ISIDE ULTIMA DEA
QUANDO gli chiesero quale scrittore del passato avrebbe preferito conoscere, Goethe non ebbe esitazioni. Rispose: Virgilio. Quanto a me, non oserei incontrare quello squisito contadino lombardo, che come me finì i suoi giorni nel Sud. La sua sapienza mi intimorisce: la sua arte mi spaventa. Ma nemmeno io avrei dubbi. Tra tutti gli scrittori greci, latini, italiani, tedeschi, russi e inglesi, e perfino tra quelli persiani e cinesi, rinunciando alla conoscenza di Shakespeare, preferirei incontrare Apuleio, questo ricco gentiluomo africano, questo brillante conferenziere di Madaura, questo sacerdote di tutti gli dei: il più grande prosatore latino di ogni tempo. Cosa darei per conversare con Apuleio, a casa sua, a Tripoli o a Cartagine! Certo la conversazione finirebbe presto per diventare un monologo. Potrei portargli soltanto la mia incerta conoscenza della letteratura occidentale, qualche notizia sul Medio Evo che lo credette un mago, il ricordo della pittura veneziana e olandese, che avrebbe amato appassionatamente. Non so quale fosse il suo viso. L' autoritratto che lasciò di sé nel de Magia è certo calunniatorio, e nemmeno Walter Pater ci persuade quando lo descrive. Era un uomo felice: forse troppo felice: o almeno ostentava febbrilmente la sua felicità: era meravigliosamente leggero: rapido e ubiquo come Ulisse: vanitoso, frivolo, spiritoso, estroso, brillante, altero, bugiardo, innamorato di sé e della sua fama; naturale in qualsiasi cosa facesse o dicesse. Sapeva parlare di tutto. Mi avrebbe parlato di tutti gli dei che conosceva (il più divertente degli argomenti): dei demoni, delle iniziazioni e delle ierogamie: mi avrebbe accennato con parole velate al dio supremo, il dio exsuperantissimus; e poi, come se fosse la stessa cosa (ma forse è la stessa cosa), avrebbe discorso di rose, di astri, dei capelli delle donne, di erbe, di pietre, di frutti di mare, di storie d' amore, di streghe, e degli infiniti pettegolezzi che rendono così piacevole abitare in provincia. Credo che avrebbe voluto sapere tutto sugli specchi dei nostri tempi: questi oggetti meravigliosi che, secondo lui, rendono la realtà com' è il tuo volto, il mio volto, col loro volume e colore , e insieme le cose che fluttuano e passano, levigate e illusorie e cangianti come le nostre parole. Siccome nessun negromante libererà mai il corpo di Apuleio dalla sua oscura tomba africana, non mi resta che prendere in mano le Metamorfosi ovvero L' asino d' oro. Come Apuleio dice nelle prime righe, la sua è una scientia desultoria: una scienza acrobatica, come quella che usavano i cavalieri nel circo, balzando da un cavallo all' altro. E se la letteratura universale, da Aristofane a Beckett, conta moltissimi acrobati, forse non ce ne' è mai stato uno così intelligente, sistematico e ironico. Tutte le Metamorfosi sono un monumento alla più gaia e ardua delle scienze: acrobazie nel passaggio dal greco al latino, nel salto di temi, nelle incessanti parodie e autoparodie (che finiscono per parodiare anche se stesse, grandioso omaggio all' inquietante dio Riso), nella molteplicità intrecciata delle tradizioni, nella rete (sempre implicita) delle relazioni e delle allusioni, nelle narrazioni a scatola cinese, nell' arte dell' omissione e della suspense, nella molteplicità del gioco linguistico, nell' alternanza tra il tono pomposo e leggero e delicato e enorme e invisibile... Come ogni acrobata, Apuleio pratica la metamorfosi. Il suo trattato de mundo è una traduzione: le Metamorfosi sono un plagio: anzi la combinazione di moltissimi plagi, da qualsiasi scrittore e fonte: così che scrivere non è propriamente, per lui, una creazione, ma l' utilizzazione di una frase, di un' immagine e di un motivo che un altro aveva impiegato, e la lenta metamorfosi di questi materiali. Apuleio era un plagiario: un intarsiatore; destino quasi sempre di second' ordine. Ma le Metamorfosi sono probabilmente il romanzo più originale che sia mai stato scritto, senza il quale non si potrebbero immaginare né il Decameron, né la pittura italiana del Rinascimento, né la mistica occidentale d' ogni secolo, né il Don Chisciotte, né il romanzo picaresco spagnolo, né Sterne né Il Flauto magico, né Nerval, né Pinocchio e nemmeno, forse, i Lehrjahre di Goethe. Con la favola di Amore e Psiche, Apuleio crea una forma d' arte che si impose per sempre alla fantasia occidentale: l' arte dei misteri. Quest' arte è legata dal segreto: deve tacere le cose divine mentre ne parla; e dunque rivelarle nascondendole. Così Apuleio costruisce le Metamorfosi su un' immensa omissione: la presenza di Iside nei primi dieci libri, non meno intensa che nella trionfale apparizione dell' undicesimo. Poi gioca, usa tocchi fatui e leggeri, scherzi e arguzie, allusioni enigmatiche, note basse ed oscene; e la forma più priva di valore religioso che sia mai esistita: la mitologia ellenistica, con le Veneri, le Grazie, gli amorini, la ricerca del piccolo e del parodistico. Non potremmo, in apparenza, essere più lontani dal sacro: eppure, dietro la superficie, la favola è il più grande ed audace testo mistico della letteratura europea. C' è un salto vertiginoso tra quei tocchi leggeri e i gravi e tremendi segreti che ci vengono comunicati intorno ai rapporti tra Dio e l' anima umana: una radicale mancanza di identità tra il contenuto e la forma, che segnerà l' arte mistica fino a Giovanni della Croce. * * * Come dice il nome, Lucio, che è il personaggio e l' autore delle Metamorfosi, è una creatura luminosa: dunque protetta dagli dei. E' giovane, bello, attraente, ricco e di buona famiglia: bonario, ingenuo, sentimentale, e un poco saccente, come capita spesso ai giovani ricchi che hanno fatto buoni studi. Non ha qualità positive: non sembra portato a questo e a quello: ha un carattere passivo; è uno di quei vaghi e incantevoli specchi giovanili, come Tamino e Wilhelm Meister, che riflettono il mondo nei loro occhi azzurri e diventano protagonisti di un romanzo. Vive di immaginazione: possiede una curiosità infinita, simile a quella di Ulisse. Ama il possibile più del reale e del verosimile: crede che nulla sia impossibile; pensa che le cose non siano come paiono. Adora le meraviglie, le metamorfosi, le magie, le stregonerie, come Don Chisciotte i romanzi di cavalleria; e quando percorre la Tessaglia, i ciottoli in cui inciampa sono per lui uomini induritisi in pietre, gli uccelli creature umane coperte di piume, le statue e le pitture stanno per muoversi, come accade a Don Chisciotte nei paesaggi della Castiglia. Lucio è una figura comica, come il suo erede spagnolo; e con grazia sovrana Apuleio si prende gioco del candore, dell' immaginazione e della curiosità giovanile del suo personaggio. I romanzi di cavalleria conducono Don Chisciotte a una morte disincantata. Invece Lucio, il luminoso, si salva. La sua curiosità, che lo perde una volta, gli permette di non essere sopraffatto dalle esperienze: gli conserva l' occhio e lo spirito liberi; e, alla fine, gli consente di scrivere un romanzo vasto come l' universo, ciò che Don Chisciotte non potrebbe fare mai. La fede nelle metamorfosi, che Apuleio condivide, lo conduce ai piedi di Iside la regina di tutti i prodigi e di tutte le metamorfosi. Tutto era davvero raro e meraviglioso, come aveva sognato arrivando in Tessaglia. Non c' era altra via, del resto, per scrivere un libro: perché, come sapeva Apuleio, la letteratura non può raccontare che magia e metamorfosi. Anche Photis, la servetta di cui Lucio si invaghisce, ha un nome che risplende di luce. Sulla soglia del regno della metamorfosi, sta lei, col suo piccolo, leggero, lascivo erotismo. Quando appare nel libro col vestitino di lino e la fascettina rosso vivo e i piccoli seni e le mani paffute e la pelle lattea e piumosa e le reni pieghevoli e i capelli sciolti e ondeggianti, mentre prepara un intingolo o dimena le natiche o vela il pube o bacia con occhi umidi, tremuli e semichiusi o sazia col dono della Venere pendula uno squisito sapore di cucina e di sesso inumidisce il libro di Apuleio. Quale prosa squisita, piena di tenerezze, di miele, di diminutivi, di invenzioni verbali e di sussurri venerei! Cosa importa che Photis sia soltanto una servetta della Tessaglia? Con lei Lucio conosce l' esperienza di Afrodite: la folgorante luce amorosa e l' onnipervasiva umidità erotica. Sullo sfondo s' avverte ancora lo sperma di Urano, versato nel mare, da cui nacque Venere. Attorno a Lucio e a Photis, tutto è bagnato di un' umida luce: i luminosi capelli femminili, specchi cangianti dove si riflettono più vividi i raggi del sole: il mare e il suo ros, la sua spuma; le rose, i fiori di Venere, splendenti e inumidite dalla rugiada; e le ali roscidae di Amore. Alla fine, la severità del sacerdote isiaco condannerà queste voluttà servili. Ma, dietro il velame, Apuleio ci ricorda sorridendo che Photis anticipa Iside, la regina di ogni Eros. Il vero peccato di Lucio è quello di ignorare ciò che Apuleio aveva saputo fin dalla giovinezza, quando scriveva i suoi trattati filosofici. Nel mondo esiste una divinità sola: Iside; e questa divinità si moltiplica in ogni forma e in ogni nome come Venere, Giunone, Demetra, Artemide, Proserpina, Minerva, Ecate, Cibele. Qualunque divinità adoriamo o crediamo di adorare, non adoriamo che lei. In tutti gli eventi della vita siano favorevoli e sinistri, celesti o infernali, tragici o comici, casuali o provvidenziali incontriamo la regina dalla nerissima sopravveste splendescens atro nitore, che sedici secoli dopo diverrà la regina della notte nel Flauto magico. Come dice l' insegna sulla sua statua di Sais: Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio peplo. Come tutti i suoi devoti sapevano, Iside era anche la sovrana di ogni magia o negromanzia. Così, quando giunge in Tessaglia, Lucio incontra Iside nella sua forma nera, esclusivamente negromantica e stregonesca. Meroe e Panfile, le due maghe dei primi tre libri, sono due Isidi tenebrose e degradate. Ma, dietro a Iside, appare Erittone, l' atroce divinità del male, superiore agli dei, agli astri e al destino, che Lucano, un secolo prima, aveva grandiosamente rappresentato nella Pharsalia. Meroe e Panfile traggono giù il cielo, innalzano la terra, impietrano le fonti, liquefanno le montagne, comandano agli Dei e ai Mani, spengono il sole e le stelle, illuminano il Tartaro, fanno rivivere i morti: posseggono l' onniscienza e l' onniveggenza; e si cambiano in ogni possibile forma. Niente è più sinistro e macabro delle scene stregonesche dei primi libri il cuore strappato di Socrate, lo sguardo della donnola-strega, il sonno profondissimo di Telifrone. Ma chi non ode il riso irrispettoso di Apuleio? Sebbene possegga una potenza inquietante, il mondo delle streghe è un detrito letterario, abbandonato alle feste grottesche del dio Riso. Meroe è divenuta un' ostessa: Panfile la moglie di un avaro, che ignora i suoi poteri sovrannaturali; e spesso i loro prodigi sono ridicoli o falliscono miseramente. Tutti sanno cosa accade. Lucio avrebbe voluto trasformarsi in uccello; ma, per un fatale scambio di unguenti, la sua tenera pelle si indurisce in cuoio, le dita diventano zoccoli, dalla spina dorsale esce una grande coda, la bocca si allunga, le labbra penzolano, le orecchie si trasformano in quelle smisuratamente pelose di un asino. La colpa di Lucio è la curiositas: egli ha inseguito una forma inferiore di Iside; e, senza pazienza, penetrando negli spazi segreti della magia, non ha atteso che la dea gli portasse in dono la metamorfosi. Ora è un asino: simile a Seth, il feroce nemico di Iside. Ma, come sempre accade a Apuleio, che si prende gioco dell' impianto intellettuale del proprio romanzo, quest' asino è contemplato con immensa simpatia (con tocchi arditi alla Swift, diceva Walter Pater): goffo, ridicolo, parassita, servile, pauroso, vilipeso e bastonato da tutti, sempre sul punto di venire castrato e ucciso, una specie di grandioso Sancio Pancia di sé stesso. Finora Lucio era stato un delizioso narratore-testimone: forse nessun romanzo condivide completamente come le Metamorfosi, l' ottica del personaggio, ciò che accade momento per momento, visto con gli sguardi di ogni momento. Trasformato in asino, diventa un testimone ancora più straordinario. Siccome è un animale, gli uomini, i quali non suppongono che egli comprenda, non celano i propri pensieri e sentimenti davanti a lui; e la totalità, la bassezza e la segretezza della vita gli si rivelano senza ombre e riserve. Apuleio esegue questo gioco narrativo nel modo più squisito e sistematico: trasformando l' ingenuo imitatore di Ulisse in uno scrittore più esperto di Ulisse, il narratore in prima persona in un romanziere onniscente in terza persona. Qui egli lascia il suo lontano osservatorio, e giunge sul proscenio, proprio davanti a noi. Se vogliamo scrivere un grande romanzo, che ci comunichi i segreti più alti e infimi, non c' è che una strada, egli sembra dire. Dobbiamo lasciare cadere la nostra tenera pelle di uomo, abbandonare i nostri occhi miopi, che non riescono a cogliere i misteri. Dobbiamo entrare nel corpo di un animale, spalancando le nostre immense orecchie, fino a raccogliere tutte le parole e i pensieri a mezza voce che gli uomini pronunciano sulla scena del mondo. Lucio comincia i suoi viaggi, nei quali incontra un' altra volta la grande dea. Siccome aveva sconfitto e soggiogato il destino, Iside è insieme la Provvidenza veggente e la fortuna malvagia, cieca e crudele: Pronoia e Tyche; e in questa seconda incarnazione Lucio la scorge di nuovo senza riconoscerla. Come è immensa, nelle Metamorfosi, la varietà e la ricchezza e la molteplicità dei casi! All' inizio del romanzo, cogliamo Lucio in viaggio, aperto a tutte le avventure. Entriamo in uno di quegli alberghi, attraverso i quali la letteratura europea ha contemplato per diciotto secoli la varietà colorata del mondo. Conosciamo la crudeltà, la violenza, l' ingiustizia, gli orrori, le turpitudini, le oscenità grottesche, la macina della Fortuna. Sebbene credesse negli dei, Apuleio non ci lascia supporre nemmeno una volta che sulla terra regni l' harmonia mundi: ci fa immaginare che anche negli orrori e nei casi possiamo intravedere una traccia di divino siccome Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà. La favola mistica di Amore e Psiche è il cuore tenebroso e splendente delle Metamorfosi; e a quel cuore arriviamo attraverso i consueti labirinti, parodie e giochi di specchio amati da Apuleio. Non ascoltiamo questa favola per vecchie (e per bambini) in un palazzo di re, o in un santuario egizio, ma in una caverna di briganti. Chi la racconta in lingua greca è una sciocca vecchiarella ubriaca: la ascolta un asino, che si duole di non avere tavolette e stilo per trascriverla: la compone in un' ornata lingua latina lo stesso asino diventato sacerdote di Osiride; mentre Apuleio, nascosto alle sue spalle, si prende gioco della vecchia, di Lucio, di sé stesso, del suo libro, degli dei, delle Muse, di Roma e delle leggi di Roma. Il dio a cui la favola è dedicata è un dio tremendo, figlio di Iside e possente e ambiguo come la madre. Né l' oracolo di Apollo né le sorelle di Psiche hanno torto: Amore è un drago crudele e feroce e viperino, che opprime le cose col fuoco, tortura gli dei, e gli uomini e gli abissi infernali. A lui potrebbe rivolgersi la preghiera di un bellissimo papiro magico greco: Tu primogenito, creatore dell' universo, dalle ali d' oro: tu oscuro, che veli tutti i propositi ragionevoli e ispiri tenebrose passioni: tu segreto, che vivi nascosto in ogni anima: tu che susciti il fuoco invisibile toccando tutte le cose animate, tormentandole instancabile con voluttà e dolorosa delizia, da quando esiste l' universo: tu che provochi il dolore con la tua presenza, a volte ragionevole, altre insensato. Tu, per il quale gli uomini con ardire trascurano il dovere e presso il quale, oscuro, cercano rifugio. Tu l' ultimogenito, il fuori legge, lo spietato, l' inesorabile, l' invisibile, il generatore senza corpo delle passioni... Tu signore dell' oblio, tu padre del silenzio, per il quale e verso il quale ogni luce s' irradia.... Il dio cerca Psiche, l' anima umana: si innamora di lei, e le tende un laccio come dice Simone Weil ma quel laccio è lui stesso. Un lieve soffio di vento porta Psiche in un tenero luogo erboso: poi l' accompagna in un palazzo regale, dove le pareti e le colonne d' oro emanano una epifania di luce, che splende anche se all' esterno manca il sole. Come il suo palazzo, Amore getta luce. Non è altro che luce: teneo te, meum lumen, gli dice Psiche: i capelli gettano uno sfolgorante splendore: le ali rugiadose biancheggiano di sfavillante bagliore: il corpo levigato getta luce; e la sua luce ora avviva ora fa impallidire il lume della lucerna. Ma gli amori tra Dio e l' anima umana devono avvenire nel segreto e nella solitudine, in quella tenebra assoluta, raccomandata da ogni mistico. Psiche non vede Amore: lo ascolta, lo tocca, lo accarezza; in un momento di angosciosa beatitudine, conosce soltanto il suo splendore nella notte. Nulla è più dolce e tremendo di quest' amore tra gli estremi del mondo, che avviene nel soave carcere di due corpi umani: la sensualità esaltata supera il livello dei sensi, e diventa insaziabile, come qualsiasi amore tra un dio e un uomo. Psiche non si accontenta di ascoltare: vuole vedere: pecca di curiositas; e non potrebbe non peccare, perché l' anima umana desidera contemplare la bellezza divina, cercando di salire dalla luce nella tenebra alla luce piena. Giunta la sera, Psiche alza la lucerna, e scorge la belva più mite e più dolce fra tutte le fiere. In quel momento si ferisce il dito con una freccia, così che sbocciano a fior di pelle come rugiada piccole goccioline di roseo sangue: mentre una stilla d' olio ardente brucia la spalla destra d' Amore. Come quello umano, l' amore divino è un fuoco: arde, tortura e fa soffrire a lungo sia Dio sia l' uomo, felicemente e infelicemente innamorati l' uno dell' altro. Dopo il suo peccato, Psiche deve espiare; e i vagabondaggi, le prove e le torture che subisce sono la versione patetica e favolistica di quelli di Iside, alla ricerca di Osiride, come i vagabondaggi di Lucio ne erano stati la versione grottesca. Queste vicende alludono al rituale di morte e resurrezione, che ogni iniziato conosceva nei misteri di Eleusi e di Iside. Ma da sola Psiche la semplice, candida anima umana perduta nei meandri e nei terrori del mondo divino, tra le figure che si moltiplicano e sono sempre la stessa figura non potrebbe salvarsi. Ripete il suo peccato, apre una pisside segreta, rischiando di venire sopraffatta dall' eterno torpore. Il dio la salva, e implora Giove. Per ordine di Giove, Mercurio porta Psiche in cielo, in un burlesco equivalente mitologico della assoluta e accecante luce divina, che Apuleio non osa rappresentare. Mentre la vecchia ubriaca racconta la favola di Amore e Psiche, non sappiamo cosa Lucio comprenda sebbene la favola parli soprattutto di lui. Forse non capisce nulla: oppure, con una tecnica che Kafka rinnoverà, Apuleio omette di raccontare le sensazioni del suo personaggio. In questo periodo che va da un' estate a un' altra primavera, Lucio non sembra affatto cresciuto: è sempre un grande orecchio, che ascolta curiosamente le parole del mondo. Non ha peccato o non sa di avere peccato. Se l' ha fatto ma la sua curiositas è meno grave di quella di Psiche i suoi peccati sono quelli che un' altra religione (molto vicina a quella isiaca) definirà veniali. Alla fine del decimo libro, quando deve accoppiarsi con una assassina sulle scene di un teatro, Lucio capisce confusamente di essere arrivato in fondo all' abisso. Non sopporta ciò che sta per accadere; e, in quell' istante di angoscia, fugge, giunge sulle rive del mare, e spossato si addormenta sulla sabbia morbidissima, immerso nella quiete vespertina. Come diremo noi col nostro linguaggio cristiano, Lucio non ha nessun merito: ma ha una natura luminosa; e la regina dei cieli lo chiama, lo sceglie, suscitando in lui addormentato, come fanno gli dei, un improvviso tremore. Il meraviglioso paesaggio di plenilunio primaverile, che apre il libro undicesimo, è il paesaggio più intriso di numen della letteratura europea. In questa notte Iside lascia dovunque il suo segno. Il disco rotondo della luna emerge dai flutti del mare, scintillando di un abbagliante candore: il mare è quieto, il cielo senza nubi; nei silenziosi misteri della solitudine notturna, insieme ai raggi limpidi e femminei di Selene, dall' alto dei cieli scende la rugiada lunare, che penetra le cose viventi, le riscalda, le scioglie, le ammorbidisce, le distende, facendo crescere i corpi che gremiscono la terra e il mare. Se finora avevamo incontrato Iside mascherata e degradata, ora essa si rivela improvvisamente a Lucio nella natura, in quella magica congiunzione tra l' umidità marina, la rugiada generatrice e i raggi lunari, che costituisce una delle sue epifanie predilette. Come Psiche aveva conosciuto il lumen di Amore nella tenebra, Lucio conosce Iside nella sua luce notturna. Non ne conoscerà altra: in primo luogo, perché Iside è soprattutto luce notturna, e poi perché gli uomini non possono avere esperienze, come diceva Goethe, della luce assoluta. In quell' istante di timorosa contemplazione, Lucio intravede la presenza di una dea, sebbene non ne conosca il nome: si purifica nel mare; e col volto lacrimoso, rivolge una preghiera alla Regina coeli. Poi si addormenta di nuovo. Appena chiude gli occhi, Iside gli appare in sogno, con i foltissimi capelli ondulati, una corona di fiori sul capo, la veste di lino cangiante, la sopravveste nerissima splendescens atro nitore e luccicante qua e là di stelle. Lucio non la vedrà mai: Iside gli apparirà sempre in sogno o in una statua, mentre Psiche ha avuto il dono di conoscere anche cogli occhi l' Amore. Con la stessa eloquenza di Lucio, Iside rivela a Lucio il proprio vero nome. Sappiamo che è la somma tra le potenze divine: la genitrice di tutte le cose, la signora della natura, l' inizio della storia. Quante volte ci era apparsa nel libro, senza che Lucio la riconoscesse! I suoi capelli foltissimi e sciolti, le rose, lo splendore, il profumo erotico e l' umidità marina che la circonda, erano appartenuti a Photis, la piccola serva amorosa. Se l' avevamo incontrata nelle vesti stregonesche di Meroe e Panfile, ora ci appare come sovrana di tutte le magie e le metamorfosi. Se era sembrata la cieca Fortuna, ora è la Provvidenza veggente. Tutte le forme attraverso le quali Iside ci era apparsa, ora ricompaiono, ma trasformate e sublimate; e nessuno potrebbe più ricordare, davanti alla sua immagine luminosissima, che Iside era stata Photis, Meroe, Panfile e la Fortuna. Ora Iside rivela di essere la madre dolcissima e misericordiosa: la madre che aiuta, salva e protegge gli infelici con la sua tenerezza inumidita dai raggi lunari: quella Madonna pagana, quella Regina coeli, quella Stella maris, che Gérard de Nerval aveva inseguito per tutta la vita. Mentre sulla scena si svolgono processioni biancovestite che anticipano quelle bizantine, Lucio ci appare rinnovato, come un cristiano dopo il battesimo. Lasciandosi alle spalle le tribolazioni, le tempeste e i pericoli, è entrato nel porto della Quiete. Nulla, in apparenza, ricorda il goffo asino che era stato. Egli si è convertito. Ma lo slancio delle sue parole, il desiderio di essere amato, il fervore da neofita, l' adorazione contemplativa ci rivelano la dolcezza passiva ed entusiastica del suo cuore giovanile, che aveva inseguito tutti i misteri. Con quale ardentissimo amore, con quali singhiozzi di commozione, contempla la statua di Iside, si prosterna davanti a lei, la prega, custodisce nel cuore la sua immagine. Né nella religione greca né in quella egiziana ci assicura A.J. Festugière c' è traccia della inexplicabilis voluptas, che Lucio prova davanti alla statua. Ama e si sente riamato dalla Regina coeli. La sua è una fede, simile a quella cristiana. Consacra la sua vita ad Iside: entra nella sua militia: le promette un' obbedienza totale; e nel giogo di questa disciplina conosce per la prima volta il frutto della propria libertà. L' iniziazione di Lucio ripete quella di tutte le religioni misteriche. Simile a Psiche, egli ha l' esperienza simbolica della discesa nel regno dei morti e della resurrezione: attraversa gli elementi, come il suo ultimo erede, Tamino, nel Flauto Magico; vede gli dei superi e inferi, e li adora da vicino. Con ogni probabilità conosce l' unione estatica col dio, che Apuleio aveva rappresentato nella favola di Amore e Psiche. Come in qualsiasi mistica, la sua esperienza suprema è luminosa. Platone, Aristotele e Plutarco avevano parlato della luce sfavillante e velocissima, che accende la nostra anima almeno una volta nella nostra vita, quando, in un lampo di beatitudine, possiamo toccare cogli sguardi le cose divine. Ora Lucio conosce quel lampo. Ma anche questa è una visione della luce nella tenebra: perché egli scorge il sole campeggiare di candida luce nel mezzo della notte. Dopo queste esperienze, Lucio raggiunge la meta suprema a cui aspirava un fedele greco. Viene identificato col dio, e appare davanti alla folla vestito con i paramenti sacri, l' abito di lino, il mantello ricamato di animali, che indossava Osiride nella sua apparizione solare. Gli ultimi capitoli delle Metamorfosi sono, in apparenza, delusivi. Giunto a Roma, Lucio riceve due nuove iniziazioni. Questa volta, ancora nella notte, gli appare Osiride, il più potente dei grandi dei, il sommo fra i più grandi, il massimo fra i sommi, colui che regna sui massimi. Se Iside è il Tutto, Osiride, questo deus otiosus, che non crea né amministra il mondo, sta al di sopra del Tutto: come il deus summus atque exsuperantissimus, di cui Apuleio parlava negli scritti filosofici. Ma, mentre l' incontro con Iside era stata un' esperienza calda, fervida e tenera, Osiride resta un nome: l' incontro col dio supremo non può venire espresso né raccontato, sfugge a qualsiasi linguaggio umano. Quando viene nominato grande sacerdote di Osiride, Lucio si rasa i capelli, e col capo calvo, né coperto né adombrato, percorre le strade di Roma. Un' altra figura era calva come il sacerdote di Osiride: il mimo, il clown, il calvus mimicus. Nel libro undicesimo, davanti alla gravità e ai riti di Iside, avevamo perduto completamente di vista l' acrobata e i suoi giochi, che Apuleio aveva annunciato all' inizio delle Metamorfosi, come se la scienza deimisteri annullasse qualsiasi scienza acrobatica. Ora comprendiamo che non è vero. Davanti al dio supremo, che ci costringe al silenzio uccidendo i nostri slanci d' amore, sopravvive soltanto il buffone dalla testa calva. Non c' è che il sacro, l' oscurità divina e il mimo, sebbene nessuna penna, nemmeno quella di Apuleio, possa comunicarci le clowneries mistiche. Tutto, ormai, si identifica. Se avevamo creduto che il giovane greco e il devoto di Iside e Osiride portasse il nome radioso di Lucio, ora Apuleio fa cadere il velo che per tanto tempo aveva coperto il suo volto. In uno degli ultimi capitoli, appone la sua firma: Lucio è uno di Madaura, cioè proprio lui, Apuleio, il sacerdote di tutti gli dei. Così anche il libro, come tutti gli dei e l' universo si trasforma. Tutte le cose che erano accadute ad un altro, sono accadute anche a Apuleio. Sebbene avesse sempre abitato nella sua bella casa africana e nessuno gli assomigliasse meno di Lucio, lui era stato il giovane desideroso di magia, l' asino, Psiche, l' acrobata, il mistico. Dietro il testimone in prima persona, c' era sempre stato il narratore che sapeva tutto, il tessitore dei rapporti e delle allusioni, che in questo momento, con un piccolo gioco sintattico, scrive davanti a noi le due ultime parole del libro: gaudens obiebam, morivo pieno di gioia. Dopo aver concluso il suo ironico-amoroso inno agli dei, aver rappresentato tutto ciò che è ed esiste e aver conosciuto la luce nella notte e la metamorfosi e l' unione col divino, non gli restava altro da desiderare. Poteva davvero morire pieno di gioia.
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