Salvatore Giuliano e i quattro dell’ave Maria
L’8 maggio 1947 è un brutto giorno per Partinico. Nel cassaro la fila dei carretti è già lunga. Ma questa volta i contadini non cantano. Sono piccoli proprietari, mezzadri, braccianti e mesalori. Hanno il volto scuro. Una settimana prima, a Portella della Ginestra, famiglie come le loro sono state massacrate. Il sangue dei lavoratori e degli innocenti ha dipinto di rosso quel pianoro. E così la Repubblica, nata da quasi un anno, ha ricevuto il suo battesimo di fuoco. Un battesimo pagano, fatto di riti che si sarebbero ripetuti nel tempo.
Quello stesso giorno, nel paese, territorio del boss Santo Fleres, è trovato il corpo esanime del sindacalista della Cgil Michelangelo Salvia. Capopopolo senza peli sulla lingua, è crivellato dalla lupara nelle campagne di Partinico. E’ un segnale, una sorta di sacrificio, quando per propiziare gli dei si immolavano esseri umani sull’altare di divinità crudeli.
Ma perché Stern, per incontrare un bandito ricercato dal 1943, sente il bisogno di consultare un funzionario dello Stato di quella levatura? E perché Messana, avendo saputo che due militari di un Paese straniero sono interessati ad avvicinare un pericoloso criminale, non li interroga sulle loro intenzioni? Non si insospettisce e non li interroga. Al contrario, suggerisce loro a colpo sicuro come entrare in contatto con il capobanda.Il giorno prima è arrivato, all’aeroporto militare di Boccadifalco, Mike Stern, 36 anni, capitano dell’Esercito americano, giornalista e spia del Cic (Counter intelligence corps), il controspionaggio militare Usa. Ha una gran fretta. Poco dopo è già a Palermo nell’ufficio dell’ispettore generale di Pubblica sicurezza in Sicilia, Ettore Messana. L’ispettore gli va incontro premuroso e, dopo i rituali salamelecchi, estrae dai suoi scaffali un voluminoso fascicolo sulla carriera criminale di Salvatore Giuliano, e gli fornisce dettagliate informazioni. L’incontro ha tutti i crismi dell’ufficialità. Stern indossa, per l’occasione, una fiammante divisa da capitano. Non è solo. E’ arrivato da Roma assieme al sergente dell’Oss (Office of strategic services) e fotografo Wilson Morris, come dimostrano le foto che immortalano l’evento e come la stessa Mariannina Giuliano attesta. C’è con loro anche una misteriosa donna “di nazionalità spagnola”. La sera, stanchi dopo una giornata di faticoso lavoro, i tre scendono all’Hotel delle Palme, dove guarda caso, alloggia da qualche giorno, come un nababbo, protetto dai carabinieri, nientemeno che Lucky Luciano, il superboss della mafia siculo-americana.
Il giorno dopo, infatti, Stern, Morris e la donna arrivano a Montelepre a bordo di una jeep. Nella piazza, davanti alla chiesa madre, si fermano. Sembrano attendere qualcuno, che di fatto arriva. E’ un signore anziano in giacca, cravatta e coppola, basso e segaligno. Lo sconosciuto si avvicina sicuro e si mette a parlare con il terzetto in perfetto inglese. E’ Salvatore Giuliano senior, alias “Turi l’Americano”, padre del giovane bandito. E’ vissuto a New York, sulla Settantaquattresima Strada, dal 1903 al 1922. Terminati i convenevoli, Turi senior sale sulla jeep e Morris si mette al volante. Poco dopo i quattro raggiungono via Castrenze di Bella, dove si trova la casa della famiglia Giuliano. Sembra una comitiva affiatata, quasi familiare. La conversazione procede un po’ in inglese, un po’ in siciliano, con qualche battuta scherzosa. Poi tutti si mettono a tavola in terrazza. E’ una bella giornata di sole.
Le donne, Maria Lombardo, moglie del padrone di casa, e le due figlie, Mariannina e Giuseppina, si dànno un gran da fare ai fornelli. La tavola è imbandita e non manca l’ottimo vino dello Zucco, contrada della principessa Ganci, dove il bandito, all’epoca appena venticinquenne, è di casa.
Ma c’è da chiedersi: perché tre membri di spicco dell’intelligence Usa in Italia si scomodano da Roma per arrampicarsi in cima a una collina sperduta della provincia di Palermo? Qual è la posta in gioco? Di che cosa devono parlare? Sta di fatto che il giorno dopo, di buon mattino, Giuliano senior e Pasquale ‘Pino’ Sciortino, marito di Mariannina e membro di spicco della banda, accompagnano i tre ospiti sulle montagne attorno a Montelepre per incontrare Turiddu. Gli argomenti da discutere non sono di poco conto se le tre spie trascorrono con il bandito e con i suoi familiari una settimana intera, durante la quale consumano gli stessi pasti della banda e dormono ogni notte in un rifugio diverso.
Raccontano Sandro Attanasio e Pasquale ‘Pino’ Sciortino: “Turiddu fece mille domande a Stern e si infervorò sempre di più. Le risposte che riceveva lo accesero d’entusiasmo, esaltarono la sua ammirazione per il grande Paese, tanto che se ne fece un mito. Da questo fervore, da questa esaltazione ebbe origine la decisione di attaccare le sezioni comuniste, [...] una dimostrazione di sincera amicizia e spirito di collaborazione per la causa anticomunista guidata allora, come oggi, dagli Stati Uniti d’America” .
per il presidente Truman da cui è colto il solo capobanda, ma di una vera è propria messa a punto della strategia eversiva da attuare nelle settimane successive contro il movimento democratico, che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti nelle elezioni regionali del 20 aprile 1947. In cambio, Turiddu riceve l’assicurazione del via libera, cioè l’impunità e il futuro espatrio oltreoceano.
La realtà, però, non è quella che il terrorista immagina. Ha a che fare con spie e gente abituata al doppio gioco. Sta di fatto che qualcuno persuade Giuliano a immortalare quell’incontro con una serie di fotografie: Giuliano con Stern e suo padre; Sciortino con Giuliano e gli altri; il gruppo dei commensali sul terrazzo di casa Giuliano, con Stern a capotavola; infine, la celebre e fatale foto di Giuliano a cavallo da solo nella campagna monteleprina. E’ quest’ultimo scatto che funziona come un bengala nella notte per comprendere un frammento di quell’incontro. Le forze dell’ordine non hanno uno schedario fotografico e quel patrimonio di immagini introvabili costituisce una grande ricchezza per gli investigatori che fingono di indagare su Portella. Al processo di Viterbo, i giudici non possiedono alcuna immagine di Salvatore Giuliano. L’unica che riescono ad ottenere è proprio questa. La consegna Stern a Messana, che a sua volta la passa al suo confidente Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo e luogotenente di Giuliano. Infine, questi la fa avere al colonnello dei carabinieri Giacinto Paolantonio. Il militare che controlla tutta la catena degli informatori in Sicilia. Il gioco è fatto. D’ora in poi, Salvatore Giuliano è l’unico massacratore dei contadini a Portella.
Giuliano scrive al Comando dell’Esercito statunitense di stanza a Roma e lo informa che è intenzionato a proseguire la lotta contro i “vili rossi”. Il 22 giugno successivo, infatti, varie squadre della sua banda attaccano le sedi sindacali e politiche della sinistra in alcune città della provincia di Palermo. I documenti del Sis (Servizio informazioni e sicurezza), desecretati da qualche anno, chiariscono meglio i circuiti che collegano il clandestinismo fascista con l’intelligence Usa. Il terrorista monteleprino, se accetta gli accordi che personalmente stipula con Stern e la sua bella compagnia, con la mediazione del padre, è perchè sa di essere un capo territoriale a “totale disposizione delle formazioni nere” fin dal 1944. E’ cioè agli ordini dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria) di Romualdi e di quello che l’intelligence definisce come “Nuovo Comando Generale”, composto dalla trimurti nera dei Far, dell’Esercito clandestino anticomunista (Eca) e dalle Squadre armate Mussolini (Sam). A capo “effettivo” della banda troviamo “il noto Martina”, un neofascista di Salò che entra in scena nel periodo caldo del maggio-giugno 1947.Ma sentiamo cosa scrive il Pci in un opuscolo pubblicato nel 1949 e intitolato “La verità sul bandito Giuliano”: “Dopo qualche settimana [ai primi di giugno 1947, ndr], nelle tasche di un bandito caduto in mano della polizia, veniva trovata una lettera autentica di Giuliano diretta al suo amico Stern, a Roma, via della Mercede 53, sede dell’Associazione della stampa estera, nella quale il fuorilegge chiedeva armi pesanti e dava consigli circa la maniera di mantenere i contatti con l’ufficiale americano.”
Il Pci non ha dubbi: “E’ chiaro che l’iniziativa dello Stern non è frutto di una curiosità individuale, ma che la sua visita a Giuliano e i suoi rapporti con il bandito sono frutto di precise istruzioni, diramate dall’Ufficio servizi strategici degli Stati Uniti, allo scopo di agganciare il bandito alla politica americana nel Mediterraneo.” Ma che cos’è questo ufficio? E’ nientemeno che lo Strategic services unit (Ssu) diretto a Roma con pugno di ferro e astuzia diabolica dal maggiore statunitense James Angleton, in via Sicilia 59. Un luogo che gli ex fascisti di Salò, come Pino Romualdi e Nino Buttazzoni, conoscono bene per le loro attività nel clandestinismo fascista. Il sergente Wilson Morris è uomo di Angleton e pertanto rappresenta l’Ssu nel summit siciliano di quei giorni.
Quanto all’identità della donna presente a Montelepre, sono le fotografie scattate la mattina di quell’8 maggio 1947 a rivelarci che si tratta della celebre Maria Cyliacus. Una spia svedese, Maria Lamby Karintelka, che utilizza vari nomi di copertura per la sua attività di spionaggio. Lavora infatti per i gruppi sionisti che operano in Italia in quegli anni, sotto l’ombrello dell’Ssu, in vista della nascita dello Stato d’Israele. Non a caso, ci dicono i rapporti segreti del Sim (Servizio informazioni militare), alcuni combattenti sionisti utilizzano la banda per addestrarsi. La Karintelka, qualche mese dopo, sarà arrestata dai Servizi britannici, che si oppongono alla nascita dello Stato ebraico. Anche lei, come Stern, intervisterà Giuliano per la rivista “Oggi”, nel gennaio 1949, spacciandosi come giornalista. Tutto avviene alla luce del sole. Possibile che l’unico ad essere tenuto all’oscuro di questo vertice eversivo sia proprio il ministro dell’Interno, il democristiano Mario Scelba? Il ministro siciliano sa e copre ciò che avviene e che gli agenti dei suoi Servizi gli comunicano. Il “Noto Servizio” o “Anello” della Repubblica, attivo dal ’45, funziona ormai a pieno ritmo, come ci racconta la giornalista Stefania Limiti. Non a caso sarà lo stesso capobanda, quando la trattativa si sarà temporaneamente arenata, ad aggredire Scelba definendolo un “porco pelato”. E il bandito scriverà di volere impiccare l’arcivescovo di Monreale al primo albero.
Mike Stern ci parla di Salvatore Giuliano nel suo best seller “No innocence abroad” (N.Y., 1953). Il giornalista spia è un maestro del depistaggio. Definisce Turiddu “una sintesi tra Robin Hood, Pancho Villa e Dillinger”. Ma a parte queste balle colossali, ci fornisce un dato interessante: “Giuliano nell’arco di sette anni di carriera avrebbe accumulato almeno un miliardo di lire” con i sequestri di persona e le attività di racket. Aggiunge, in assoluta malafede, che gran parte di questi soldi finiscono nelle tasche dei contadini poveri. Insomma, Stern descrive un criminale, che spara sui lavoratori indifesi, come un grande filantropo. Così nasce il mito devastante del bandito romantico che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Per questa operazione da manuale di propaganda occulta, che sa valorizzare al massimo i circuiti mediatici, Stern inaugura una scuola sperimentale che avrà un seguito anche nei decenni successivi.
La funzione di questo inquietante personaggio è messa in evidenza da “l’Unità”, che lo accusa di essere uno dei mandanti degli attacchi alle Camere del Lavoro del 22 giugno ’47 nella provincia di Palermo. Ma non solo. Il quotidiano del Pci afferma che Pasquale ‘Pino’ Sciortino, organizzatore degli assalti, è spedito negli Usa proprio da Stern per mantenere i contatti tra lo squadrone della morte di Giuliano in Sicilia e lo spionaggio americano. Una sorta di ambasciatore, dunque, dice il giornale. Non sappiamo quanto quest’ultima affermazione sia fondata. Sta di fatto, però, che ‘Pino’ Sciortino si imbarca per gli Stati Uniti nell’agosto del 1947 e che nel Nuovo mondo circola liberamente malgrado i massacri che ha organizzato. Solo nel settembre 1952 sarà acciuffato dall’Fbi e rispedito in Italia per scontare la pena dell’ergastolo alla quale è stato condannato dai giudici di Viterbo.
A completare questo grazioso quadretto arcadico arriva, dritto dritto da Genova, un personaggio senza il quale l’intera macchina terroristica non può funzionare: Lucky Luciano. Il percorso del boss è molto lungo. Espulso da Cuba nel febbraio ’47, arriva a Genova il 15 aprile, a bordo del piroscafo “Bakir”. L’intelligence Usa è in fibrillazione. Al molo si presenta uno strano personaggio, il funzionario dell’ambasciata americana di Roma John Michael Balsamo, e chiede di potere condurre il boss nella capitale. Ma la capitaneria di porto oppone un rifiuto. Sta di fatto, comunque, che il 30 aprile, circa quindici ore prima dell’eccidio di Portella, Luciano mette piede nella stazione ferroviaria di Palermo. Se ne riparte, guarda caso, la sera del 22 giugno 1947, e arriva a Napoli, dove ha acquistato una villa e dove trascorrerà il resto della sua vita.
Cyliacus, Stern, Morris e Luciano sono i quattro dell’ave Maria, come nel mitico spaghetti western con Bud Spencer e Terence Hill, diretto da Giuseppe Colizzi negli anni ’70. Ma questa volta il film non è frutto di un copione cinematografico. E’ la tragica realtà siciliana. Di un’isola diventata il baricentro dell’eversione nera, dell’anticomunismo e della sperimentazione in vitro del progetto antidemocratico che si trascinerà in Italia per i successivi sessant’anni.
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino
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