lunedì 30 dicembre 2013

I fuochi per il Sole della tradizione pagana europea

Dato che siamo vicini ai riti "dei fuochi" della festa della Befana come i "Panevin" trevigiani accesi  per il sorreggere il Sole morente del solstizio d'inverno. Un meccanismo analogico per aiutare l'Astro Splendente a superare la fase critica nel suo massimo abbassamento sull'orizzonte, per aiutarne la risalita da quel punto estremamente critico.


LA MAGIA DEI FALO'. DAGLI ANTICHI RITI PAGANI ALLA FESTA CRISTIANA DE “SANT’ANTONI DE SU FOGHU”, L'EREMITA CHE RUBO’ DALL’INFERNO IL FUOCO A SATANA.


Oristano15 Gennaio 2011
Cari amici,
tra domani e dopodomani in tanti Paesi della Sardegna si accenderanno una miriade di “Fuochi Rituali”, in onore di “Sant’Antoni de su Fogu”, ovvero S. Antonio Abate, festeggiato in tante altre parti d’Italia, soprattutto nel meridione. Secondo i dati forniti dalla Regione Autonoma della Sardegna sono poco meno di cento i centri dove tra il 16 e il 17 gennaio, festa del Santo, verranno accesi i caratteristici fuochi rituali per rendere omaggio e festeggiare il Santo taumaturgo.
Considerato che la ricorrenza risulta alle soglie del Carnevale, evento molto caratteristico ed importante per la nostra isola, i fuochi in onore del santo sono da considerarsi un vero e proprio anticipo del carnevale imminente, anzi la vera e propria giornata di inizio. Per creare nuove correnti turistiche quest’evento, uno dei più suggestivi del patrimonio culturale dell’isola, è stato incluso nel progetto “L’isola che danza”, finalizzato proprio a creare flussi turistici “fuori stagione”. Per i riti legati ai fuochi di Sant’Antonio Abate si è scelto il claim “Scintille dal cuore”, Ischintziddas dae su coro, in Lingua Sarda.

Fuochi e falò che non sono uguali, per composizione, forma e dimensione, e che a seconda delle zone della Sardegna vengono chiamati in modo differente: Is fogus, is fogaronis o fogadonis, sos focos, sos o’os, foghilloni, fogoni e s’oguloneIs frascas e sas frascas, is sèlemas e sas sèlemas, soprattutto in Ogliastra e in Baronia, perché costituiti da cataste di legna e frasche di cespugli della macchia mediterranea. A Dorgali è chiamato su romasinu, perché prevalgono i cespugli e l’odore del rosmarino. A Bitti è chiamato sa ochina, mentre a Torpé su fogulone. Is tuvas e sas tuvas (tronchi di alberi che i fulmini e lo scorrere del tempo hanno reso cavi), a Sedilo, Aidomaggiore, Ghilarza, Abbasanta, Norbello ed altri centri dell’alto oristanese. Nomi e composizioni differenti, però, tutti realizzati con cataste di legna di buona qualità, che brucia a lungo, regalando ai numerosi spettatori uno spettacolo di alta suggestione.
Ma da dove trae origine questa radicata cultura del fuoco, risalente certamente agli albori dell’umanità, e che, nonostante le nuove tecnologie non ha mai abbandonato l’uomo? Cerchiamo insieme di comprenderne il perché.
La crescita culturale dell’uomo, lo sappiamo, è fatta di una sequenza ininterrotta di tappe, dove la cultura e la conoscenza precedente si modificano e si aggiornano in continuazione, amalgamando vecchio e nuovo, senza soluzione di continuità. A somiglianza del mondo vegetale, dove sui vecchi legni coriacei e inspessiti dalla corteccia si formano, sbocciano e crescono le nuove gemme ed i nuovi rami che, rinnovandosi, danno vita a nuovi virgulti ed a nuovi frutti.
Con il passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana anche il Cristianesimo nella sua lenta e costante crescita non ha ripudiato la precedente cultura ed i precedenti riti pagani, ma li ha inglobati, metabolizzati. Ha operato amalgamando e trasformando le antiche credenze e tradizioni in rinnovati riti cristiani, evitando pericolosi cambiamenti e sicuri traumi ai popoli convertiti al cristianesimo. Intelligente operazione di ‘transizione’ che, trasportando le precedenti pratiche pagane in un contesto religioso, consentì, stante la forte connotazione contadina dell’epoca, un trapasso indolore dal paganesimo al cristianesimo.
Gli antichi riti pagani delle “feste del fuoco” trassero certamente origine da due elementi essenziali che regolavano lo svolgersi della vita sulla nostra terra: il sole, la cui venerazione per la forza ed il suo calore era assoluta, ed il fuoco, la cui grande forza, capace di riscaldare, illuminare, purificare ,ma anche di distruggere, era seconda solo a quella del sole. Sole e fuoco dunque le grandi forze della natura a cui erano dovute adorazione e rispetto. La loro importanza era tale da alimentare le più strabilianti rappresentazioni. Una relativa al sole era quella di costruire e far ruzzolare una ruota infuocata giù per una collina, riproducendo cosi l’arco ed il movimento del sole; Un’altra, relativa all’ansia creata dal buio, era quella della costruzione ed accensione di grandi torce, capaci di illuminare le tenebre della notte, fugando la paura del buio. Sole e fuoco complementari ed alleati, capaci di riscaldare la terra e di esorcizzare le tenebre, riportando “luce e calore” sulla terra. All’idea del fuoco, surrogato del sole e del suo calore, si aggiungeva quella del fuoco come elemento purificatore: capace di distruggere il morbo dannoso, di liberare spazi all’agricoltura, di ridare vita nuova e fertilità al terreno, per una rinnovata annata agraria.

Dalla cultura pagana alla cultura cristiana il passaggio è stato indolore. La radicata cultura della venerazione del fuoco come “Dio pagano” il cristianesimo l’ha metabolizzata e rinnovata, trasformando le antiche e radicate tradizioni popolari, in omaggio e devozione verso il Santo cristiano, capace di padroneggiare il fuoco, Sant’Antonio Abate appunto, che, nell’interesse dell’umanità, riuscì a procurarsi il sacro fuoco, rubandolo con grande astuzia al diavolo nell’inferno. Nella comune raffigurazione iconografica S. Antonio Abate (per noi sardi Sant’Antoni de su fogu) viene rappresentato con la fiamma viva che arde nel palmo della mano. Santo ancora più importante del Dio pagano, a cui ci si poteva rivolgere non solo per le necessità del fuoco che riscalda e da calore ma anche per mitigare e far guarire “il fuoco della malattia”, invocato da quelli colpiti dal doloroso ’Herpes zoster’. Nella tradizione popolare, infatti, un’altra caratteristica importante attribuita al Santo taumaturgo, fu quella di guaritore degli ammalati di ‘ignis sacre’, detto più comunemente “fuoco di Sant’Antonio”.
Ma chi era questo santo a cui venne tributata tanta devozione e che ha assorbito nella cultura popolare il Dio pagano del fuoco, cui erano tributati solenni sacri riti? Eccone una breve e sintetica storia.
S. Antonio abate fu uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al 250, a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere da eremita nel deserto e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita da anacoreta per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi da tutto l'Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l'esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Concilio di Nicea. Nell'iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore.
Anche in Sardegna, come in altre culture, soprattutto del meridione d’Italia, si ripropongono in chiave fantastica episodi biografici riguardanti il santo. In una di queste leggende, ancora oggi tramandata ad Orgosolo ed Aidomaggiore, si racconta come un monaco eremita, verosimilmente S. Antonio abate fosse riuscito ad ottenere per gli uomini il fuoco, dopo averlo rubato al diavolo. Diavolo scaltro, racconta la leggenda, che lo offriva agli uomini barattandolo in cambio dell’anima. Naturalmente nessuno intendeva accettare tali scambio. Però, una soluzione bisognava trovarla per avere il fuoco, strumento ritenuto di primario interesse. Era necessario trovare uno stratagemma per rapire al diavolo almeno una favilla. Un vecchio allora propose ai suoi compaesani di chiedere consiglio ad un eremita che abitava in una grotta lontano dal paese e che era da tutti considerato un sant’uomo. Racconta la leggenda che fosse ritenuto talmente capace ed astuto che neppure il diavolo sarebbe stato in grado di farlo cadere in tentazione e quindi in peccato. L’eremita acconsentì a recarsi all’inferno per recuperare il fuoco. Operando con grande abilità ed astuzia riuscì ad imbrogliare il diavolo, che gli voleva impedire di avanzare all’interno dell’inferno, e recuperò una favilla di fuoco. Fu per questo motivo, conclude il racconto, che quel santo eremita venne chiamato S. Antonio del fuoco.
Un’altra leggenda su S. Antonio, che potrebbe essere interpretata come una sorta di mito di Prometeo, quello che rubò il fuoco agli dei, cosi racconta. Essendosi un giorno il Santo accorto della grande sofferenza degli uomini che pativano il freddo, che causava inoltre mille altri malanni, animato da un nobile senso di compassione paterna, abbandonò il suo eremitaggio nel deserto per recarsi all’inferno. Preso un bastone di ferula si avviò lentamente verso il grande portone che ne delimitava l’ingresso e bussò alla porta. All’inferno, dove certo il fuoco non mancava, gli si parò davanti l’arguta faccia di un diavoletto che, pensando alle richieste di un dannato, spazientito gli chiude con rabbia la porta in faccia, bestemmiando Dio ed i suoi santi. Il Santo, paziente, non si scompose, ritentò e riprovò tre o quattro volte, finché i demoni guardiani, per toglierselo di mezzo, gli consentirono di entrare per riscaldarsi. Sant’Antonio si avvicinò all’immenso e inestinguibile fuoco e allungò le mani verso le fiamme per riscaldarsi; senza dare nell’occhio immerse nel fuoco la punta del suo bastone di ferula che, avendo un midollo spugnoso, aveva la capacità di custodire viva per parecchio tempo, nascosta dalla cenere, la forza del fuoco. Quando il Santo si accorse che il suo stratagemma era riuscito, con maniere garbate si congedò dai suoi ospiti, portando cosi in salvo il sacro fuoco e donandolo, trionfante, agli increduli uomini.
Questa antica festa del fuoco e del suo Santo protettore, che continua ad essere oggetto di grande venerazione, verrà anche quest’anno “calorosamente” festeggiata in tanti centri dell’Isola. Sono tanti i comuni sardi dove anche quest'anno si ripeterà l'antica tradizione dell'accensione del fuoco in onore di Sant'Antonio. Ricordiamo i più importanti. Partendo dalle porte di Cagliari (Ballao) e Sassari ( Florinas), troveremo la massima concentrazione tra le province di Oristano (Abbasanta, Aidomaggiore, Ardauli, Assolo, Arborea, Bosa, Boroneddu, Busachi, Fordongianus, Ghilarza, Laconi, Montresta, Morgongiori, Norbello, Nughedu S. Vittoria, Ollastra, Paulilatino, Samugheo, Scano Montiferro, Sedilo, Tresnuraghes, Ula Tirso), Nuoro (Aritzo, Dorgali, Lodé, Macomer, Nuoro, Oliena, Orosei, Ottana, Silanus, Torpé) e Ogliastra (Gairo).
L’antico rito del fuoco richiede una lunga preparazione, certamente non uniforme nella forma, nei vari centri citati, ma identico nella sostanza. Le persone di ogni centro, soprattutto i giovani, provvedono nei giorni precedenti il rito alla raccolta della legna necessaria. Al centro viene posto un grosso tronco cavo di quercia o di olivo, “ Sa Tuva”, attorno al quale si collocano diversi tipi di legna di varia dimensione, fino alla più fine, che dovrà innescare le prime fiamme. Terminata la preparazione il giorno della festa attorno a questo ‘sacro fuoco’ si svolgono dei particolari rituali preparatori. E’ una cerimonia collettiva, propedeutica ad un momento di incontro dalle funzioni apotropaiche, in funzione di allontanamento dei mali, anche tramite la preghiera, che recitata con tre giri in senso orario ed altri tre in senso opposto intorno alle fiamme, diventa elemento purificatore per i credenti, proiettandoli allo stesso tempo in una dimensione di rinnovata fiducia nel futuro. Intorno al fuoco purificatore, benedetto dal parroco, si riunisce tutta la collettività, religiosa o meno, e si contemplano con gioia e fiducia le fiamme incantatrici, capaci di allontanare sia i mali fisici che quelli dell’anima.
E’, questo del fuoco, un rito di grande gioia, vissuto e trasformato in festa. I partecipanti, incantati dal rituale, dal calore e dal crepitio delle fiamme, mangiano e bevono in compagnia, inebriati dal vino novello che circola in abbondanza. Si commentano e condividono i sapori dei piatti tipici, dei vini e dei numerosi dolci locali, si consumano piatti fumanti di fave e lardo, carni variamente cucinate di maiale, pecora o selvaggina, accompagnate da patate, cipolle e cavoli, offerti con gioia a tutti i presenti. Tutto questo diventa festa comunitaria, rinnova la felicità dello stare insieme, dell’incontro, della condivisione; tradizione, suggestione e raccoglimento, tutti insieme, in riflessione o preghiera, nell’auspicio di un anno migliore.
In questa notte magica è il Santo protettore che aleggia sulla festa e sui partecipanti. Si chiedono al Santo grazie e miracoli in un contesto quasi magico, dominato dall'imponente falò che, lanciando enormi lingue di fuoco, consuma enormi cataste di legna. Il fuoco brucia tutta la notte. Gli anziani osservano con attenzione le caldissime volute del fumo che, uscendo dal tronco infuocato, sale in cielo. Saranno proprio i disegni del fumo emanato a suggerire auspici e profezie per l’annata agraria. All’alba, in silenzio, i resti del grande fuoco non andranno perduti: tizzoni, carboni e ceneri verranno prelevati e conservati. Saranno usati per curare e scongiurare malattie, sia degli uomini che del bestiame; verranno anche utilizzati per preservare le colture (da intemperie e malattie), perché il Santo taumaturgo, ha sempre operato per proteggere gli uomini e le loro cose. Continuando ad invocarlo e festeggiarlo, ne siamo certi, continuerà a farlo.
Grazie, cari amici della Vostra attenzione.
Mario

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