inoltre, se gli Ebrei fanno festa il giorno di sabato, che è l’ultimo della settimana e che anche le nostre genti contadine osservano, si direbbe tanto importante il sabato, e in alcun modo si potrebbe aggiungere delizioso e mio…[68].
Nonostante i provvedimenti della Chiesa per abolire la solennità del sabato, la tradizione gnostica restò radicata nelle usanze aquileiesi anche dopo la soppressione del Patriarcato di Aquileia nel 1751. Testimonianze di tale tradizione sono rimaste impresse nella lingua locale: in friulano il giorno del sabato viene detto “la sabide”, nome di genere femminile. L’unica altra lingua in cui il termine ha lo stesso genere è l’ebraico (“shabuoth”)[69]. Una "Santa Sabide" appare nelle pievi costruite nei pressi delle olle o risorgive della bassa friulana: insieme a santa Margherita, san Michele e san Giacomo, compone un gruppo esclusivo di santi a cui sono dedicate le pievi[70].
I cristiani di Aquileia usavano per la catechesi alcuni testi diversi dai Vangeli, tra cui Il Pastore di Erma, uno scrittore degli inizi del II secolo. Il suo tema centrale è la discesa agli inferi, compiuta dopo Cristo dagli Apostoli e dai Dottori della Chiesa. Essa simboleggia un’estensione dell’annuncio di salvezza ai giusti di tutte le nazioni. Secondo quest’opera, la discesa all’inferno avveniva attraverso varchi aperti nel terreno dalle sorgive, acque che avevano quindi la funzione di collegare il mondo terreno e ultraterreno[71].
La discesa agli inferi trova forse un riscontro testuale nei Vangeli: Gesù viene infatti ripreso da un gruppo farisei e sadducei, indignati dal suo agire indistinto verso ebrei e pagani. L’accusa che gli rivolgono è di guarire gli ammalati in nome di Beelzebul, collegando di nuovo i temi dell’universalità e della discesa agli inferi.
Alle origini del cristianesimo convivevano varie scuole di pensiero, dominate in numero dalle correntipietrina e paolina (poi prevalsa). Paolo conferma la presenza di più correnti di evangelizzazione nellaLettera ai Romani, affermando di non essere mai andato a costruire “dove altri avevano già piantato il fondamento”:
Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui...[48]
La regione dell’Illiria comprendeva Dalmazia e Pannonia, e probabilmente anche la città di Aquileia[49]. Sull'argomento la questione è ancora aperta: ci si chiede infatti se la missione evangelica di Paolo avesse compreso l’Illirico o se si fosse fermata ai suoi confini. Ci sono infatti buoni motivi per ritenere che la buona novella fosse giunta in questi territori sulla bocca di predicatorinon paolini, probabilmente san Marco e san Pietro.
Le Chiese di matrice petrino-marciana mostravano opposizione e rifiuto verso le chiese paoline[50]. Esponenti di questo gruppo, come le comunità di Alessandria d’Egitto e di Aquileia, hanno ribadito la loro fondazione marciana con forza per secoli. Nel I secolo esistevano due ambiti di predicazione: uno era destinato agli Ebrei (circoncisi) ed era affidato a san Pietro e agli altri apostoli; l’altro era rivolto ai gentili (non circoncisi) ed era gestito da san Paolo e dai suoi aiutanti.
L’elemento più significativo che distingue le due correnti è la pentecostalità. San Paolo non figurava tra i 12 che avevano ricevuto lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, divenendo così le “pietre vive” a fondamenta della Chiesa. San Paolo aveva ricevuto soltanto una rivelazione solitaria sulla via di Damasco, un episodio sospetto agli occhi di quei “cristiani” che aveva a lungo perseguitato[51].
La pentecostalità, che si manifestava nella ebrietas[52] e nella glossolalia[53], era una peculiarità delle comunità non paoline. Tra queste vi era anche Alessandria, come testimoniato dall’identità del suo evangelizzatore, ovvero San Marco. Si tratta di quel Johanna/Marcos indicato dalle fonti come interprete di Pietro (interprete non tanto dell’apostolo, quanto di un particolare carisma: il dono delle lingue, riversato sui dodici apostoli, con Pietro protagonista e Paolo assente).
Sappiamo che Marco accompagnò Barnaba e san Paolo nel loro primo viaggio apostolico, ma abbandonò la missione per alcune divergenze sulla predicazione ai gentili. Non è vero che Pietro e Marco intendevano limitare agli Ebrei l’annuncio di salvezza: il tema dell’universalismo è anzi radicato in Pietro e Marco. Entrambi però non volevano escludere Israele[54], contrariamente a Paolo. Infatti, sia Giacomo (capo della Chiesa di Gerusalemme) che Pietro e Marco predicavano la buona novella senza abbandonare però la legge di Mosè (come facevano gli Ebioniti[55]), promuovendo una sorta di programma giudeo-cristiano.
Un’antica leggenda fa risalire il primo annuncio del Vangelo nel basso Salento al passaggio di san Pietro, accompagnato da san Marco, in viaggio verso Roma. Nei primi secoli dopo Cristo, chiunque volesse recarsi dall’oriente a Roma, doveva passare obbligatoriamente per la Puglia. Due importanti vie romane attraversavano questa regione a partire dal porto di Brindisi, la via Appia e la via Traiana: la prima, passando per Taranto e Venosa, portava a Roma, mentre la seconda si dirigeva verso Benevento[56]. Lungo il litorale adriatico vi sono diverse dedicazioni di chiese o cappelle a san Pietro, san Marco e san Giacomo, cui sovente si accompagna la presenza di sorgive, olle e fonti[57].
Percorsa la Puglia da un estremo all’altro, Pietro e Marco giunsero a Roma. Secondo la tradizione patristica, Pietro avrebbe vissuto a lungo a Roma e qui avrebbe trovato la morte. Eusebio aggiunge che a Roma avvenne anche l’importante incontro con Filone alessandrino, a seguito del quale, forse, quest’ultimo si convertì al cristianesimo, anche se è più probabile che sia stato Marco ad assumere il ruolo di mediatore tra il pescatore Pietro e l’erudito Filone.
Occupiamoci ora della Pentecoste, così cara all’evangelizzazione pietrina e marciana. I Terapeuti di Alessandria accompagnavano la festa con una danza sacra ed estatica, che trova stretta analogia con le usanze degli Ebrei più antichi[58] che a loro volta le avevano apprese in Egitto. Questo tema è stato approfondito dal musicologo Egon Wellesz, interessato agli influssi orientali sul canto ecclesiastico latino.
Secondo Wellesz, la prima testimonianza in epoca cristiana di “canto in due cori” (ovvero canto antifonico, a botta e risposta, con l’esecuzione alternata di uno stesso tema musicale da parte di due gruppi) si troverebbe nel De vita contemplativa del filosofo Filone di Alessandria (ca 40 d.C.). Secondo l’opera di Filone, questa prassi coreica risalirebbe ad una bizzarra comunità di uomini e donne, dediti alla preghiera e alla meditazione, stabilitisi nei pressi di Alessandria d’Egitto: si tratta appunto dei Terapeuti. Ogni sabato si radunavano per lodare Dio, in particolate nel sabato della Pentecoste. In tale circostanza ballavano e cantavano tutta la notte, prima divisi in due cori e poi uniti in uno solo, fino a raggiungere una sorta di estasi collettiva.
Queste celebrazioni ricordano tanto le feste bacchiche quanto i riti ebraici ai tempi dell’Esodo: nel libro sacro leggiamo che durante la traversata del Mar Rosso, alla vista dell’esercito faraonico inghiottito dalle acque, la profetessa Myriam prese in mano un tamburello, e guidò le donne d’Israele in una danza di ringraziamento, salmodiando in due cori[59].
Don Gilberto Pressacco, ammirato investigatore sull’origine marciana della Chiesa di Aquileia, ci informa che una simile usanza era diffusa in Friuli nel XVII secolo. A testimoniarlo sarebbe una lettera-denuncia spedita nel 1624 al Tribunale d’Inquisizione di Aquileia dal parroco di Palazzolo dello Stella. Il prete segnalava la presenza nella sua comunità di uno strano rituale che si svolgeva nella notte del sabato di Pentecoste e coinvolgeva un gruppo di uomini e donne. Costoro si muovevano in processione e aspergevano con un mazzetto di issopo attorno alla villa, cantando un canto a due cori intitolato Schiarazzola Marazzola. Ancora oggi si colloca tra i canti più famosi della tradizione popolare friulana. Il ruolo principale nella celebrazione spettava alle donne, guidate da una certa Maria Alessandrina. Spontaneo il confronto con la profetessa Myriam che guidava le donne d’Israele nell’Esodo[60].
Pratiche coreiche simili erano diffuse all’interno dell’ordine dei Carmelitani Scalzi, fondati da Santa Teresa d’Avila[61] (la città del vescovo eretico Priscilliano) durante la seconda metà del XVI secolo. Questa santa, annoverata tra i 33 Dottori della Chiesa, fu una delle figure più importanti della Controriforma cattolica per la sua attività di scrittrice e di riformatrice degli ordini religiosi.
Nel convento di Avila sono oggi conservati i tamburelli usati da santa Teresa e dalle sue consorelle durante le preghiere. Nell’atrio del convento si trova inoltre un dipinto che raffigura Filone, noto decantatore dei Terapeuti, considerati in senso ampio i precorritori del movimento carmelitano[62]. I Carmelitani Scalzi sono infatti dediti alla vita contemplativa, alla quale uniscono opere di apostolato missionario.
Schiarazzola Marazzola è anche il titolo di un ballo contenuto in una raccolta musicale compilata nel 1578 dal maestro di cappella di Aquileia, pre’ Giorgio Mainerio. La cosa è interessante poiché egli fu inquisito con l’accusa di aver praticato riti notturni attorno a dei fuochi, presso le colline della campagna friulana[63].
Ma cosa significa letteralmente Schiarazzola Marazzola? Don Gilberto Pressacco propone un’interessante chiave di lettura isolando la radice dei due termini: la parola scjaràz in dialetto friulano è usata per indicare una canna; la radice etimologica è greca (càrax) e significa appunto canna o bastone.Marath in greco significa finocchio; ne deriva che schiarazz(ola) e marazz(ola) sono gli equivalenti friulani dei greci “canna e finocchio” a cui è stato aggiunto il suffisso –ola[64].
Come abbiamo accennato, il canto a due cori prevede l’esecuzione alternata, a botta e risposta, tra due gruppi opposti e dialoganti. È possibile, anzi probabile, che la mimica usata nel canto volesse enfatizzare una sorta di battaglia coreica. Questo riporta alla mente le dispute notturne dei Beneandanti[65], che dichiaravano di combattere contro streghe e demoni brandendo proprio canna e finocchio, per proteggere il raccolto delle campagne. Nei secoli XVI e XVII, i Beneandanti erano piccoli gruppi di persone dediti alla protezione dei villaggi e del raccolto dall'intervento malefico delle streghe. Si tratta di un culto agrario pagano diffusosi nel centro-nord Europa e arrivato fino alle regioni nord-orientali dell'Italia. Ne deduciamo che una tradizione coreica dei Terapeuti è andata a mescolarsi con una “battaglia” pagana.
Le tracce dell’evangelizzazione marciana in Friuli devono ricercarsi nelle campagne, in quanto aree non raggiunte dalla cultura ufficiale e dominante. La diffidenza dell’ambiente rurale di fronte ai cambiamenti favorisce la conservazione per secoli di riti e tradizioni. E il rifiuto dell’ambiente cittadino è una prerogativa sia dei Terapeuti che degli Esseni.
Sappiamo che i Terapeuti preferivano la tranquillità della campagna al caos e alla corruzione delle città. Prediligevano luoghi collinari e con acque sorgive, come le acque sorgive dette “olle”[66] che caratterizzano la bassa friulana e in particolare la zona di Aquileia.
La loro comunità era composta da uomini e donne che vivevano in zone divise, potendo così sentirsi ma non vedersi. Vigeva la regola del celibato e le donne erano per lo più vergini anziane. Vestivano in modo sobrio e mangiavano pane comune condito con sale o issopo (proprio quell’issopo usato dalle donne di Palazzolo per l’aspersione). Per essere ammessi all’ordine era necessario lasciare i propri beni (come per gli Esseni) e dedicarsi completamente alla contemplazione e alla preghiera.
Filone chiamava monasterium il luogo in cui vivevano i Terapeuti, e da un passo dell’Apologia contro Girolamo di Rufino si intuisce la presenza di un luogo simile proprio ad Aquileia. Ancora oggi è presente una zona chiamata Monastero, un luogo situato fuori città in cui un tempo sorgeva una sinagoga ebraica[67].
Sembra che i cristiani della campagna osservassero il riposo del sabato, in linea con la tradizione ebraica, diversamente dai fedeli di città. Il Patriarca di Aquileia Paolino, nel canone XIII, steso a conclusione del Concilio provinciale di Cividale del Friuli (796-797), sancì che la celebrazione della domenica dovesse iniziare la sera del sabato e che quanto detto dal profeta Isaia sul Sabato (Isaia 58,13) dovesse intendersi riferito alla domenica. Aggiungeva:
Inoltre, se gli Ebrei fanno festa il giorno di sabato, che è l’ultimo della settimana e che anche le nostre genti contadine osservano, si direbbe tanto importante il sabato, e in alcun modo si potrebbe aggiungere delizioso e mio…[68].
Nonostante i provvedimenti della Chiesa per abolire la solennità del sabato, la tradizione gnostica restò radicata nelle usanze aquileiesi anche dopo la soppressione del Patriarcato di Aquileia nel 1751. Testimonianze di tale tradizione sono rimaste impresse nella lingua locale: in friulano il giorno del sabato viene detto “la sabide”, nome di genere femminile. L’unica altra lingua in cui il termine ha lo stesso genere è l’ebraico (“shabuoth”)[69]. Una "Santa Sabide" appare nelle pievi costruite nei pressi delle olle o risorgive della bassa friulana: insieme a santa Margherita, san Michele e san Giacomo, compone un gruppo esclusivo di santi a cui sono dedicate le pievi[70].
I cristiani di Aquileia usavano per la catechesi alcuni testi diversi dai Vangeli, tra cui Il Pastore di Erma, uno scrittore degli inizi del II secolo. Il suo tema centrale è la discesa agli inferi, compiuta dopo Cristo dagli Apostoli e dai Dottori della Chiesa. Essa simboleggia un’estensione dell’annuncio di salvezza ai giusti di tutte le nazioni. Secondo quest’opera, la discesa all’inferno avveniva attraverso varchi aperti nel terreno dalle sorgive, acque che avevano quindi la funzione di collegare il mondo terreno e ultraterreno[71].
La discesa agli inferi trova forse un riscontro testuale nei Vangeli: Gesù viene infatti ripreso da un gruppo farisei e sadducei, indignati dal suo agire indistinto verso ebrei e pagani. L’accusa che gli rivolgono è di guarire gli ammalati in nome di Beelzebul, collegando di nuovo i temi dell’universalità e della discesa agli inferi.
10. I Santi Gnostici
I santi più venerati del Friuli sono san Michele, san Giorgio[72] e san Martino[73]: parecchie chiese friulane adottano questi santi come patroni, soprattutto nelle Diocesi di Udine e Pordenone. Non è un caso che la stessa triade sia onorata dalle confessioni gnostiche, come non è un caso rincontrarli in Etiopia dove esistevano colonie ebraiche dall'VIII secolo a.C. (i cosiddetti Falasha), che mantennero immutate le tradizioni più antiche sfuggendo alle riforme dei re di Giuda Ezechia (r.716-687 a.C.) e Giosia (r.640-609 a.C.). In Etiopia troviamo gli stessi i cori e le danze estatiche diffusi tra i Terapeuti di Alessandria e Aquileia, completamenti assenti nel cristianesimo copto del vicino Egitto.
La devozione e il culto verso san Giorgio erano particolarmente diffusi durante l’epoca longobarda. In Friuli si edificarono sacelli in onore del Santo: nel “castro Nemas” (Nimis) esiste ancora una chiesetta di san Giorgio nei pressi della vetta del monte Zucon, risalente ai secoli VI-VII. A san Giorgio di Nogaro si trova la Chiesa della Madonna Addolorata: alcuni scavi iniziati nel 1988 hanno portato alla luce i resti di una chiesa medievale e di un edificio a pavimentazione musiva di epoca paleocristiana. Databile attorno al IV secolo, era probabilmente dedicato al santo. Ricordiamo infine la chiesa di san Giorgio a Vado di Rualis, parte di un antico complesso monastico documentato già agli inizi del XIII secolo.
In relazione al culto friulano di San Michele, si deve evidenziare la Chiesa di San Michele in Campeglio: la sua origine è attribuita al periodo longobardo, giustificata dalla devozione di questo popolo verso il santo. Ma solo quando il Castello di Soffumbergo divenne soggiorno estivo dei patriarchi di Aquileia (1240) si ebbero notizie certe della presenza di questa chiesa.
Altrettanto degna di nota è la Chiesa di San Michele Arcangelo a Cervignano del Friuli. Essa fu costruita nel 1614 su un precedente edificio. La chiesa conserva un antico mosaico, con motivi ad intrecci di palmette e colombe, che ricordano quelli di Aquileia e Grado, databili all’inizio del secolo VIII.
Anche il culto di san Martino andò rafforzandosi in Friuli coi longobardi convertiti al cristianesimo, costituendo un vero e proprio punto di riferimento nel calendario agrario del contadino friulano. La popolarità del santo è legata anche alla diffusione dei racconti popolari che lo vedono protagonista.
Interessante è il culto delle acque di san Martino a Fontaneto d’Agogna: qui un edificio sorge ai margini della località omonima presso la sorgente chiamata “la fontana di San Martino”. Il Paesaggio evoca sacralità e rituali legati al culto delle acque, le cui radici potrebbero affondare in culture pagane più antiche e le cui acque incontaminate sono elemento purificatore e curativo.
pio, a differenza di molti vescovi del tempo, uomini di abitudini cittadine poco conoscitori della campagna e dei suoi abitanti. Martino, uomo di preghiera e di azione, percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, le cui necessità spirituali erano immense, mettendo in pratica la sua grande intuizione: l'evangelizzazione delle campagne. Si rifiutava di vivere in città e a Tours fondò un monastero a poca distanza dalle mura che divenne, per qualche tempo, la sua residenza (da confrontare coi monasterium in Friuli e coi Terapeuti). Martino lottò contro l'eresia ariana, in totale fedeltà alle conclusioni del Concilio di Nicea (325), consentendo di vincerla. Visse fino in età avanzata proseguendo l’attività pastorale e dando prova di santità fino alla fine dei suoi giorni. Fu sepolto nel cimitero pubblico di Tours l’11 novembre 397.
I santi più venerati del Friuli sono san Michele, san Giorgio[72] e san Martino[73]: parecchie chiese friulane adottano questi santi come patroni, soprattutto nelle Diocesi di Udine e Pordenone. Non è un caso che la stessa triade sia onorata dalle confessioni gnostiche, come non è un caso rincontrarli in Etiopia dove esistevano colonie ebraiche dall'VIII secolo a.C. (i cosiddetti Falasha), che mantennero immutate le tradizioni più antiche sfuggendo alle riforme dei re di Giuda Ezechia (r.716-687 a.C.) e Giosia (r.640-609 a.C.). In Etiopia troviamo gli stessi i cori e le danze estatiche diffusi tra i Terapeuti di Alessandria e Aquileia, completamenti assenti nel cristianesimo copto del vicino Egitto.
La devozione e il culto verso san Giorgio erano particolarmente diffusi durante l’epoca longobarda. In Friuli si edificarono sacelli in onore del Santo: nel “castro Nemas” (Nimis) esiste ancora una chiesetta di san Giorgio nei pressi della vetta del monte Zucon, risalente ai secoli VI-VII. A san Giorgio di Nogaro si trova la Chiesa della Madonna Addolorata: alcuni scavi iniziati nel 1988 hanno portato alla luce i resti di una chiesa medievale e di un edificio a pavimentazione musiva di epoca paleocristiana. Databile attorno al IV secolo, era probabilmente dedicato al santo. Ricordiamo infine la chiesa di san Giorgio a Vado di Rualis, parte di un antico complesso monastico documentato già agli inizi del XIII secolo.
In relazione al culto friulano di San Michele, si deve evidenziare la Chiesa di San Michele in Campeglio: la sua origine è attribuita al periodo longobardo, giustificata dalla devozione di questo popolo verso il santo. Ma solo quando il Castello di Soffumbergo divenne soggiorno estivo dei patriarchi di Aquileia (1240) si ebbero notizie certe della presenza di questa chiesa.
Altrettanto degna di nota è la Chiesa di San Michele Arcangelo a Cervignano del Friuli. Essa fu costruita nel 1614 su un precedente edificio. La chiesa conserva un antico mosaico, con motivi ad intrecci di palmette e colombe, che ricordano quelli di Aquileia e Grado, databili all’inizio del secolo VIII.
Anche il culto di san Martino andò rafforzandosi in Friuli coi longobardi convertiti al cristianesimo, costituendo un vero e proprio punto di riferimento nel calendario agrario del contadino friulano. La popolarità del santo è legata anche alla diffusione dei racconti popolari che lo vedono protagonista.
Interessante è il culto delle acque di san Martino a Fontaneto d’Agogna: qui un edificio sorge ai margini della località omonima presso la sorgente chiamata “la fontana di San Martino”. Il Paesaggio evoca sacralità e rituali legati al culto delle acque, le cui radici potrebbero affondare in culture pagane più antiche e le cui acque incontaminate sono elemento purificatore e curativo.
pio, a differenza di molti vescovi del tempo, uomini di abitudini cittadine poco conoscitori della campagna e dei suoi abitanti. Martino, uomo di preghiera e di azione, percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, le cui necessità spirituali erano immense, mettendo in pratica la sua grande intuizione: l'evangelizzazione delle campagne. Si rifiutava di vivere in città e a Tours fondò un monastero a poca distanza dalle mura che divenne, per qualche tempo, la sua residenza (da confrontare coi monasterium in Friuli e coi Terapeuti). Martino lottò contro l'eresia ariana, in totale fedeltà alle conclusioni del Concilio di Nicea (325), consentendo di vincerla. Visse fino in età avanzata proseguendo l’attività pastorale e dando prova di santità fino alla fine dei suoi giorni. Fu sepolto nel cimitero pubblico di Tours l’11 novembre 397.
[1] Hathor era la déa lunare protettrice di amore e fertilità. Appare spesso nelle vesti di vacca celeste, le cui corna sono un richiamo alla falce di Luna. Si credeva che Hathor fosse stata la nutrice di Horus, mentre in alcuni casi era identificata con la stessa madre del dio, Iside.
[2] Affermazione di Flinders Petrie riportata da Massimo Barbetta in Serabit el Khadem: il luogo dove l'Uomo diventa "come gli Dei". Ma chi erano gli "Dei"? , consultabile sul sito http://www.edicolaweb.net . Per approfondimenti si veda anche L’eredità moderna di Tuthmosi III di Massimo Barbetta inhttp://it.scribd.com .
[3] Laurence Gardner, Genesis of the Grail Kings, p. 159
[4] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 60
[5] Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiae II,17
[6] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 54
[7] Perdute le sue tracce durante il Medioevo, la statua fu ritrovata durante il XV secolo priva della testa. Essa fu interpretata erroneamente come la statua di un personaggio femminile, per via della presenza di alcuni bambini che sembrano allattarsi in seno alla madre. Solo nel XVII secolo la scultura fu restaurata e integrata con la testa di un uomo barbuto; nel 1667 fu riportata nel suo luogo d'origine, posta su quello che viene chiamato sedile di marmo. Durante il secondo dopoguerra, la testa del coccodrillo, alcuni putti che circondavano la divinità e la testa della sfinge che caratterizzava il blocco di marmo, furono perduti a seguito di atti vandalici compiuti dalla popolazione locale. Si pensa che questi pezzi siano stati rubati e rivenduti al mercato d'antiquariato nero.
[8] Gennaro Ruggiero, Le piazze di Napoli, Tascabili economici Newton, Roma 1998. Citato in www.wikipedia.org
[9] In quel periodo la città di Roma non rivestì un ruolo particolarmente rilevante, infatti furono le alleate Aquileia e Milano nel IV secolo a stabilire i tratti fondamentali, anche politici, della religione nascente.
[10] Le antiche tradizioni cristiane concordano nel collocare l'operato di Giovanni in Asia (l'attuale Turchia occidentale), in particolare a Efeso, con una breve parentesi di esilio nell'isola di Patmos. Non si conosce la data in cui Giovanni (e secondo la tradizione anche Maria, sulla base di Gv 19,26-27) si è trasferito in questa città. È possibile che l'apostolo si sia spostato in Asia prima del Concilio di Gerusalemme (49-50 circa) e soprattutto prima del soggiorno nella città di Paolo (almeno due anni, dalle varie ipotesi cronologiche collocati tra il 52-58). Se così fosse, Giovanni sarebbe il fondatore di questa chiesa; ad ogni modo, indipendentemente dalla sequenza cronologica (Giovanni poi Paolo o viceversa), sarà la figura di Giovanni a lasciare una netta impronta alle chiese asiatiche (vedi ad esempio la questione quatordecimana sulla celebrazione della Pasqua).
[11] Vedi l’articolo di Flavio Cossar, "Le prime tracce del cristianesimo friulano - I mosaici gnostici della Basilica di Aquileia", numero IV, anno III ott./dic. 2007, Unesco - Associazione città e siti patrimonio mondiale. Vedi anche Renato Iacumin "Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia", Gaspari Editore, 2000 (prefazione del prof. Luigi Moraldi) e "Le Tessere e il Mosaico", Gaspari Editore, 2004
[12] Secondo la tradizione, Teodoro fu vescovo di Aquileia dal 308 al 319. Fu il primo vescovo che si sedette sulla cattedra di Aquileia dopo l’editto di Milano del 313.
[13] Atrio porticato con funzione rituale.
[14] http://www.comune.aquileia.ud.it
[15] http://www.comune.aquileia.ud.it
[16] http://www.comune.aquileia.ud.it
[17] www.cathopedia.org
[18] www.cathopedia.org
[19] Tratto dall’enciclopedia storica on line www.treccani.it
[20] www.cathopedia.org
[21] Alcune correnti gnostiche, influenzate dal pensiero paolino e dal mitraismo, ritenevano che la redenzione fosse stata aiutata dall’intervento di un eone salvatore, identificato con Cristo. [www.treccani.it] Si sarebbe trattato però di un eone celeste, senza un vero corpo corrotto dalla carne: non può quindi avere patito e non può essere morto realmente. Non è però il caso che ci interessa, e sicuramente non fu così per i Terapeuti, per i quali il Cristo (l’Unto) era il re legittimo di Gerusalemme, in carne ed ossa, morto e risorto soltanto simbolicamente.
[22] Tratto dall’enciclopedia storica on line www.treccani.it
[23] Tratto dall’enciclopedia storica on line www.treccani.it
[24] Dichiarazione risparmiata da anatema dal 2° concilio ecumenico di Costantinopoli, 5° concilio della Chiesa, del 553 d.C.; si tratta del concilio il cui rifiuto, da parte di molti vescovi dell’Italia settentrionale, portò allo Scisma dei Tre Capitoli; citato in: Jean-Francis Crolard, Rinascere dopo la morte. Vite anteriori e reincarnazione, Edizioni Mediterranee, 1995
[25] Dichiarazione colpita da anatema dal 2° concilio ecumenico di Costantinopoli, 5° concilio della Chiesa, del 553 d.C.; citato in: Jean-Francis Crolard,Rinascere dopo la morte. Vite anteriori e reincarnazione, Edizioni Mediterranee, 1995
[26] Autori Vari, Le origini dello gnosticismo, Leida, 1967; T. Abdul Hadi, Écrits pour la Gnose, Milano, 1988. Vedi www.sapere.it
[27] Autori Vari, Le origini dello gnosticismo, Leida, 1967; T. Abdul Hadi, Écrits pour la Gnose, Milano, 1988. Vedi www.sapere.it
[28] Una copia della raccolta fu ritrovata nel 1460 dal monaco Leonardo da Pistoia, al servizio di Cosimo de Medici. La traduzione fu affidata al filosofo Marsilio Ficino, che la completò nel 1463.
[29] H. Spencer Lewis, Rosicrucian questions and answers with complete history of the Rosicrucian Order, p. 60.
[30] http://www.giulianokremmerz.it/Redazione, recensione al libro di Piero Di Vona, Giuliano Kremmerz, AR Edizioni, Padova, 2005.
[31] Vedi www.wikipedia.it
[32] L'idea accettata da alcuni gruppi gnostici, relativa alla venuta di un eone redentore, deriverebbe proprio dalle speranze messianiche ebree. il Giudaismo riconosceva però come mediatrice e contenuto della rivelazione la Sapienza, mentre Filone parla del Logos come di un essere intermedio tra Dio e gli uomini.
[33] Vedi: R. Iacumin, Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[34] Il Pistis Sophia fa capire che la trasmissione di una conoscenza (gnosi) superiore richiese a Gesù l'ascesa al cielo con la relativa trasfigurazione, così come viene descritta nei capitoli successivi. «Detto questo ai suoi discepoli, soggiunse: - Chi ha orecchie da intendere, intenda! Udite queste parole del salvatore, Maria rimase un’ora (con gli occhi) fissi nell’aria; poi disse: - Signore, comandami di parlare apertamente. Gesù, misericordioso, rispose a Maria: - Tu beata, Maria. Ti renderò perfetta in tutti i misteri di quelli dell’alto. Parla apertamente tu il cui cuore è rivolto al regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli» (capitolo 17). Questo passo del capitolo 17 mostra Maria Maddalena che si erge a protagonista all'interno dell'opera. All'interno del Pistis Sophia, i discepoli interloquiscono con Cristo : la Madre di Gesù interviene tre volte (capitoli 59, 61, 62), Salomè altre tre volte (capitoli 54, 58 e 145) e Marta quattro (capitoli 38, 57, 73 e 80). Tuttavia, Maria Maddalena interviene, in contesti sempre molto importanti, sessantasette volte. Gesù arriva a lodarla varie volte e lei arriva persino ad intercedere presso di lui quando i discepoli non capiscono qualche passaggio (capitolo 94). All'interno del Pistis Sophia, Maria Maddalena simboleggia la Conoscenza (gnosi),e rappresenta dunque la incarnazione umana di Sophia e come tale, la Sposa e la Sacerdotessa di Cristo. L' identificazione tra Sophia (lo Spirito Santo) e Maria Maddalena è presente anche nell'apocrifo Vangelo di Filippo.
[35] Lo studio di questo testo fu reso possibile grazie ad altri due manoscritti: il Codice Bruce (un codice manoscritto papiraceo conservato al British Museum e contenente alcuni testi gnostici in lingua copta) ed il Codice di Berlino (Il Codice Akhmim, del V secolo, scoperto nel 1896, e conservato al Museo Egizio di Berlino). Nel 1945 sono state rinvenute tra i Codici di Nag Hammâdi altre versioni dell'opera.
[36] Atti di Tommaso, 108-113. Gli Atti di Tommaso sono un apocrifo del Nuovo Testamento che narra la predicazione di Tommaso apostolo. Gli Atti furono scritti probabilmente in lingua siriaca nella prima metà del III secolo in ambiente gnostico.
[37] Vedi: R. Iacumin "Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia", Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: “Pistis Sophia”, ed. Adelphi.
[38] Si tratta di Melchisedec (il grande ricevitore della luce), il Grande Sabaoth (chiamato anche padre di Gesù poiché prese la sua anima e la inviò nel grembo di Maria), il Grande Jao (al cui servizio sono i 12 diaconi dai quali Gesù estrasse le anime dei 12 apostoli), il Piccolo Jao (a cui Gesù tolse una forza luminosa per inviarla nel grembo di Elisabetta e predisporre la nascita di Giovanni Battista, suo predecessore), il Piccolo Sabaoth e la Vergine Luce, preposta al giudizio delle anime e dispensatrice di felicità eterna o di tormenti.
[39] Vedi: R. Iacumin "Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia", Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: “Pistis Sophia”, ed. Adelphi. Il IV libro del Pistis Sophia (dove appare la sequenza), è stato ripreso dall’Apocrifo di Giovanni e dai maestri alessandrini Basilide e Isidoro (130-160 d.C.).
[40] La gnosi comprende la conoscenza di tali situazioni, così che l’iniziato possa superare gli arconti ostili. Secondo gli gnostici, ogni cielo include al suo interno le realtà inferiori ed è avvolto da quelle superiori. Le anime devono permanere in ogni cielo per tempi più o meno lunghi allo scopo di espiare i propri peccati.
[41] Si tratta di simboli che l'iconografia classica attribuiva a Saturno, relativamente alla festa estiva dei Saturnali.
[42] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[43] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[44] Questa figura ricorda il mito greco-romano del drago a guardia delle dodici mele d’oro nel giardino delle Esperidi.
[45] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[46] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[47] Il ventilabro è un attrezzo agricolo che serviva a separare la pula dal frumento.
[48] Lettera ai Romani 15, 19-20
[49] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 87
[50] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 89
[51] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 63
[52] La “sobria ebrietas”, la cosiddetta gioia del profeta, è un’ebbrezza controllata, uno stato di euforia ed espansione di sé, una sorta di estasi.
[53] La glossolalia è il dono soprannaturale di parlare lingue sconosciute.
[54] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 66
[55] Gli Ebioniti erano un gruppo sorto dopo il 70 d.C. in Transgiordania; si tratta di proto cristiani, ovvero giudei che ritenevano Cristo solo un grande profeta inviato da Dio, ma non il figlio di Dio. Numerose notizie sulla setta degli Ebioniti sono fornite da Ireneo da Lione e soprattutto dalle Omelie e Decretali dello Pseudo-Clemente. In queste ultime è sviluppata la teoria delle Due vie, tematica tipica dell’essenismo, con una aggiunta colorazione cristiana nel ritenere Cristo l’ultimo dei veri profeti. Ma l’Ebionismo e le Pseudo-Clementine hanno in comune un altro aspetto: l’ostilità al grande avversario, a colui che sopprime la legge di Mosè, ovvero san Paolo. Vedi R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 85
[56] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 69
[57] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 69
[58] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 64
[59] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 11
[60] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 12
[61] Nel 1562 Santa Teresa d'Avila fondò un primo monastero femminile di tipo eremitico, dedicato a San Giuseppe, con lo scopo di dare inizio ad una riforma dell'ordine carmelitano, riportandolo alla Regola del 1247. Nel 1566 la santa ottenne l'autorizzazione a fondare due conventi maschili di frati detti "riformati" o "scalzi". Il fulcro del pensiero di Teresa è l'amicizia tra il Signore e la sua creatura. Secondo l'interpretazione più tradizionale, l'ascesa dell'anima umana avverrebbe attraverso quattro stadi, [come descritto nella sua Autobiografia, cc. X-XXII]: il primo è l’orazione di accoglimento o meditazione, una sorta di "ritiro" dell'anima e delle sue facoltà dall'esterno per ascoltare la Parola di Dio. Il secondo stadio è l'orazione di quiete, nel quale la volontà umana è rimessa in quella di Dio, mentre le altre facoltà (memoria, immaginazione e ragione) non sono ancora sicure a causa della distrazione mondana. Segue l'orazione di unione, in cui la presenza dello Spirito attrae in sé la volontà e l'intelletto, in un dono reciproco tra il Signore e la creatura, mentre rimangono "libere" solo l'immaginazione e la memoria. Quando tutta la vita è trasformata da questa esperienza si compie l'unione, che non richiede più le "estasi", che caratterizzano le fasi ancora immature del percorso spirituale. Tra gli scritti di Teresa, particolarmente interessante è Il Castello Interiore, composto nel 1577, in cui paragona l'anima contemplante ad un castello composto da sette camere interne successive.
[62] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 57
[63] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 16
[64] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 31
[65] I Beneandanti erano quelle persone che nascevano avvolte nel sacco amniotico; dopo il parto, veniva custodito un piccolo pezzo del sacco, che costoro avrebbero dovuto conservare in un sacchettino da portare al collo come amuleto. Una volta raggiunta la maggiore età, nelle notti delle quattro tempora, sarebbero stati in grado di uscire dal proprio corpo durante il sonno in forma di spirito, per riunirsi e combattere contro streghe e stregoni. Se nelle dispute prevalevano i Beneandanti sarebbero seguiti mesi prosperi, altrimenti sarebbero giunti periodi di carestia e malattia. Inoltre, i Beneandanti fungevano da guaritori contro malocchio e incantesimi, e potevano vedere i morti in processione e ascoltare i loro messaggi. Fra il 1575 ed il 1675 furono sanciti come eretici dall’Inquisizione. Tuttavia, verso la fine del 1600, l'Inquisizione diminuì le inchieste sui Beneandanti, dovendo concentrare l’attività sull’ eresia seguita alla Riforma.
[66] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 34
[67] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 35
[68] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 39
[69] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 41
[70] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 36
[71] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 42
[72] San Giorgio, oltre ad essere venerato da quasi tutte le chiese cristiane, è onorato anche dai musulmani come profeta. Noto presso gli arabi cristiani come al-Khadr (il “verde”), egli è il santo che porta l’acqua e la fertilità, che protegge dai mali e guarisce dalle infermità. Le principali informazioni sulla sua vita provengono dalla Passio Georgii che il Decretum Gelasianum del 496 classificava tra le opere apocrife. Secondo questa fonte, Giorgio sarebbe nato verso il 280 d.C. in Cappadocia (odierna Turchia) da padre persiano e madre cappadoce. Fu educato dai genitori alla religione cristiana fino al momento in cui si trasferì in Palestina per arruolarsi nell'esercito dell'imperatore Diocleziano. Il suo martirio sarebbe avvenuto proprio sotto Diocleziano (che però in molte versioni è sostituito da Daciano imperatore dei Persiani). Giorgio donò ai poveri i suoi beni e si professò cristiano davanti alla corte; all'invito dell'imperatore di sacrificare agli dei si rifiutò ed iniziarono così numerose scene di martirio. Attorno alla figura di san Giorgio è sorta durante il periodo delle Crociate la cosiddetta “Leggenda Aurea”: si narra che avesse liberato la popolazione della città libica di Selem dall’ira di un terribile drago. Nel Medioevo la lotta di san Giorgio contro il drago divenne il simbolo della lotta del bene contro il male e per questo il mondo della cavalleria vi vide incarnati i suoi ideali. Al tempo delle crociate il culto di san Giorgio giungerà in occidente e diventerà ancora più di san Martino figura ispiratrice ed emblema della cavalleria Cristiana, e in nome di san Michele si compiranno i riti di consacrazione dei suoi membri. I Crociati si erano convinti che san Giorgio li avesse accompagnati nella loro marcia, perché tutte le città che incontravano erano in qualche modo collegate con il suo culto.
[73] Martino di Tours, vescovo e confessore, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da quella copta. Era nativo di Sabaria Sicca in Pannonia (oggi Ungheria). Figlio di un ufficiale dell'esercito dell'Impero Romano, a quindici anni iniziò la carriera militare. Fu mandato in Gallia dove, ancora adolescente, si convertì al Cristianesimo e, dopo il congedo dall'esercito, divenne un monaco nella regione di Poitiers. Quando Martino era ancora un militare ebbe una visione: si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello e lo condivise col mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito.» Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia, ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi.
Martino si adoperò per la conversione al cristianesimo della popolazione gallica, facendo molti viaggi per predicare nella Francia centrale e occidentale, soprattutto nelle aree rurali, demolendo templi e altari pagani. Nel corso di questa opera divenne estremamente popolare, e nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo. Martino fu un vescovo attivo ed un energico propagatore della fede. Il suo prestigio si impose e si irradiò ovunque, sorretto dalle sue doti di carità, giustizia e sobrietà e dalla fama di taumaturgo.
Egli aveva della sua missione di “pastore” un concetto assai ampio, a differenza di molti vescovi del tempo, uomini di abitudini cittadine poco conoscitori della campagna e dei suoi abitanti. Martino, uomo di preghiera e di azione, percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, le cui necessità spirituali erano immense, mettendo in pratica la sua grande intuizione: l'evangelizzazione delle campagne. Si rifiutava di vivere in città e a Tours fondò un monastero a poca distanza dalle mura che divenne, per qualche tempo, la sua residenza (da confrontare coi monasterium in Friuli e coi Terapeuti). Martino lottò contro l'eresia ariana, in totale fedeltà alle conclusioni del Concilio di Nicea (325), consentendo di vincerla. Visse fino in età avanzata proseguendo l’attività pastorale e dando prova di santità fino alla fine dei suoi giorni. Fu sepolto nel cimitero pubblico di Tours l’11 novembre 397.
[2] Affermazione di Flinders Petrie riportata da Massimo Barbetta in Serabit el Khadem: il luogo dove l'Uomo diventa "come gli Dei". Ma chi erano gli "Dei"? , consultabile sul sito http://www.edicolaweb.net . Per approfondimenti si veda anche L’eredità moderna di Tuthmosi III di Massimo Barbetta inhttp://it.scribd.com .
[3] Laurence Gardner, Genesis of the Grail Kings, p. 159
[4] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 60
[5] Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiae II,17
[6] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 54
[7] Perdute le sue tracce durante il Medioevo, la statua fu ritrovata durante il XV secolo priva della testa. Essa fu interpretata erroneamente come la statua di un personaggio femminile, per via della presenza di alcuni bambini che sembrano allattarsi in seno alla madre. Solo nel XVII secolo la scultura fu restaurata e integrata con la testa di un uomo barbuto; nel 1667 fu riportata nel suo luogo d'origine, posta su quello che viene chiamato sedile di marmo. Durante il secondo dopoguerra, la testa del coccodrillo, alcuni putti che circondavano la divinità e la testa della sfinge che caratterizzava il blocco di marmo, furono perduti a seguito di atti vandalici compiuti dalla popolazione locale. Si pensa che questi pezzi siano stati rubati e rivenduti al mercato d'antiquariato nero.
[8] Gennaro Ruggiero, Le piazze di Napoli, Tascabili economici Newton, Roma 1998. Citato in www.wikipedia.org
[9] In quel periodo la città di Roma non rivestì un ruolo particolarmente rilevante, infatti furono le alleate Aquileia e Milano nel IV secolo a stabilire i tratti fondamentali, anche politici, della religione nascente.
[10] Le antiche tradizioni cristiane concordano nel collocare l'operato di Giovanni in Asia (l'attuale Turchia occidentale), in particolare a Efeso, con una breve parentesi di esilio nell'isola di Patmos. Non si conosce la data in cui Giovanni (e secondo la tradizione anche Maria, sulla base di Gv 19,26-27) si è trasferito in questa città. È possibile che l'apostolo si sia spostato in Asia prima del Concilio di Gerusalemme (49-50 circa) e soprattutto prima del soggiorno nella città di Paolo (almeno due anni, dalle varie ipotesi cronologiche collocati tra il 52-58). Se così fosse, Giovanni sarebbe il fondatore di questa chiesa; ad ogni modo, indipendentemente dalla sequenza cronologica (Giovanni poi Paolo o viceversa), sarà la figura di Giovanni a lasciare una netta impronta alle chiese asiatiche (vedi ad esempio la questione quatordecimana sulla celebrazione della Pasqua).
[11] Vedi l’articolo di Flavio Cossar, "Le prime tracce del cristianesimo friulano - I mosaici gnostici della Basilica di Aquileia", numero IV, anno III ott./dic. 2007, Unesco - Associazione città e siti patrimonio mondiale. Vedi anche Renato Iacumin "Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia", Gaspari Editore, 2000 (prefazione del prof. Luigi Moraldi) e "Le Tessere e il Mosaico", Gaspari Editore, 2004
[12] Secondo la tradizione, Teodoro fu vescovo di Aquileia dal 308 al 319. Fu il primo vescovo che si sedette sulla cattedra di Aquileia dopo l’editto di Milano del 313.
[13] Atrio porticato con funzione rituale.
[14] http://www.comune.aquileia.ud.it
[15] http://www.comune.aquileia.ud.it
[16] http://www.comune.aquileia.ud.it
[17] www.cathopedia.org
[18] www.cathopedia.org
[19] Tratto dall’enciclopedia storica on line www.treccani.it
[20] www.cathopedia.org
[21] Alcune correnti gnostiche, influenzate dal pensiero paolino e dal mitraismo, ritenevano che la redenzione fosse stata aiutata dall’intervento di un eone salvatore, identificato con Cristo. [www.treccani.it] Si sarebbe trattato però di un eone celeste, senza un vero corpo corrotto dalla carne: non può quindi avere patito e non può essere morto realmente. Non è però il caso che ci interessa, e sicuramente non fu così per i Terapeuti, per i quali il Cristo (l’Unto) era il re legittimo di Gerusalemme, in carne ed ossa, morto e risorto soltanto simbolicamente.
[22] Tratto dall’enciclopedia storica on line www.treccani.it
[23] Tratto dall’enciclopedia storica on line www.treccani.it
[24] Dichiarazione risparmiata da anatema dal 2° concilio ecumenico di Costantinopoli, 5° concilio della Chiesa, del 553 d.C.; si tratta del concilio il cui rifiuto, da parte di molti vescovi dell’Italia settentrionale, portò allo Scisma dei Tre Capitoli; citato in: Jean-Francis Crolard, Rinascere dopo la morte. Vite anteriori e reincarnazione, Edizioni Mediterranee, 1995
[25] Dichiarazione colpita da anatema dal 2° concilio ecumenico di Costantinopoli, 5° concilio della Chiesa, del 553 d.C.; citato in: Jean-Francis Crolard,Rinascere dopo la morte. Vite anteriori e reincarnazione, Edizioni Mediterranee, 1995
[26] Autori Vari, Le origini dello gnosticismo, Leida, 1967; T. Abdul Hadi, Écrits pour la Gnose, Milano, 1988. Vedi www.sapere.it
[27] Autori Vari, Le origini dello gnosticismo, Leida, 1967; T. Abdul Hadi, Écrits pour la Gnose, Milano, 1988. Vedi www.sapere.it
[28] Una copia della raccolta fu ritrovata nel 1460 dal monaco Leonardo da Pistoia, al servizio di Cosimo de Medici. La traduzione fu affidata al filosofo Marsilio Ficino, che la completò nel 1463.
[29] H. Spencer Lewis, Rosicrucian questions and answers with complete history of the Rosicrucian Order, p. 60.
[30] http://www.giulianokremmerz.it/Redazione, recensione al libro di Piero Di Vona, Giuliano Kremmerz, AR Edizioni, Padova, 2005.
[31] Vedi www.wikipedia.it
[32] L'idea accettata da alcuni gruppi gnostici, relativa alla venuta di un eone redentore, deriverebbe proprio dalle speranze messianiche ebree. il Giudaismo riconosceva però come mediatrice e contenuto della rivelazione la Sapienza, mentre Filone parla del Logos come di un essere intermedio tra Dio e gli uomini.
[33] Vedi: R. Iacumin, Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[34] Il Pistis Sophia fa capire che la trasmissione di una conoscenza (gnosi) superiore richiese a Gesù l'ascesa al cielo con la relativa trasfigurazione, così come viene descritta nei capitoli successivi. «Detto questo ai suoi discepoli, soggiunse: - Chi ha orecchie da intendere, intenda! Udite queste parole del salvatore, Maria rimase un’ora (con gli occhi) fissi nell’aria; poi disse: - Signore, comandami di parlare apertamente. Gesù, misericordioso, rispose a Maria: - Tu beata, Maria. Ti renderò perfetta in tutti i misteri di quelli dell’alto. Parla apertamente tu il cui cuore è rivolto al regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli» (capitolo 17). Questo passo del capitolo 17 mostra Maria Maddalena che si erge a protagonista all'interno dell'opera. All'interno del Pistis Sophia, i discepoli interloquiscono con Cristo : la Madre di Gesù interviene tre volte (capitoli 59, 61, 62), Salomè altre tre volte (capitoli 54, 58 e 145) e Marta quattro (capitoli 38, 57, 73 e 80). Tuttavia, Maria Maddalena interviene, in contesti sempre molto importanti, sessantasette volte. Gesù arriva a lodarla varie volte e lei arriva persino ad intercedere presso di lui quando i discepoli non capiscono qualche passaggio (capitolo 94). All'interno del Pistis Sophia, Maria Maddalena simboleggia la Conoscenza (gnosi),e rappresenta dunque la incarnazione umana di Sophia e come tale, la Sposa e la Sacerdotessa di Cristo. L' identificazione tra Sophia (lo Spirito Santo) e Maria Maddalena è presente anche nell'apocrifo Vangelo di Filippo.
[35] Lo studio di questo testo fu reso possibile grazie ad altri due manoscritti: il Codice Bruce (un codice manoscritto papiraceo conservato al British Museum e contenente alcuni testi gnostici in lingua copta) ed il Codice di Berlino (Il Codice Akhmim, del V secolo, scoperto nel 1896, e conservato al Museo Egizio di Berlino). Nel 1945 sono state rinvenute tra i Codici di Nag Hammâdi altre versioni dell'opera.
[36] Atti di Tommaso, 108-113. Gli Atti di Tommaso sono un apocrifo del Nuovo Testamento che narra la predicazione di Tommaso apostolo. Gli Atti furono scritti probabilmente in lingua siriaca nella prima metà del III secolo in ambiente gnostico.
[37] Vedi: R. Iacumin "Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia", Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: “Pistis Sophia”, ed. Adelphi.
[38] Si tratta di Melchisedec (il grande ricevitore della luce), il Grande Sabaoth (chiamato anche padre di Gesù poiché prese la sua anima e la inviò nel grembo di Maria), il Grande Jao (al cui servizio sono i 12 diaconi dai quali Gesù estrasse le anime dei 12 apostoli), il Piccolo Jao (a cui Gesù tolse una forza luminosa per inviarla nel grembo di Elisabetta e predisporre la nascita di Giovanni Battista, suo predecessore), il Piccolo Sabaoth e la Vergine Luce, preposta al giudizio delle anime e dispensatrice di felicità eterna o di tormenti.
[39] Vedi: R. Iacumin "Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia", Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: “Pistis Sophia”, ed. Adelphi. Il IV libro del Pistis Sophia (dove appare la sequenza), è stato ripreso dall’Apocrifo di Giovanni e dai maestri alessandrini Basilide e Isidoro (130-160 d.C.).
[40] La gnosi comprende la conoscenza di tali situazioni, così che l’iniziato possa superare gli arconti ostili. Secondo gli gnostici, ogni cielo include al suo interno le realtà inferiori ed è avvolto da quelle superiori. Le anime devono permanere in ogni cielo per tempi più o meno lunghi allo scopo di espiare i propri peccati.
[41] Si tratta di simboli che l'iconografia classica attribuiva a Saturno, relativamente alla festa estiva dei Saturnali.
[42] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[43] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[44] Questa figura ricorda il mito greco-romano del drago a guardia delle dodici mele d’oro nel giardino delle Esperidi.
[45] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[46] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[47] Il ventilabro è un attrezzo agricolo che serviva a separare la pula dal frumento.
[48] Lettera ai Romani 15, 19-20
[49] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 87
[50] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 89
[51] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 63
[52] La “sobria ebrietas”, la cosiddetta gioia del profeta, è un’ebbrezza controllata, uno stato di euforia ed espansione di sé, una sorta di estasi.
[53] La glossolalia è il dono soprannaturale di parlare lingue sconosciute.
[54] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 66
[55] Gli Ebioniti erano un gruppo sorto dopo il 70 d.C. in Transgiordania; si tratta di proto cristiani, ovvero giudei che ritenevano Cristo solo un grande profeta inviato da Dio, ma non il figlio di Dio. Numerose notizie sulla setta degli Ebioniti sono fornite da Ireneo da Lione e soprattutto dalle Omelie e Decretali dello Pseudo-Clemente. In queste ultime è sviluppata la teoria delle Due vie, tematica tipica dell’essenismo, con una aggiunta colorazione cristiana nel ritenere Cristo l’ultimo dei veri profeti. Ma l’Ebionismo e le Pseudo-Clementine hanno in comune un altro aspetto: l’ostilità al grande avversario, a colui che sopprime la legge di Mosè, ovvero san Paolo. Vedi R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 85
[56] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 69
[57] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 69
[58] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 64
[59] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 11
[60] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 12
[61] Nel 1562 Santa Teresa d'Avila fondò un primo monastero femminile di tipo eremitico, dedicato a San Giuseppe, con lo scopo di dare inizio ad una riforma dell'ordine carmelitano, riportandolo alla Regola del 1247. Nel 1566 la santa ottenne l'autorizzazione a fondare due conventi maschili di frati detti "riformati" o "scalzi". Il fulcro del pensiero di Teresa è l'amicizia tra il Signore e la sua creatura. Secondo l'interpretazione più tradizionale, l'ascesa dell'anima umana avverrebbe attraverso quattro stadi, [come descritto nella sua Autobiografia, cc. X-XXII]: il primo è l’orazione di accoglimento o meditazione, una sorta di "ritiro" dell'anima e delle sue facoltà dall'esterno per ascoltare la Parola di Dio. Il secondo stadio è l'orazione di quiete, nel quale la volontà umana è rimessa in quella di Dio, mentre le altre facoltà (memoria, immaginazione e ragione) non sono ancora sicure a causa della distrazione mondana. Segue l'orazione di unione, in cui la presenza dello Spirito attrae in sé la volontà e l'intelletto, in un dono reciproco tra il Signore e la creatura, mentre rimangono "libere" solo l'immaginazione e la memoria. Quando tutta la vita è trasformata da questa esperienza si compie l'unione, che non richiede più le "estasi", che caratterizzano le fasi ancora immature del percorso spirituale. Tra gli scritti di Teresa, particolarmente interessante è Il Castello Interiore, composto nel 1577, in cui paragona l'anima contemplante ad un castello composto da sette camere interne successive.
[62] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 57
[63] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 16
[64] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 31
[65] I Beneandanti erano quelle persone che nascevano avvolte nel sacco amniotico; dopo il parto, veniva custodito un piccolo pezzo del sacco, che costoro avrebbero dovuto conservare in un sacchettino da portare al collo come amuleto. Una volta raggiunta la maggiore età, nelle notti delle quattro tempora, sarebbero stati in grado di uscire dal proprio corpo durante il sonno in forma di spirito, per riunirsi e combattere contro streghe e stregoni. Se nelle dispute prevalevano i Beneandanti sarebbero seguiti mesi prosperi, altrimenti sarebbero giunti periodi di carestia e malattia. Inoltre, i Beneandanti fungevano da guaritori contro malocchio e incantesimi, e potevano vedere i morti in processione e ascoltare i loro messaggi. Fra il 1575 ed il 1675 furono sanciti come eretici dall’Inquisizione. Tuttavia, verso la fine del 1600, l'Inquisizione diminuì le inchieste sui Beneandanti, dovendo concentrare l’attività sull’ eresia seguita alla Riforma.
[66] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 34
[67] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 35
[68] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 39
[69] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 41
[70] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 36
[71] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 42
[72] San Giorgio, oltre ad essere venerato da quasi tutte le chiese cristiane, è onorato anche dai musulmani come profeta. Noto presso gli arabi cristiani come al-Khadr (il “verde”), egli è il santo che porta l’acqua e la fertilità, che protegge dai mali e guarisce dalle infermità. Le principali informazioni sulla sua vita provengono dalla Passio Georgii che il Decretum Gelasianum del 496 classificava tra le opere apocrife. Secondo questa fonte, Giorgio sarebbe nato verso il 280 d.C. in Cappadocia (odierna Turchia) da padre persiano e madre cappadoce. Fu educato dai genitori alla religione cristiana fino al momento in cui si trasferì in Palestina per arruolarsi nell'esercito dell'imperatore Diocleziano. Il suo martirio sarebbe avvenuto proprio sotto Diocleziano (che però in molte versioni è sostituito da Daciano imperatore dei Persiani). Giorgio donò ai poveri i suoi beni e si professò cristiano davanti alla corte; all'invito dell'imperatore di sacrificare agli dei si rifiutò ed iniziarono così numerose scene di martirio. Attorno alla figura di san Giorgio è sorta durante il periodo delle Crociate la cosiddetta “Leggenda Aurea”: si narra che avesse liberato la popolazione della città libica di Selem dall’ira di un terribile drago. Nel Medioevo la lotta di san Giorgio contro il drago divenne il simbolo della lotta del bene contro il male e per questo il mondo della cavalleria vi vide incarnati i suoi ideali. Al tempo delle crociate il culto di san Giorgio giungerà in occidente e diventerà ancora più di san Martino figura ispiratrice ed emblema della cavalleria Cristiana, e in nome di san Michele si compiranno i riti di consacrazione dei suoi membri. I Crociati si erano convinti che san Giorgio li avesse accompagnati nella loro marcia, perché tutte le città che incontravano erano in qualche modo collegate con il suo culto.
[73] Martino di Tours, vescovo e confessore, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da quella copta. Era nativo di Sabaria Sicca in Pannonia (oggi Ungheria). Figlio di un ufficiale dell'esercito dell'Impero Romano, a quindici anni iniziò la carriera militare. Fu mandato in Gallia dove, ancora adolescente, si convertì al Cristianesimo e, dopo il congedo dall'esercito, divenne un monaco nella regione di Poitiers. Quando Martino era ancora un militare ebbe una visione: si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello e lo condivise col mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito.» Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia, ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi.
Martino si adoperò per la conversione al cristianesimo della popolazione gallica, facendo molti viaggi per predicare nella Francia centrale e occidentale, soprattutto nelle aree rurali, demolendo templi e altari pagani. Nel corso di questa opera divenne estremamente popolare, e nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo. Martino fu un vescovo attivo ed un energico propagatore della fede. Il suo prestigio si impose e si irradiò ovunque, sorretto dalle sue doti di carità, giustizia e sobrietà e dalla fama di taumaturgo.
Egli aveva della sua missione di “pastore” un concetto assai ampio, a differenza di molti vescovi del tempo, uomini di abitudini cittadine poco conoscitori della campagna e dei suoi abitanti. Martino, uomo di preghiera e di azione, percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, le cui necessità spirituali erano immense, mettendo in pratica la sua grande intuizione: l'evangelizzazione delle campagne. Si rifiutava di vivere in città e a Tours fondò un monastero a poca distanza dalle mura che divenne, per qualche tempo, la sua residenza (da confrontare coi monasterium in Friuli e coi Terapeuti). Martino lottò contro l'eresia ariana, in totale fedeltà alle conclusioni del Concilio di Nicea (325), consentendo di vincerla. Visse fino in età avanzata proseguendo l’attività pastorale e dando prova di santità fino alla fine dei suoi giorni. Fu sepolto nel cimitero pubblico di Tours l’11 novembre 397.
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Salviamo il Cristo e la Femmina dal Misticismo Arcaico
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