Il
termine «puttana», che nell'italiano popolare acquisisce un grave tono
offensivo, deriva da puteus, con cui in latino s'intendevano
originariamente o una cavità naturale o un buco scavato appositamente[1] (nei puticuli,
i pozzi, intesi come grembi ipogei di rinascita, i Romani del popolo
seppellivano i morti). Nell'Avesta,[2] il
testo sacro del mazdeismo, mediante la parola putika ci si riferisce
invece ad un lago mistico di acqua rigenerante. In entrambi i casi, come è
facile notare, siamo legati concettualmente a qualcosa che sfiora l'idea di un
sentimento religioso. Non a caso la radice sanscrita presente nei Veda, puta,
entrata anche nelle lingue romanze con tutt'altro senso (cfr. spagnolo puta,
francese pute) allude a ciò che è «puro» o «santo», e significativamente
in ebraico la parola Kaddosh vuol dire sacro mentre Kaddeshà prostituta.[3] Detto
brevemente, in contesti storici o culturali diversi, il sostantivo «puttana»
implica inizialmente, sul piano strettamente etimologico, il concetto della
sacralità. Tuttavia, porre in relazione la sessualità all'idea di sacro, crea
oggi uno scomodo paradosso per molte persone.[4]
Eppure, anticamente, il sesso era considerato una vera e propria liturgia, a
dire un mistico atto sacramentale (ierogamia) che permetteva ad entrambi i
partner di trascendere i propri sensi comuni per entrare in una nuova
dimensione spirituale. Essenzialmente si trattava di un rito di passaggio e di
trasformazione interiore: di qui la ierodula, la serva-amante, veniva chiamata
pertanto «Grande Prostituta» (assumendo l'epiteto della dea al cui servizio era
addetta), ed eseguiva ogni volta un particolare atto sessuale di coitus
reservatus, un intenso e prolungato orgasmo di tutto il corpo senza emissione
di fluido seminale, il quale avrebbe condotto l'uomo all'horasis,[5] l'illuminazione
spirituale o Sophia, che equivaleva in sostanza ad una forma suprema del
rinnovamento interiore raggiunta attraverso la sublime esperienza erotica del
Femminile (in India questa speciale tecnica sessuale è conosciuta dalla
dottrina tantrica come maithuna, un raffinato procedimento di sensi che
permette all'uomo di assimilare appunto dentro di sé l'innata sapienza magica
della donna).[6] «L'atto
sessuale tra un uomo e la sacerdotessa era il mezzo per ricevere la gnosi, per
fare esperienza del divino [...] Il corpo della sacerdotessa diventava, in modo
impensabile per il mondo occidentale contemporaneo, letteralmente e metaforicamente
una via per entrare in rapporto con gli dei [...] Per i pagani, infatti, le
donne erano naturalmente in contatto con il divino, mentre l'uomo, da solo, non
poteva raggiungere questo obiettivo».[7] E
commentando nella sua raffinata prosa d'antan uno studio sulla
sessualità sacra assira, Julius Evola (Metafisica del sesso, cit., p. 213)
precisa:
Erano queste giovani [sacerdotesse, ndr] che avevano,
anche, il nome di «vergini» (parthénoi ierai), di «pure», di «sante» - qadishtu, mugig, zêrmasîtu;
si pensava che incarnassero, in un certo modo, la dea, che fossero le
«portatrici» della dea, da cui traevano, nella loro specifica funzione erotica,
il nome - ishtaritu. L'atto sessuale assolveva così per un lato la
funzione generale propria ai sacrifici evocatori o ravvivatori di presenze
divine, dall'altro aveva una funzione strutturalmente identica a quella della
partecipazione eucaristica: era lo strumento per la partecipazione dell'uomo al sacrum,
in questo caso portato e amministrato dalla donna.
Si
noti che alle ierodule era solito attribuirsi gli epiteti di «Vergine Santa» o
«Grande Prostituta», titoli che in ogni caso nel paganesimo matriarcale si
riferivano comunemente ad una sacra sacerdotessa depositaria dell'oscuro
segreto femminile relativo alla gnosi magica del divino, essendo costei
l'incarnazione terrena della Dea sotto la cui benedizione amministrava nei
templi il culto religioso: di fatto, lo stesso termine harlot che
nell'inglese letterario odierno designa una prostituta, trae origine,
attraverso il francese medievale, proprio dalla parola greca
"ierodula" (lett. serva sacra). Ora, tra le incombenze
liturgiche delle Sante Vergini o ierodule, le serve sacre del tempio, c'erano i
doveri di somministrare la grazia celeste della Dea, di far guarire dalle
malattie attraverso lo sputo medicinale e le secrezioni della vagina,[8]di
profetizzare,[9] di
eseguire le sacre danze in onore della divinità[10] nonché
di intonare le lamentazioni funebri e di diventare «Spose» del dio-sacerdote
nei riti prestabiliti del matrimonio sacro. L'appellativo Vergine Santa non
stava però ad indicare verginità fisica in senso stretto, ma piuttosto
acquisiva il significato di «ragazza nubile»: pertanto le ierodule erano sia
vergini in quanto non vincolate da alcun legame matrimoniale, e sia sante
perché manifestavano pubblicamente la funzione sacerdotale, essendo la
rappresentazione terrena delle varie dee nei cui confronti amministravano il
culto religioso, basato sulla sessualità sacra. Sicché, qualora fosse stato
generato un figlio, per logica a costui si conferiva un epiteto che allora non
poteva dar luogo ad equivoci, ove nel caso particolare dei Semiti suonava come bathur e
per i Greci parthenioi, cioè il «nato da vergine».[11] Sia
chiaro che lo stesso termine che in lingua latina esprimeva una ragazza
illibata non era virgobensì virgo intacta: il primo vocabolo veniva
riferito comunemente ad una giovane nubile, ovvero non ancora sposata, mentre
l'altra voce connotava decisamente la mancanza di esperienza sessuale.[12]
[1] Il
termine puteus si accosta all'idea di vagina, grembo, utero, ovvero
ai concetti di ricezione e di contenimento. Non a caso la parola italiana
"cunicolo", buco o passaggio stretto, deriva dal latino cunnus,
vagina. In ogni caso la radice cunproviene dalla Grande Dea orientale
Cunti o Kunda, la yoni dell'Universo, divinità "cunni-potente", che
detiene cioè la magica vagina della nascita. Cfr. Barbara G. Walker, The
Woman's Encyclopedia of Myths and Secrets, cit., pp. 197-198.
[2] Originalmente
in 21 parti, esso ci è pervenuto in redazione incompleta e tarda (III-VII
d.C.), scritto in iranico antico (avestico) e in lingua pahlavi. Ancora oggi rappresenta
la "Bibbia" dei Parsi.
[3] Cfr.
Laura Rangoni, La Grande Madre, cit., p. 49. Anche il termine ebraico hor(affine
all'etimo delle Horae greche, le sacerdotesse di Afrodite) valeva come sinonimo
sia di buco (o pozzo) sia di sacra prostituta e della dea che serviva, la cui
yoni, cioè la vagina, era rappresentata metaforicamente da un pozzo o da una
vasca d'acqua situata al centro del tempio.
[5] Cfr.
Peter Redgrove, The Black Goddess and the Sixth Sense, London,
Bloomsbury, 1987; anche Barbara G. Walker, op. cit., p. 821. Il termine horasis,
l'illuminazione spirituale, appare anche nel Nuovo Testamento (Atti degli
Apostoli 2,17) ma è erroneamente tradotto con "visioni".
[6] Il
Tantra è un'antichissima dottrina incentrata sulla yoni, la venerazione
sessuale del principio femminile, che si dice sia stata elaborata migliaia di
anni fa in India da una setta segreta chiamata Vratyas, composta di sole donne
(a ben vedere una sorta di ierodule in grado di partecipare in congiunzione col
loro principio opposto, illinga, dell'armonia universale).
[7] Lynn
Picknett e Clive Prince, La Rivelazione dei Templari, cit., p. 198. Cfr.
anche Nancy Qualls-Corbett, The Sacred Prostitute, cit., p. 105 (la
prostituta sacra come mediatrice tra il divino e l'umano).
[8] Un
vecchio proverbio sufi recita: "La cura è nella vagina della donna".
L'idea invece che lo sputo sia salutare per guarire dalle malattie affiora
persino nel Nuovo Testamento, come per esempio nel passo di Marco 8,23 dove
Gesù pone la saliva sugli occhi del cieco di Betsàida per ridargli la vista.
Tale intervento curativo appartiene alla tradizione medicinale
matriarcale:Barbara G. Walker, op. cit., p. 820 e più oltre a p. 885,
ricorda che in una tavoletta d'argilla proveniente dall'antica Ninive si
sostiene che le malattie oftalmiche possono essere curate con latte misto allo
sputo di una prostituta sacra.
[9] Il
termine ebraico zonah sta ad indicare sia una prostituta sia una
profetessa. "Sperare nella Provvidenza", cioè nell'assistenza
benevola di Dio, significa in realtà affidarsi alla magia divinatoria e
profetica del femminile. In latino provideo vuol dire
"prevedere", per cui la Provvidenza è personificazione delle capacità
mantiche del Femminile, come appunto le antiche matriarche che erano in grado
di disporre dei beni agricoli necessari alla comunità prevedendo i movimenti
degli astri ed i repentini cambi climatici di stagione. "Gli antichi
Germani ritenevano che le donne avessero in sé qualcosa di sacro, e a loro si
rivolgevano per i vaticini. E queste donne consacrate, si dice, osservavano i
fiumi turbinosi, ascoltando il mormorio o il mugghiare delle acque e, da ciò
che vedevano e sentivano, traevano gli auspici. [...] Sotto il regno di
Vespasiano, per esempio, una certa Veleda, della tribù dei Brutteri, era da
tutti considerata una dea e, come tale, regnava sul suo popolo, e il suo
dominio era ovunque riconosciuto", James Frazer, Il ramo d'oro, cit.,
pp. 125-126.
[10] "I
portoghesi tradussero il termine devadâsi, che si incontra già in
Buddhagosa, autore buddista del V secolo d.C., con bajadère (ballerine),
le danzatrici sacre dei templi indiani; il concetto si ritrova anche nel
Vecchio Testamento [Deuteronomio23,18]", Ambrogio Donini, Breve
storia delle religioni, cit., p. 196.
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