Fin dai tempi più antichi l’uomo si è lasciato rapire dal mondo del fantastico, viaggiando tra mitologia, leggende e favole.
Ma, mentre nella mitologia si muovevano figure emblematiche, legate spesso alle divinità, nella favola, che è un po’ a cavallo tra temporalità e atemporalità, i protagonisti erano personaggi più vicini a noi, forse per rendere più comprensibile e veritiera la morale, che nascondeva.
“Fabula docet” dicevano i Latini.
La favola mette spesso in rilievo la duplice natura dell’uomo, quella più nobile, contro quella più malvagia, che viene quasi sempre sconfitta.
Si concretizza il desiderio primitivo ed inconscio dell’uomo di evadere dal reale, collocando fatti ed eventi in una dimensione, in cui l’impossibile diventa possibile, senza distaccarsi, tuttavia, dai valori che governano la coscienza.
Ed ecco, quindi, che il buono trionfa sul cattivo, che il bene vince sempre sul male.
E’ ciò che, nel proprio intimo, ognuno di noi vorrebbe vedere trionfare.
«...e poco prima che inizi il Duemila, le fate muteranno il linguaggio e si esprimeranno in suoni "compositi", come facevano già millenni addietro. Useranno cioè parole costruite insieme per esprimere un concetto».
Cosi scriveva il reverendo Robert Kirk, scomparso nel 1692, dopo essere stato pastore di anime in Gran Bretagna, ad Aber-foyle e a Balquedder. Fu uno dei "grandi investigatori" del mondo delle fate, del Sleagh Maith, definizione ampia che racchiude tutto il "piccolo mondo" dell'invisibile. Kirk, dunque, era convinto che le fate si sarebbero espresse con la "portmanteauword", un vocabolo britannico entrato nell'uso per indicare un termine composito, una
parola-baule che ne comprende molte altre, per capirci.
Che cosa sono le fate? Questo interrogativo riappare anche nel libro di Anthony Burgess La fine della storia e l'autore fa dire a uno dei personaggi la risposta che ha in mente: «Un qualcosa nel cervello che ti fa dire le bugie». Qualcosa di psicologicamente simile a un "leprechaun". folletto malizioso del folclore irlandese. Diciamo una "fata-morgana magica", esoterica, inesprimibile per chi non ci crede, come è inafferrabile. Le fate c'introducono nel mondo delle fiabe e ne spiegano il linguaggio che è già loro, forgiato spesso, se si va oltre il significato immediato del racconto, proprio su questo lessico-enigma, in un gioco di parole che pare costruito per iniziati. Che cosa si nasconde in una fiaba? Che cosa vogliono dire Cappuccetto Rosso e Il gatto con gli stivali?
A produrre - non involontariamente è presumibile – il significato arcano delle favole, basato su simbolismi, su raffigurazioni "folli" soltanto in apparenza, fu Charles Dodgson, più noto come Lewis Carrol. Scrisse, per divertire alcune bambine che gli erano care, favole stravaganti, arricchendole di contenuti misteriosi. Così è possibile asserire che le avventure di Alice nel paese delle meraviglie oppure Attraverso lo specchio, rappresentano qualche cosa di enigmatico che può con tranquillità essere paragonato alle pagine di Joyce. Carrol, se non ne è addirittura l'inventore, certamente è un gran consumatore di "parole-baule" o di "parole-valigia", quel modo cioè di creare vocaboli, sfornare neologismi, inventare parole che gli anglosassoni hanno chiamato, dicevamo "portmanteauword".
È attraverso questo "materiale", a tali vocaboli, che si entra nella dimensione "fatata", ossia nel mondo delle fate dove vigono leggi diverse dalle nostre. Ha osservato Pietro Citati, proprio parlando di Alice che "di là" «non esiste il Peso, né il Numero, e la tavola pitagorica impazzisce. L'"io", del quale noi siamo tanto fieri, si perde, insieme a quel supremo simbolo della identità che è la memoria. Tutto viene rovesciato. Per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le spalle: per restare fermi, dobbiamo correre; per arrivare in un punto, dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all'indietro, prima il futuro, quindi il presente, infine il passato». Questo il mondo trasfigurato di Alice. E quello delle fate è il medesimo. [...].
La lingua non combacia - e non deve necessariamente combaciare - con la realtà. Questo Carrol lo intese subito e sfruttò le capacità di trasformazione del linguaggio espressivo. Fra la "cosa", ad esempio una pietra o un pezzo di pane, e il vocabolo per dire, per definire questa "cosa", c'è un abisso incolmabile e lo scrittore giocò appunto sulla dissonanza tra l'oggetto e la parola.
«Giacché la lingua è arbitraria -per richiamare ancora un commento di Citati - egli poteva desumere dai suoni che ne formano la superficie un universo del tutto differente dal nostro. Bastava rispettare la lingua, come noi non facciamo... Così, per esempio, se in inglese i rami si pronunciano "bau ", essi abbaieranno "dietro lo specchio " e i fiori sonnecchieranno pigramente perché aiuola vale, in inglese, come "letto di fori"...»
Henry Meynell Rheam, Il bosco delle Fate (1903)
Da questo intrecciarsi di suoni, giochi di parole, nasce molto del significato della fiaba, il suo meccanismo con gli eterni personaggi. Peccato che si sia perso - che si trattò d'una edizione limitata a poche copie - un libretto stampato dall'editore Delachaux a Parigi nel 1949, intitolato appunto Le symbolisme des contes de fées, scritto da M. Loeffler. Un lavoro gustoso che sottolineava i tre significati essenziali di una fiaba: uno profano, uno sacro e uno riservato agli iniziati. Secondo Loeffler, i vecchi re fiabeschi rappresentano la "memoria del mondo", cioè l'inconscio universale. Le loro figlie, sposando giovani e valorosi principi, costituiscono un frammento dell'inconscio che "passa nella coscienza". Per spiegare i carri alati e le carrozze fatate, occorre riandare a credenze cabalistiche anteriori al Cristianesimo. Pollicino, secondo Loeffler, è l'espressione della "coscienza assoluta" e, addirittura, del "corpo astrale". I suoi fratelli incarnano qualità e facoltà dell'uomo. Siamo a un passo dall'esoterismo e la fiaba, una qualsiasi, si scolora in una filosofia misteriosofica.
Su questa scia ebbero influsso evidente Perrault e i Grimm. L'impronta pedagogica che i due fratelli riuscirono a dare alle fiabe ha fatto presa in misura maggiore, come forza di linguaggio e di persuasione, di quanta ve ne sia in Perrault. Sarebbe del resto impossibile non riandare al tessuto fantastico e ricco di significati, quasi da esserne traboccante, del Peter Pan di J. M. Barrie, considerato un capolavoro a tutti gli effetti, comunque ci si voglia porre davanti al fatto raccontato. Il lettore non può non sentirsi proiettato in una dimensione che supera di certo i confini della letteratura infantile. Il "sogno" di Barrie può far discutere quanto la sciarada di Lewis Carrol. Entrambi si servirono del "codice cifrato delle fate". Dopo la discesa sulla Luna, dopo la catastrofe del Challanger, l'uomo medita sulla soglia dello spazio e si pone le domande di sempre. C'è chi sostiene, disposto a giurarlo, che la contrapposizione tra i blocchi, la guerra di potenza, lo scontro bene-male, è in realtà la ripetizione millenaria e alchemica della spartizione di ciò che vediamo fra luce e non-luce. Diciamolo pure, lotta fra fate e streghe, anche sotto la minaccia dei missili, con la prospettiva di una rovina totale.
L' archeologia "fatata" non è solo di ieri. Da sempre si rinnova con sciarade sorprendenti fatte di luci e di suoni. Al termine del suo ponderoso saggio La vie et la mort des fées non scrisse forse Lucie Félix-Faure-Goyau che le fate ci accompagnano nel cammino e quasi «cadenzano il nostro divenire»? Ecco perché il loro linguaggio di ieri appartiene al più immediato futuro.
Ma, mentre nella mitologia si muovevano figure emblematiche, legate spesso alle divinità, nella favola, che è un po’ a cavallo tra temporalità e atemporalità, i protagonisti erano personaggi più vicini a noi, forse per rendere più comprensibile e veritiera la morale, che nascondeva.
“Fabula docet” dicevano i Latini.
La favola mette spesso in rilievo la duplice natura dell’uomo, quella più nobile, contro quella più malvagia, che viene quasi sempre sconfitta.
Si concretizza il desiderio primitivo ed inconscio dell’uomo di evadere dal reale, collocando fatti ed eventi in una dimensione, in cui l’impossibile diventa possibile, senza distaccarsi, tuttavia, dai valori che governano la coscienza.
Ed ecco, quindi, che il buono trionfa sul cattivo, che il bene vince sempre sul male.
E’ ciò che, nel proprio intimo, ognuno di noi vorrebbe vedere trionfare.
Renzo Rossotti
IL LINGUAGGIO DELLE FATE
Da Abstracta n° 7 (settembre 1986)
John Anster Fitzgerald, Fairies Looking Through A Gothic Arch (1864)
IL LINGUAGGIO DELLE FATE
Da Abstracta n° 7 (settembre 1986)
John Anster Fitzgerald, Fairies Looking Through A Gothic Arch (1864)
«...e poco prima che inizi il Duemila, le fate muteranno il linguaggio e si esprimeranno in suoni "compositi", come facevano già millenni addietro. Useranno cioè parole costruite insieme per esprimere un concetto».
Cosi scriveva il reverendo Robert Kirk, scomparso nel 1692, dopo essere stato pastore di anime in Gran Bretagna, ad Aber-foyle e a Balquedder. Fu uno dei "grandi investigatori" del mondo delle fate, del Sleagh Maith, definizione ampia che racchiude tutto il "piccolo mondo" dell'invisibile. Kirk, dunque, era convinto che le fate si sarebbero espresse con la "portmanteauword", un vocabolo britannico entrato nell'uso per indicare un termine composito, una
parola-baule che ne comprende molte altre, per capirci.
Che cosa sono le fate? Questo interrogativo riappare anche nel libro di Anthony Burgess La fine della storia e l'autore fa dire a uno dei personaggi la risposta che ha in mente: «Un qualcosa nel cervello che ti fa dire le bugie». Qualcosa di psicologicamente simile a un "leprechaun". folletto malizioso del folclore irlandese. Diciamo una "fata-morgana magica", esoterica, inesprimibile per chi non ci crede, come è inafferrabile. Le fate c'introducono nel mondo delle fiabe e ne spiegano il linguaggio che è già loro, forgiato spesso, se si va oltre il significato immediato del racconto, proprio su questo lessico-enigma, in un gioco di parole che pare costruito per iniziati. Che cosa si nasconde in una fiaba? Che cosa vogliono dire Cappuccetto Rosso e Il gatto con gli stivali?
A produrre - non involontariamente è presumibile – il significato arcano delle favole, basato su simbolismi, su raffigurazioni "folli" soltanto in apparenza, fu Charles Dodgson, più noto come Lewis Carrol. Scrisse, per divertire alcune bambine che gli erano care, favole stravaganti, arricchendole di contenuti misteriosi. Così è possibile asserire che le avventure di Alice nel paese delle meraviglie oppure Attraverso lo specchio, rappresentano qualche cosa di enigmatico che può con tranquillità essere paragonato alle pagine di Joyce. Carrol, se non ne è addirittura l'inventore, certamente è un gran consumatore di "parole-baule" o di "parole-valigia", quel modo cioè di creare vocaboli, sfornare neologismi, inventare parole che gli anglosassoni hanno chiamato, dicevamo "portmanteauword".
È attraverso questo "materiale", a tali vocaboli, che si entra nella dimensione "fatata", ossia nel mondo delle fate dove vigono leggi diverse dalle nostre. Ha osservato Pietro Citati, proprio parlando di Alice che "di là" «non esiste il Peso, né il Numero, e la tavola pitagorica impazzisce. L'"io", del quale noi siamo tanto fieri, si perde, insieme a quel supremo simbolo della identità che è la memoria. Tutto viene rovesciato. Per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le spalle: per restare fermi, dobbiamo correre; per arrivare in un punto, dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all'indietro, prima il futuro, quindi il presente, infine il passato». Questo il mondo trasfigurato di Alice. E quello delle fate è il medesimo. [...].
La lingua non combacia - e non deve necessariamente combaciare - con la realtà. Questo Carrol lo intese subito e sfruttò le capacità di trasformazione del linguaggio espressivo. Fra la "cosa", ad esempio una pietra o un pezzo di pane, e il vocabolo per dire, per definire questa "cosa", c'è un abisso incolmabile e lo scrittore giocò appunto sulla dissonanza tra l'oggetto e la parola.
«Giacché la lingua è arbitraria -per richiamare ancora un commento di Citati - egli poteva desumere dai suoni che ne formano la superficie un universo del tutto differente dal nostro. Bastava rispettare la lingua, come noi non facciamo... Così, per esempio, se in inglese i rami si pronunciano "bau ", essi abbaieranno "dietro lo specchio " e i fiori sonnecchieranno pigramente perché aiuola vale, in inglese, come "letto di fori"...»
Henry Meynell Rheam, Il bosco delle Fate (1903)
Da questo intrecciarsi di suoni, giochi di parole, nasce molto del significato della fiaba, il suo meccanismo con gli eterni personaggi. Peccato che si sia perso - che si trattò d'una edizione limitata a poche copie - un libretto stampato dall'editore Delachaux a Parigi nel 1949, intitolato appunto Le symbolisme des contes de fées, scritto da M. Loeffler. Un lavoro gustoso che sottolineava i tre significati essenziali di una fiaba: uno profano, uno sacro e uno riservato agli iniziati. Secondo Loeffler, i vecchi re fiabeschi rappresentano la "memoria del mondo", cioè l'inconscio universale. Le loro figlie, sposando giovani e valorosi principi, costituiscono un frammento dell'inconscio che "passa nella coscienza". Per spiegare i carri alati e le carrozze fatate, occorre riandare a credenze cabalistiche anteriori al Cristianesimo. Pollicino, secondo Loeffler, è l'espressione della "coscienza assoluta" e, addirittura, del "corpo astrale". I suoi fratelli incarnano qualità e facoltà dell'uomo. Siamo a un passo dall'esoterismo e la fiaba, una qualsiasi, si scolora in una filosofia misteriosofica.
Su questa scia ebbero influsso evidente Perrault e i Grimm. L'impronta pedagogica che i due fratelli riuscirono a dare alle fiabe ha fatto presa in misura maggiore, come forza di linguaggio e di persuasione, di quanta ve ne sia in Perrault. Sarebbe del resto impossibile non riandare al tessuto fantastico e ricco di significati, quasi da esserne traboccante, del Peter Pan di J. M. Barrie, considerato un capolavoro a tutti gli effetti, comunque ci si voglia porre davanti al fatto raccontato. Il lettore non può non sentirsi proiettato in una dimensione che supera di certo i confini della letteratura infantile. Il "sogno" di Barrie può far discutere quanto la sciarada di Lewis Carrol. Entrambi si servirono del "codice cifrato delle fate". Dopo la discesa sulla Luna, dopo la catastrofe del Challanger, l'uomo medita sulla soglia dello spazio e si pone le domande di sempre. C'è chi sostiene, disposto a giurarlo, che la contrapposizione tra i blocchi, la guerra di potenza, lo scontro bene-male, è in realtà la ripetizione millenaria e alchemica della spartizione di ciò che vediamo fra luce e non-luce. Diciamolo pure, lotta fra fate e streghe, anche sotto la minaccia dei missili, con la prospettiva di una rovina totale.
L' archeologia "fatata" non è solo di ieri. Da sempre si rinnova con sciarade sorprendenti fatte di luci e di suoni. Al termine del suo ponderoso saggio La vie et la mort des fées non scrisse forse Lucie Félix-Faure-Goyau che le fate ci accompagnano nel cammino e quasi «cadenzano il nostro divenire»? Ecco perché il loro linguaggio di ieri appartiene al più immediato futuro.
Stralcio dall'articolo di Renzo Rossotti Il linguaggio delle fate
pubblicato su Abstracta n° 7, settembre 1986 (Stile Regina Editrice)
pubblicato su Abstracta n° 7, settembre 1986 (Stile Regina Editrice)
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