Scoperta a Tell Mozan in Siria una fossa necromantica: 4500 anni fa era la “Porta degli Inferi” della città hurrita di Urkesh dove si evocavano gli antenati. Riferimenti alla Nekyia di Odisseo e di Enea presente nella letteratura greco-romana
Pochi gradini, ripidi, e si accedeva alla porta del regno dei morti, una fossa profonda dove il sacerdote evocava gli spiriti degli antenati. Succedeva a Urkesh, una città hurrita di 4500 anni fa, fiorente in quella che oggi è territorio curdo nella Siria Nord-Orientale, ai confini con la Turchia. La scoperta di una cosiddetta “fossa necromantica”, in hurrita “abi”, dove cioè si entrava in contatto col Regno dei Morti, è uno dei risultati più intriganti della missione diretta dalla famiglia Buccellati (Giorgio Buccellati con la moglie Marilyn Kelly del Cotsen Institute of Archeology di Los Angeles – UCLA; e il figlio Federico Buccellati della Goethe University di Frankfurt a.M.), che nel trentennale dello scavo a Tell Mozan (il moderno toponimo di Urkesh) hanno fatto il punto delle ricerche in un’interessante incontro alla 25. Rassegna internazionale del cinema archeologico di Rovereto, moderato da Luca Peironel dello Iulm di Milano, allievo di Paolo Matthiae e a sua volta archeologo impegnato in missioni in Siria.
“Il sito di Urkesh (l’odierno Tell Mozan)”, introduce Peironel, “conosce il suo periodo di massima espansione nel III millennio a.C. e in parte del II. Il sito è importante perché testimonia i cambiamenti epocali avvenuti nella società: soprattutto la nascita delle città (la cosiddetta urbanizzazione secondaria) che si data di poco dopo quella avvenuta in Mesopotamia”. Lo scavo di Urkesh è iniziato nel 1984 e copre un’area di 130 ettari. In questi 30 anni sono stati scoperti templi, palazzi e documenti di archivio che confermano come gli abitanti di Urkesh ebbero delle relazioni con il regno accadico. Quindi grandi monumenti e intensi rapporti internazionali. E tra questi monumenti anche il singolare “abi” che ha svelato il rito necromantico.
Il rito necromantico, che nella pratica cultuale e nella letteratura greca è chiamato Nekyia (in greco antico νέκυια), è un rito attraverso il quale spettri o anime di defunti venivano richiamati sulla terra e interrogati sul futuro. Ed è proprio dalla letteratura greco-romana che a noi sono giunti gli esempi più famosi, come Odisseo-Ulisse (Od. XI) ed Enea (En. VI), per entrambi i quali il termine Nekyia, anche se non necessariamente assimilabile a una catabasi (cioè il viaggio fisico vero e proprio nell’aldilà), è usato per illustrare sia il rito necromantico sia il viaggio fisico nell’Ade: eventi che in effetti offrono ambedue l’opportunità di parlare con i defunti.
Il più antico riferimento al rito necromantico viene proprio dal Libro XI dell’Odissea: il passo è così intrigante che su di esso l’archeologo-scrittore Valerio Massimo Manfredi ancora nel 1990 aveva costruito un romanzo giallo, “L’oracolo”, ripreso e aggiornato recentemente per inserirlo, dopo “Il giuramento” e “Il ritorno”, come terza tappa dei romanzi su Odisseo “Il mio nome è Nessuno”. Odisseo, alla corte dei Feaci, racconta che, ottenuto il consenso per il ritorno a casa dalla maga Circe, viene avvertito dalla stessa dea che prima di volgere la prua verso la patria Itaca, avrebbe dovuto discendere agli Inferi per consultare l’anima dell’indovino Tiresia. Odisseo parte e giunge fino all’Oceano, immaginato come un fiume che circondava le terre emerse, dove era collocato l’Oltretomba. Qui egli avrebbe dovuto scavare una fossa, versarvi in giro una libagione a tutti i morti: prima una bevanda di latte e miele, poi il dolce vino ed infine acqua. Avrebbe anche dovuto spargervi della farina d’orzo e per ultimo sacrificare alle divinità infernali una pecora nera ed un montone. Sarebbe quindi giunto Tiresia a predirgli il futuro e a indicargli la via del ritorno. Scrive Omero “Scavai la fossa cubitale, e miele/ Con vino, indi vin puro, e lucid’onda/ Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,/ E di bianche farine il tutto aspersi./ Poi degli estinti le debili teste/ Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,/ Entrato con la nave in porto appena,/ Vacca infeconda, dell’armento fiore,/ Lor sagrificherei, di doni il rogo/ Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,/ Immolerei nerissimo arïete,/ Che della greggia mia pasca il più bello./ Fatte ai Mani le preci, ambo afferrai/ Le vittime, e sgozzaile in su la fossa,/ Che tutto riceveane il sangue oscuro”. Odisseo dunque scava una fossa e la riempie di sangue sgozzando degli animali sacrificali. Sopraggiungono così le ombre dei defunti a bere il sangue e temporaneamente entrarono in contatto con i vivi: Elpenore, il compagno rimasto senza sepoltura in casa di Circe, l’indovino Tiresia, la madre Anticlea, morta dopo la sua partenza per la guerra di Troia, Agamennone, Achille, Aiace.
Anche Enea, per giungere nella nuova patria, deve affrontare un viaggio nel mondo dei morti. Se Odisseo la porta dell’Ade la trova solcando l’Oceano, Enea raggiunge l’accesso all’Averno sbarcando a Cuma, in Campania dove l’eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe, figlia di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma per ottenere la nuova patria dovrà affrontare odi e guerre, essendo inviso a Giunone. Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nell’Aldilà. Scrive Virgilio: “O vergine, nessuna specie di travagli mi si presenta nuova o inaspettata; tutto ho provato e considerato nell’animo, tra me. Una cosa sola ti prego: poiché si dice che qui si trovino la porta del re dell’inferno e la tenebrosa palude formata dal rigurgito dell’Acheronte, che io possa andare alla presenza dell’anima dell’amato genitore; insegnami la via ed aprimi le sacre porte (…). Con tali parole pregava e abbracciava gli altari, quando così la veggente cominciò a parlare: O generato dal sangue degli DEI, Troiano figlio di Anchise, facile è la discesa nell’Averno: notte e giorno è aperta la porta dell’oscura Dite, ma ritrarre il passo ed uscire all’aria superna, questo è il problema, qui sta l’impresa (…). Ma se ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro (…). Conduci nere pecore, e siano queste le prime offerte, così vedrai alfine i boschi dello Stige e i regni inaccessibili ai vivi. Disse, e, chiusa la bocca, tacque”. Caronte, lo psicopompo dell’Ade, ostacola l’ingresso di Enea e della Sibilla a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d’oro, chiave degli Inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Enea e la sacerdotessa incontrano prima le anime di molti troiani caduti in guerra, poi quelle dei suicidi per amore: tra queste v’è anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale scoppia in un pianto disperato. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l’ombra del poeta Museo, che porta Enea dall’amato padre Anchise.
Fin qui letteratura e mito. Ma a Tell Mozanla fossa necromantica è una realtà. “L’Abi, il nome antico della fossa necromantica”, spiega Giorgio Buccellati, “risale almeno al secondo quarto del terzo millennio, ma è forse molto più antica. Allo stato attuale degli scavi raggiunge una profondità di 8 metri, e ci preserva uno dei luoghi cultuali più sacri e più caratteristici della religiosità hurrita, non solo per Urkesh ma per tutto il mondo hurrita. In contrasto con le tradizioni mesopotamiche, anticipa invece aspetti salienti della sensibilità religiosa dei Greci e della Bibbia. Si tratta di una monumentale struttura sotterranea, usata di rado e in tal caso di notte. Serviva come un canale ideale tra i nostro mondo e quello dei morti, la “undiscovered country” dell’Amleto di Shakespeare. Ma per gli Hurriti questa era invece una “discovered country” perché tramite questa fossa si sentivano in grado di entrare nella regione nascosta e interpretare la voce dei suoi spiriti”.
Gli abitanti di Urkeshguidati dai loro sacerdoti si muovevano dal tempio, posto nel punto più alto della città, e raggiungevano l’Abi, la grande fossa aperta vicino al palazzo, la quale rappresentava il luogo più profondo, e quindi – nell’immaginario – più vicino al regno dei Morti. “Dal tempio si accedeva dunque all’Abi, la Porta degli Inferi”, continua Buccellati. “In questo pozzo molto profondo che si apre accanto al palazzo la gente di Urkesh veniva a chiedere aiuto agli antenati per il raccolto o prima di andare in guerra. L’Abi non è altro che una fossa necromantica, dove si scendeva (e si scende ancora) attraverso una scaletta molto ripida. Erano i sacerdoti a richiamare gli spiriti degli antenati attraverso un preciso rituale che prevedeva l’uso di due pugnali e il versamento del sangue di animaletti”.
La scoperta è stata possibile grazie al ritrovamento e allo studio delle ossa animali (“Nel passato – sottolinea il professore italiano – sarebbero state buttate, con tutti i dati scientifici ad esse legati, come materiale di disturbo Oggi per fortuna ci sono gli archeo-zoologi”). Gli archeologi impegnati a Urkesh pensavano che i sacrifici riguardassero grossi animali. Invece lo scavo ha smentito questa convinzione: “A Tell Mozan abbiamo trovato solo ossa di maialini di pochi mesi e di piccoli cani, macellati come se si volesse estrarre qualcosa piuttosto che per il pasto”.
Il rito necromantico è stato ricostruito dai Buccellati seguendo le descrizioni riportate dai testi ittiti in lingua hurrita. “Prendono due pugnali,/ che sono stati/ fatti assieme/ alla statua/ della divinità,/ e scavano/ una fossa./ Offrono/ una pecora/ alla divinità…/ e la sacrificano/ giù nella fossa”. C’è un’eco con l’episodio di Enea che parla con la madre. Dalla fossa necromantica di Tell Mozan proviene la cosiddetta “Signora degli Inferi”. Si tratta di una piccola giara antropomorfa. Presumibilmente conteneva olio profumato usato nei rituali della Nekyia. “La distorsione della bocca non è casuale”, fa notare Giorgio Buccellati. “Gli spiriti degli Inferi non parlavano distintamente ma come un cinguettio di uccelli (così ci dicono i testi hurriti). La nostra figura – conclude – rappresenta quindi un tale spirito nel momento in cui comunica il suo messaggio indistinto che una donna medium dovrà poi interpretare”.
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