mercoledì 1 gennaio 2014

La sapienza arcaica di Roma attraverso i luoghi sacri dell'Urbe

Questo fa parte di una serie di articoli curati da Alessandro Giuli, che sottolineano la grandezza dell'Urbe. Una passeggiata che ci porta alla scoperta di storie e luoghi sacri, un sapere inaspettato e fin'ora segreto svelato al grande pubblico dalla maestria e conoscenza di un giornalista unico!



Il ritorno del fuoco sacro in occidente. Ianicvlvm

Passeggiata archeologica sul Colle dell’inizio, lì dove Giano custodisce le porte dell’Urbe e la memoria della Repubblica Romana

MMDCCLXI ab Vrbe Condita
Ante diem quintum Eid. Ian.
AGONALIA


Nella ricorrenza delle feste Agonalia, compiuti i riti domestici in onore del Padre Giano, Lucio Giulio Glanico raggiunge la domus del proprio maestro Giulio Pomponio Leto nei pressi del tempio di Apollo in Circo Flaminio. All’interno della casa, non lontano dal bronzo degli avi e dei Numi famigliari onorati nel larario di Pomponio, sopra un’ara di marmo bianco due lame di vivissimo fuoco si dipartono parallele dalla medesima porzione di brace (è accesa con legno di quercia). Una piccola forma di pane nero sta finendo di ardere, offerta sull’altare; dal suo profilo s’intuisce essere stata scolpita in modo da raffigurare un ariete.
Giulio Pomponio Leto – O mio Lucio, simile a un delfino che rincorre la scia biancheggiante della nave Argo, attratto dalla cetra di Orfeo, tu torni qui mentre celebro i riti del nuovo anno aperto dal Padre Giano. Quale segno più fausto?
Lucio Giulio Glanico – E’ così, mio Pomponio. Ma più facile sarebbe fissare Febo nascente che posare lo sguardo sulla fiamma altochiomata del tuo altare. Nessuna offerta deve essere tanto gradita dal Signore delle porte, nel giorno in cui sorge la costellazione del Delfino.
Pomponio – Così sembra, Lucio. Ma vedo che hai già tolto il velo alla mia similitudine marina e sopra tutto noto che ci ritroviamo sotto la tutela dello stesso Dio al quale, nel giorno del solstizio d’estate, consegnammo la salute della nostra ultima conversazione sul ritorno del fuoco sacro nella Terra di Saturno. Allora, ricorderai, parlammo di Alba Longa e di Giove Laziare. Prima avevamo raggiunto la città di Lavinium fondata dal pio Enea, lì dove il Sole Indigete si sposa con Venere Genitrice. Prima ancora avevamo toccato le sponde del Castrum Inui, sacre a Fauno e a Ve(d)iovis Saettante. Il percorso ci ha condotti a Roma con la forma serpentina della folgore giovia. Oggi è dunque su Giano che potremo fissare lo sguardo. Ma allora ammetterai che adesso, proprio come nel mese di Giunone e anzi con maggior forza, è giusto levare lo stesso canto al Re nostro:

“Cantatelo, il Padre degli Dei;
plecate il Dio degli Dei.
Oh Sole, sorgi al mondo!
Alla porta del cielo, o tu che apri!
Sei il gentile portiere;
sei il buon Ianes,
sei il benefico generatore
di più potenti signori”.
Ita est.

Lucio – Giacché il momento ci risulta propizio, Pomponio, voglio appunto dirti che alla prima alba dell’anno nuovo mi sono recato sopra il Colle di Giano. L’ho fatto rettamente, muovendo dalle pendici dove i platani di Roma costeggiano il sacello di Fonto, figlio del Dio Bifronte, non lontano dal luogo in cui la nera Tellus custodisce il sepolcro di colui che a Giano rese la paternità del primo mese nel calendario romano, il re Numa.
Pomponio – Nulla di più dolce alle mie orecchie, Lucio. Continua.
Lucio – Mentre m’incamminavo, il mio animo era rischiarato da alcune tue parole da me ascoltate nella ricorrenza delle feste Floralia: “Chi è Enea… Per ciò che è lecito svelare ti risponderà il suo nome così come lo trovi scolpito sopra uno specchio etrusco nel quale egli è chiamato EINA, cioè AINE, cioè IANE: il padre Giano. Così come questo guarda il passato e il futuro con il proprio duplice volto, così Enea è il suo eterno e attivo presente sospeso tra la Dardania di ieri e l’Italia di domani simboleggiate nelle pitture e nelle iscrizioni dalle figure di Anchise (Troia) e di Ascanio/Iulo (Alba/Roma) che gli sono accanto. Il passato, nelle sembianze del padre, grava sulle spalle dell’eroe. Il futuro gli è accanto con le fattezze filiali. Non per caso Dionigi di Alicarnasso ci dice che Enea fu il primo nome arcano del Gianicolo, il Colle dell’Inizio”. Così mi dicesti.
Pomponio – Così, in effetti.
Lucio – Non ti nascondo che questa immagine mi ha accompagnato lungo il mio tragitto, simile al segreto che muove i giovani romani a spostarsi dal Foro alla città Caere, passando per il Ponte Sublicio e il Gianicolo, pur di apprendere l’etrusca disciplina. E non a caso il Colle di Giano è come una porta, la più vetusta, che al tempo stesso separa e congiunge l’Urbe alla regione dei Lucumoni. Ma la signoria del Nume, lo so bene, si estende su tutto il Lazio, dove il “quasi Dio degli Dei”, come ci insegna il nostro Macrobio, accolse nel suo regno il Latente Saturno fuggitivo dal fragore dei Cureti custodi di suo figlio Giove (lo avrebbe ospitato nel Colle che oggi chiamiamo Campidoglio, allora detto Saturnio). Se posso, Pomponio, oserei dire che nessuna parte di Roma mi sembra naturalmente ospitale come il Gianicolo, rorida come le sue acque, pacifica come le gioiose cornacchie che dondolavano sui rami frondosi al mio passaggio. Si direbbe che i demoni della modernità lì non abbiano messo radici.
Pomponio – Con poche parole, Lucio, hai detto molto. Più di quanto credi, forse. Non è forse vero che il Dio Giano, rappresentato dai nostri maggiori con baculum e clavis nelle mani, lo scettro e la chiave, è il depositario di un tempo perfetto nel quale uomini e Dei vivevano assieme avvolti nel manto dorato della Pax? Non è forse vero che fu lui, Ianus, a innalzare per primo i templi e a fissare i riti del culto? Ciò che, conferma Macrobio, gli valse per sempre il diritto di essere invocato per primo nei sacrifici.
Lucio – E’ così. L’ellenizzante Damascio definisce Giano “principio di tutte le cose”, ma questo poiché il suo maestro Proco lo aveva prima determinato come “tempo che non invecchia e la cui sapienza non perisce”. E donde, se non da un principio di sapienza incorruttibile, può derivare l’origine delle cose?
Pomponio – Dici bene Lucio. Considera infatti che l’attributo “bifronte” egli lo merita giacché il suo sguardo è illimitato e domina ogni regione celeste. La sua vista si direbbe perciò ciclopica, perché circolare. I nostri Padri lo rappresentano barbato, per indicarne la condizione di pienezza originaria, pretemporale, veneranda e onnicomprensiva come i dodici altari fumiganti nel suo tempio: ciascuno per ogni mese. Non a caso la sua mano destra custodisce il numero trecento e nella sinistra è il sessantacinque: tanti quanti i giorni dell’anno che si ripete in eterno. Ma proprio per questo gli stessi maggiori nostri lo hanno correttamente raffigurato anche come un fanciullo sempre uguale a se stesso, e “gemino” come il Sole che presiede alle due porte celesti: sorgendo apre, tramontando chiude. Ora però fa’ attenzione, Lucio. Prima mi dicevi delle cornacchie che abitano in maggioranza il Gianicolo.
Lucio – Festanti e numerose.
Pomponio – Devi sapere che il Colle di Giano ospita un culto a questi uccelli femminei, un onore testimoniato da un’antica iscrizione dedicatoria scolpita nel marmo e lì ritrovata: Devas Corniscas Sacrum. La destinataria è colei che, con Giano, signoreggia l’inizio del mese: Giunone Regina e Sispita, cui è sacra la cornacchia vaticinante.
Lucio – Per questo il nostro Dio, oltreché Padre in quanto capostipite, Gemino in quanto Sole, Patulcio in quanto colui che apre e Clusivio in quanto colui che chiude, è anche detto Giunonio. Poiché insieme con la consorte di Giove Ottimo Massimo custodisce l’ingresso di ogni mese, proiettando la sua autorità sulle Kalendae.
Pomponio – Noto che le parole di Macrobio si sono impresse nell’animo tuo come lettere sacre incise sopra il marmo di un altare ben recinto. Ma farei poco onore alla tua volontà d’apprendere se non ti chiedessi di riflettere su questo, che nella perfezione originaria del Dio splendente deve essere compresa anche una sua parte femminile. Come si darebbe altrimenti tale perfezione, se non nella luce di un’unità immobile che tutto comprende?
Lucio – Credo di comprendere. Per questo – è sempre Macrobio che mi guida – il pitagorico Publio Nigidio Figulo poté affermare che Apollo è Ianus e Diana è (D)Iana, e in questa formula si riassumono i due volti della manifestazione luminosa: il principio solare maschile e il mezzo lunare femminile attraverso il quale quello si comunica.
Pomponio – A questo punto, giovane Lucio, è bene sigillare la nostra digressione ricordando gli altri attributi del Dio.
Lucio – Consivio, poiché artefice della propagazione del genere umano che proprio Giano semina. Quirino poiché signore dell’asta, curis, cioè artefice dei prodigi di guerra che resero il suo tempio aperto memorabile quando ne uscì il fiume di acque bollenti da cui furono travolti i Sabini di Tito Tazio giunti alle porte dell’Urbe. Al nome di Ianus, inoltre, cui è connessa la funzione della porta, ianua, rinvia l’atto dell’andare, cioè il passaggio: Eanus ab eundo, dice Marco Tullio Cicerone.
E infine Giano è detto Quadrifronte poiché nessuna via è preclusa al suo occhio vigile.
Ma tu sorridi, Pomponio, forse le mie parole rimbalzano su di te come un martello respinto dall’incudine?
Pomponio – Al contrario, mio Lucio, la tua conoscenza è pari allo sforzo che ti è stato richiesto e cresce costante, simile alla prima lanugine sul dorso di un ariete. Il tempio di Volupia, la Dea che ospita il premio di una volontà soddisfatta, dovrebbe riceverti con riguardo. Ma fa’ attenzione, ragazzo, a guardare oltre il velo della parola scritta. Certe verità se ne stanno a lungo mute e lontane come gli abeti sui monti Rodopi cari a Orfeo. Ma quando l’animo nostro è pronto a riceverle, Borea agita le loro foglie suscitando interminabili sussurri. E’ giunto il momento di ascoltarli.
Lucio – Lo farò.
Pomponio – Testa o nave, Lucio? Quando l’elleno Plutarco insinua che Giano altri non era se non un Nume venuto in Italia dalla Tessaglia, da cui il simbolo della nave inciso nel verso delle prime monete romane sulle quali era scolpito, dice il falso e il vero nello stesso momento. Falso perché la nave è quella di Saturno che attraccò sulle rive ospitali del Lazio – Latium da latere, nascondere – e forse non era neppure una nave in senso stretto. Vero perché, con Saturno, dalla terra dei Tessali Pelasgi tornava per così dire in Italia il secondo volto di Giano, lo specchio della sua luce che s’era irradiata in tutto il Mediterraneo attraverso le migrazioni dei primi Italici. Con Saturno, se è lecito dire così, il tempo immobile di Giano è cominciato a scorrere in forma ellittica come uno Zodiaco e si è fatto Giove: ordine armonico, Signore dei Dodici Dei Consenti, cioè Generanti. Ora realizza nell’animo tuo la figura delle lettere pelasgiche che compongono il nome di Saturno; poi leggi al contrario, in forma latina, vi troverai Giove. Cos’è dunque, Giano Bifronte se non la sintesi dell’Uno e dell’Altro? Ecco spiegato il simbolo dell’ascia doppia che ritrovi in gran copia sui sacri pilastri dei labirinti cretesi. Ecco l’essenza della bipenne che sovrasta le corna dei Tori/Vitelli minoici. E cosa sono i Vitelli se non i V-Ituloi, cioè gl’Itali nostri progenitori che hanno civilizzato le terre bagnate dal Mediterraneo? E poi: non erano forse chiamati Aborigeni, codesti Italici, prima che il loro nome diventasse quello delle cicogne (Pelargoi, da cui Pelasgi)? E donde proviene questo nome di Aborigines che il volgo, sempre prossimo al vero, fa derivare ab origine, se non dal più antico Borigines, cioè “nati dalla montagna”? Giacché nella voce sabellica Boros non devi leggere nient’altro che “montagna”, da cui Borea, il vento del nord. Ti è chiaro, adesso Lucio, dov’è la sede degli Iperborei – coloro che abitano sopra i monti – verso la quale Apollo migra trainato dai cigni del suo carro quando il sonno che tutto doma scende su Delfi? I quali Delfi, insegna un vecchio gerofante, “erano gli Oracoli, ed i Delfini li Sacerdoti”; il che spiega perché Omero nel suo Inno a Dioniso ha voluto che il Dio Fragoroso proprio in Delfini trasformasse i Tirreni/Pelasgi.
Lucio – Mi è chiaro, Pomponio, come l’acqua di una tempesta improvvisa che ci richiama alla vita degli elementi.
Pomponio – Seguimi ancora Lucio, tra non molto lasceremo di nuovo le secrete cose.
Lucio – Ti seguo.
Pomponio – Bene. E dunque e se vero che i (U)-Per-riboi, come dice sempre Plutarco, sono la famiglia del Padre Giano, cos’altro rappresenta Giano Quadrifronte se non i quattro aspetti cosmici fondamentali del Giove Pelasgico e Iper-boreo che a Dodona ingiunse ai nostri padri Ar-Kadi, giunti in Epiro attraverso la Tessaglia, di tornare nella Terra natale? Eccoli: Iuppiter o Giove celeste; Marmar o Giove igneo; Neptunus o Giove equoreo e scuotiterra; Ve(d)iovis o Giove saettante di sotterra. Tutto questo si cela nei quattro volti del gravido Giano, il quale è Uno ma si effonde attraverso il due che sommato all’uno dà il tre (il terzo volto del Dio, il più ascoso) che precede e forma il quattro, numero della generazione. Così Roma conobbe un solo fondatore, Romolo, ma anch’egli geminus di un Remo indispensabile, ancorché in forma trapassata, come un Rex non poteva esistere senza un Senato [Se(n)-natus]. Così Roma conobbe una doppia confraternita di Luperci, Fabi e Quintili, prima che gli Iulii ristabilissero il ternario. Così Roma conobbe due Lares Praestites, sormontati dalla doppia Stella ignea dei Dioscuri Castore e Polluce, garanti della cinta muraria e tutori di quanto cadesse sotto i loro quattuor occhi. Così Roma conobbe due Consoli, in età repubblicana, quali incarnazioni viventi della forza apollinea e di quella nettunia che insieme formarono le mura inviolabili della divina madre Troia.
E potrei continuare ancora, Lucio, ma tanto per ora basta. Riprendi dunque a narrarmi della tua passeggiata.
Lucio – Lo farò con piacere, Pomponio. Sempre nel primo giorno di gennaio, mentre avanzavo verso la sommità del Gianicolo, alla mia sinistra lì dove la via piega a nord e si fa più scoscesa, ho bordeggiato i cespugli verdi e scuri che fanno da vestibolo al bosco della Dea Furrina con i suoi alti cipressi. Luogo inquietante, devo ammettere, sconsigliabile al visitatore se non quando Helios ha vinto la notte del solstizio invernale, e comunque da avvicinare con cautela e nelle ore diurne. Pur avendolo esplorato in altre circostanze, questa volta sono rimasto all’esterno, protetto dall’acqua che Giove Pluvio versava su di me e su quel luogo che di fonti è già ricchissimo. Intuisco in effetti che deve esserci un rapporto di solidarietà tra la Furrina e Giano, forse perché il Dio nostro ha come sua compagna la ninfa Giuturna e come suoi figli il Padre Tiberinus e il Divo Fontus. O forse perché, oltre a Carna, Signora dei cardini, un’altra sua paredra è Carmenta, la Dea della parola primordiale accompagnata dalle sue ancelle vaticinanti, le Camenae. In ogni caso, Pomponio, della Dea Furrina poco o nulla conosco, se non che i maggiori nostri la onoravano di un flamine minore e sacrificavano a lei nel venticinquesimo giorno di luglio, in occasione delle feste Furrinalia. Ma non so come. Posso dirti – appellandomi ancora una volta alla sola parola scritta – che Cicerone assimilava Furrina e le sue ninfe Furrinae alle Erinni, divinità tremende, notturne, talmente vetuste da sembrare precosmiche. Notevole, Pomponio, è il fatto che ancora oggi basta smuoverne la terra bagnata dalla pioggia per raccogliere frammenti di terracotta che ci dimostrano l’esistenza di un culto forte e duraturo. Mi domando se ancora…
Pomponio – Sono certo, mio Lucio, che possiedi ragioni chiare per sostenere la sopravvivenza di un qualche culto in quel luogo. E non ho dubbi che avrai anche osservato con attenzione i resti del santuario posto proprio al limitare del Lucus Furrinae, il santuario siriaco del Gianicolo.
Lucio – E’ così, Pomponio. Ma dimmi tu – te ne prego – se di questo santuario si sa qualcosa di più delle poche cose giunte alla mia conoscenza. Ovvero che la comunità dei siriciaci, già presente trans Tiberim dai tempi della Repubblica, aveva messo gli occhi su quella radura fin dal Primo secolo avanti l’èra volgare, in virtù dei canali sotterranei nei quali scorreva l’acqua della fonte divina; ma che i resti del tempio a noi pervenuti rivelano una datazione al limite dell’incredibile, e cioè del IV secolo dell’èra volgare, se non addirittura oltre. Dunque al confine con la crisi della Pax Deorum, anzi in pieno ateismo. E ancora, Pomponio, prima che tu, volendolo, risponda alla mia richiesta di luce al riguardo: il santuario ha una costruzione molto strana ed è orientato in modo singolare, da ovest a est; è un lungo rettangolo con un’abside nell’estremità occidentale e una cuspide triangolare sul lato orientale. A ovest, se ben ricordo, già nel Secondo secolo un certo Gajonas si premurava di garantire il banchetto rituale per la triade di Heliopolis: Hadad o Giove Elipolitano, Atargatis o Venere sotterranea e Simios o Mercurio solare. Quanto all’altro versante, mi risulta che nei primi anni del Ventesimo secolo lì sia stata trovata, all’interno di un altare triangolare (quasi la forma di una matrice), una statua particolarissima rappresentante un fanciullo avvolto nelle sette spire di un serpente la cui testa gli sormonta il capo, gli occhi aperti e intensamente pensosi, le braccia prigioniere strette lungo i fianchi. Per oltre un millennio e mezzo quel simulacro è rimasto lì, sdraiato, inerte come in un sonno vigile, circondato da sementi e da uova intenzionalmente rotte, sigillato secondo le regole di un rito misterioso. Ulteriore particolarità, è che nei locali antistanti all’ara triangolare sono state ritrovate altre due statue: la prima raffigura una divinità egizia in basalto vittima di una frammentazione volontaria; nella seconda sono riconoscibili le fattezze di un Dioniso ellenistico, con una larga benda rituale a cingergli la fronte e una doratura tuttora persistente del volto e delle mani.
Detto questo, Pomponio, le mie parole sono esaurite.
Pomponio – Dunque parlerò, ma non prima d’aver invocato su queste mie parole l’assistenza della Triforme Ekate nelle sembianze della divina Medea: che sia lei, così come con il valoroso Giasone nella cerca del Vello d’Oro, a vigilare attivamente sulla nostra mano mentre scosta il velo che ci separa dalle verità oscure. Ebbene, Lucio, cominciamo dal lato donde spira il Favonio. Cominciamo da occidente. Qui i siriaci ospitarono iscrizioni indirizzate alla Dea Febris, a Zeus Keraunios Signore della folgore e alla Nimphae Forrinae, come dimostra l’offerta di una donna fenicia di Cipro. Bada bene, Lucio, una donna fenicia. Nonché una serie di piccole are con triplice o semplice dedica che ti autorizzano a parlare della triade elipolitana come destinataria del culto principale. Ma c’è di più. Il Gajonas di cui tu parli, Lucio, era una figura ambigua legata ad alcune presenze e azioni tenebrose. Il siriaco Marco Antonio Gajonas era un funzionario pubblico di basso rango e un mago di alta scienza riconosciuto come tale dall’imperatore Commodo. Devoto, ufficialmente, a Giove Eliopolitano, Gajonas ha lasciato diverse iscrizioni. Due di queste, Lucio, ci rivelano la sua funzione mondana e ultramondana. Nella prima egli figura come colui che sa di “non dover niente alla morte”. E’ un iniziato libero dai lacci dell’Ade. Ma nella seconda Gajonas è pure Desmophylax, vale a dire “custode dei legami”; quei “lacci” che lui, in quanto giudice dei banchetti, stringeva intorno alla vittima del sacrificio agli Dei della Siria. Così è scritto sulla superficie di una lastra marmorea utilizzata per le abluzioni, secondo i più, ma che probabilmente sorreggeva l’anello magico al quale era incatenata l’offerta animale.
Sempre che fosse soltanto un’offerta animale, Lucio, giacché i “legati” siriaci, ovvero gli iniziati di quel luogo, a suo tempo avevano consacrato il loro santuario con un tremendo sacrificio, un sacrificio umano praticato secondo l’antico rituale di Heliopolis. Lo dimostra il cranio trovato sepolto in un ripostiglio ai piedi della statua di quel dio imberbe e catactonio chiamato Giove dalla confraternita siriaca per non spiacere ai Romani, ma in realtà identificato con il Baal mediorientale.
Non ti sfuggirà di certo, Lucio, che anche il Campidoglio fu consacrato in tal modo. Con il capo del mitico Gigante Olo, Caput-Oli, ovvero con il Caput Auli, cioè del tirreno Aule Vibenna. Né avrai dimenticato, Lucio, che il perimetro della nemica Cartagine venne tracciato in forma di cavallo e a partire dal teschio equino sepolto sotto quella che sarebbe diventata la sua Acropoli. Sicché un elleno non avrebbe alcuna difficoltà ad ammettere, nella sua lingua, essere il Campidoglio Saturnio una Polis il cui polo opposto è in ogni Cartagine. C’è dell’altro, Lucio.
Lucio – Ti ascolto.
Pomponio – Il ricorrere della forma triangolare con la punta rivolta in basso, emblema della matrice primigenia, evoca la presenza della Triforme Ekate, richiamata dallo strapiombo di Furrina sottostante al santuario dei siriaci che si svolge non per caso secondo una croce regolare dalla quale s’irradia energia acquatica verso i quattro punti cardinali. Un’energia quadrifronte, diremmo dunque richiamando dalla memoria l’effigie di Giano. Una e Trina, Ekate-Furrina si moltiplica nelle tre figure scolpite sopra un celebre altarino con in mano anfore, serpe, pugnale e torce: indici di vitalità magica e notturna, sprigionata dalla fonte sotterranea e non a caso imprigionata dai sacerdoti romani durante i Furrinalia, il periodo di luglio in cui la Luna si richiude su se stessa, potente e pericolosa. Come Ianus, Ekate è divinità iniziatica, presiede cioè al passaggio (in-ire) da uno stato dell’essere a un altro di segno opposto, a una morte per la rinascita, all’ordalia delle acque che rispondono “sì” oppure “no” alla domanda del velato (miste) introdotto da colui che ha già con-templato il mistero (epopte). Perciò il teurgo Proclo ha dedicato a Ekate e Giano uno dei suoi Inni più importanti, e che ora, qui, prima di procedere oltre, con calma potenza è il caso di recitare: “Salve, o Madre degli Dei, dai molti nomi, dalla bella prole;/ salve, o Ekate, custode delle porte, di grande potenza; ma anche a te/ salve, o Giano, progenitore, Zeus imperituro; salve Zeus Superno;/ rendete luminoso il cammino della mia vita,/ ricolmo di beni, allontanate i morbi funesti/ dalle mie membra, e l’anima, che sulla terra delira,/ traete in alto, purificata dalle iniziazioni che risvegliano la noesi./ Vi supplico, tendetemi la mano, e le divine vie/ Mostratemi, ché lo voglio; la luce preziosissima io voglio fissare,/ onde m’è dato fuggire la turpitudine della tetra generazione./ Vi supplico, porgetemi la mano, e con i vostri soffi/ Me travagliato sospingete nel porto della Pietas./ Salve, o Madre degli Dei, dai molti nomi, dalla bella prole;/ salve, o Ekate, custode delle porte, di grande potenza; ma anche a te/ salve, o Giano, progenitore, Zeus imperituro; salve Zeus Superno”. Ita est.
Ma credi sia tutto, Lucio?
Lucio – Invero no, Pomponio, lo arguisco dal tuo sguardo.
Pomponio – Fa’ attenzione ragazzo, stiamo per entrare nella matrice orientale del santuario siriaco, ci stiamo avvicinando al sepolcro dell’idolo imprigionato dalle sette spire.
Lucio – Non potrei ascoltarti con maggiore concentrazione.
Pomponio – Bene. Il ricettacolo triangolare nel quale l’idolo in bronzo dorato è stato posto segnala il potere femminile delle acque, quello di generare e quello d’inghiottire come le paludi stigie nelle quali alcune anime dei trapassati s’immergono per riuscirne sotto forma di uccelli: aves. L’idolo è stretto da sette spire e sette è numero magico che designa i centri sacri dell’organismo specchiati dai corrispettivi astri celesti: tutti prigionieri della serpe, cioè di un fuoco infero. Alcuni hanno voluto vedere nel simulacro un Kronos mithriaco simile al leontocefalo, ma non è così: non ha la testa di un leone, ma sopra tutto nessun Kronos può conoscere l’onta delle braccia legate come accade invece all’idolo siriaco. Ma allora cos’è, Lucio, quest’idolo?
Lucio – Questo mi sfugge ancora, Pomponio, come uno sparviero che fende l’aria del cielo e si allontana senza neppure muovere le ali.
Pomponio – Non è Adone e non è Osiride, non è il Genio del Cosmo (Chaos) né il suo Nume agente (Aion), ma è allo stesso tempo tutto questo. Solo, i sacerdoti che lo immolarono prima di abbandonare il tempio non vollero liberarlo. Al contrario, Lucio: se guardi bene la sua figura la vedrai avvolta da un drappo, come un sudario sepolcrale di quelli scolpiti nei sarcofaghi galilei. Chi fece tutto questo non ebbe soltanto in mente la figura di un Lazzaro, voleva fondare qualcosa… e impedire lo smembramento rituale del Nume che fu il Bacco Latino, Dioniso/Orfeo in Tracia, Osiride Egizio, Enea/Sole nel Latium, Romolo/Quirino nella Roma dei Re, Caio Giulio Cesare/Quirino nell’Urbe repubblicana: Dei e uomini divini che con la loro immolazione e apoteosi hanno ritualmente ripetuto il mito antichissimo dell’Unità italica ridotta al molteplice, migrata perigliosamente e finalmente riunita sotto le insegne dei fasci che compongono la doppia scure di Giove Pelasgo.
Ancora oggi a Roma si conserva un amuleto che appartenne a un sacerdote di quella setta, è una gemma di colore nero un tempo incastonata in un anello, proviene dal santuario siriaco. E’ una pietra incisa che rappresenta il Dio imberbe stretto nella stessa guaina tombale dell’idolo bronzeo e prigioniero delle stesse sette spire. Intorno a lui sono nove stille di sangue rappreso o nove lacrime. Dunque un’enneade distribuita in cinque grumi, a destra, simili ad altrettanti cuori e altri quattro, a sinistra, simili ad altrettanti fegati. L’enneade è a sua volta sigillata da due squadre disposte a chiusura su entrambi i lati. In alto, alla sinistra del Dio immolato, è una mano mancina aperta nel segno dell’arresto. Alla sua destra è un’asta appuntita paragonabile a quella in legno di corniolo scagliata, sotto insegne celesti e in territorio nemico allo scopo d’impossessarsi di uno spazio per accamparsi – come dice Marco Terenzio Varrone – dai Fetiali romani nel rito che precede il bellum iustum, la giusta guerra. Ma l’asta di quella gemma ci avvicina anche al nome del più alto iniziato della confraternita siriaca del Gianicolo: quel Doriphorus pater, o portatore d’asta, il quale dedicò agli Dei di Palmira stanziati sul Colle di Giano (e sopra le acque di Furrina) una piccola ara lunisolare a forma di triangolo (di nuovo Ekate) trovata a suo tempo da un presule e donata a un cardinale che ne ricavò un candelabro, simbolo moderno del focolare (Focus-Larum).
A questo punto forse mi chiederai, Lucio, se questo Tutto è stato ucciso. No, Lucio, il grande Pan è vivo, l’idolo ha infatti gli occhi aperti, le anime nere devono costringerlo ma non possono ucciderlo, giacché non potrebbero vivere e comandare alle ombre se non servendosi della luce. Ma non la posseggono, devono suggerla come coloro che affermano di continuare ancora oggi il culto del Sole solstiziale nella forma nuova della loro superstizione; e invece sono cavallette funeste.
Ora respira profondamente, mio Lucio, e lascia sedimentare quanto ascoltasti. Ma non dimenticare che nella nostra narrazione c’è ancora qualcosa da dire intorno a Giano Consivio e al suo Gemello Quirino.
Lucio – Il mio respiro risuona come un mantice che si riempie di aere per poi espellere la cenere superflua. Le mie orecchie ronzano come api intorno al miele del Monte Ida. La mia attenzione è vigile. E tuttavia, Pomponio, non saprei cosa aggiungere, se non che Giano/Conso accresce la stirpe e Giano/Quirino ne sorveglia in armi la quiete ubertosa.
Pomponio – Dici bene, Lucio. Ma ascolta, cosa dicono i gerofanti “bene alunnati”: “Ei sepper che ’l premoso Divo Conso,/ Cui dava il nome a Consoli, e al Consiglio,/ Oltre non Rea dell’Apollo intonso”, cioè mai tonso e dunque, se si va oltre la lettera, mai sbarbato in quanto imberbe. E allo stesso tempo Quirino non è altro che Marte tranquillo, pronto a balenare in difesa del seme che sta per germogliare nella terra. Ma cos’è questo germoglio? E di quale terra stiamo parlando? Fa’ attenzione, Lucio: Conso è Gravidus, ricolmo di un fiore che frutterà, mentre Quirino è Gradìvus, cioè giunto a poter muovere battaglia. Gravidus e Gradìvus. Le lettere sono le stesse e medesima è la loro cifra di potenza. Sicché?
Lucio – Sicché duplice è l’aspetto, prima adolescente e poi maturo, ma unico l’animo.
Pomponio – Bravo, Lucio, è così. Sei quindi pronto a comprendere il senso iniziatico di Giano bifronte quando si manifesta con il doppio volto imberbe e barbato, il senso di colui che guida i giovani lupi dell’Urbe (Luperci) dalla selvaticità giovanile all’ingresso nelle Curie, da cui Co-vir-inus, dunque Quirino. I dintorni di Roma, ma anche il Palatino, sono stati sapientemente punteggiati da queste Erme Bifronti come segnacoli di una via iniziatica che muove dal Lago di Nemi sacro a Diana Aricina, sorella Triforme del Vulcano Albano sacro a Ve(d)iovis. Comprendi, Lucio?
Lucio – Comprendo. Ma al riguardo Mnemosine mi induce a richiamare in me un particolare appreso da studi trascorsi. Per quale ragione allora, Pomponio, se non in virtù di una qualche parentela con il nostro Dio, la Vergine Nemorense accolse presso di sé l’anima del giovanissimo Ippolito e la rinovellò con il nome di Virbio, cioè Vir-Bis?
Pomponio – Che Mnemosine goda delle tue offerte, Lucio, perché si affaccia in te tempestiva e generosa a ricordarci che un’ulteriore figura è degna di comparire nell’elenco appena fatto e che va da Bacco Latino al Padre Giulio Cesare. Ed è proprio quella di Ippolito, figlio di Teseo e figliastro di Fedra, vittima di una maledizione paterna dovuta alla falsità d’una matrigna incestuosa respinta e suicida. Rammenterai, Lucio, come perì lo sfortunato Ippolito.
Lucio – Smembrato dai cavalli del suo carro allucinati dalla visione del mostro marino evocato da Teseo per punire la presunta violenza inflitta da Ippolito alla matrigna.
Pomponio – Da qui l’interdizione del Lucus Nemorensis ai cavalli stabilito dalla sorella di Apollo. Gli stessi cavalli che citammo prima a proposito di Cartagine: quello il cui cranio è stato sepolto ritualmente sotto l’Acropoli e quello che nella fondazione della città fenicia è stato aggiogato alla parte dell’aratro compresa nel suolo interno del solco primigenio, il primo suolo della città.
Ora, Lucio, considera questo, che grazie a Diana Ippolito morto transita sotto la volta del doppio cancello di (D)Ianus e rivive nella veste di Vir-bi(o)s, cioè di vita duplicata, giunta a maturazione. In questo passaggio è compreso nella sua interezza il mistero che faceva di Giano il Dio delle “cose prime” (fra gli eroi simboleggiate da Ascanio) e la condizione affinché “le cose somme” (Ascanio divenuto Iulo) giungessero a Giove Ottimo Massimo. Ma cos’altro è, un Vir, se non un cittadino pronto alla pugna sospinto dal vento rapace fuoriuscito dalle porte spalancate del tempio di Giano?
Detto questo, qui e ora, mio Lucio, sei forse in grado di descrivermi l’ultimo tratto della tua salita sul Gianicolo.
Lucio – Mi basteranno poche parole, Pomponio, per dirti della mia visita al sacrario della Repubblica Romana, il monumento costruito negli anni Trenta del secolo scorso per ospitare le reliquie di Goffredo Mameli e degli altri legionari che difesero Roma nel 1849 dell’èra volgare. Marmo bianco, bronzo romano sotto forma di lupi, quelli delle navi di Nemi, un’ara enorme al centro, archi classici e iscrizioni trionfali: “Roma o morte”. Dopodiché sono giunto fino alla sommità del colle, dove fra le erme maltrattate degli eroi risorgimentali s’erge maestosa la statua equestre di Giuseppe Garibaldi, liberatore e duce romano. Lì, Pomponio, la vista ciclopica del Gianicolo suggerisce pensieri marziali.
Pomponio – Ci siamo, Lucio. Siamo giunti all’ultimo secreto, quello delle anime di fuoco incarnate per restaurare l’Unità della stirpe sotto i Colli fatali di Roma. Garibaldi era certamente fra costoro. Così egli s’immaginava di fronte alla donna che simboleggiava l’Urbe nostra: “I suoi occhi avevan lampeggiato un solo istante nei miei ma quel lampo si era indelebilmente trasfuso ed impresso nel mio cuore. Io non potei più dimenticare quella sua fisionomia che ricordava gli eroi Romani scolpiti nell’anima mia, oh! Lo riconoscerò ben io se lo rivedo, dicea tra me, fosse egli romano! Se è romano dev’essere della schiatta dei quiriti, del mio popolo ideale, del mio culto!”.
Alzati in piedi, Lucio, sta parlando Roma. Ti racconta di Giano Quirino che sull’erta del suo Colle accolse una pugna d’amore e di gloria contro l’invasore del momento; accolse i quiriti garibaldini, l’eco marmareggiante delle legioni e il baluginio delle loro insegne romane. Il vate Carducci ne scrisse così: “La difesa di Roma per il valore e la magnanimità di cui diede prova il latin sangue gentile pare un grande episodio dei poemi di Virgilio e Tasso”. Sangue latino, Lucio, sangue gentile che un giorno avrebbe ispirato a Garibaldi un mesto distico autobiografico: “Illustre Colle del Gianicol/ l’onta tuttora passeggia alle tue falde!”.
Lucio – La sorte avversa, il Gianicolo perduto.
Pomponio – Ma ecco, Lucio, ecco riaprirsi le sacre porte. Ecco Enea e Iulo, Romolo e Furio Camillo, Scipione maggiore e la sua gens, Caio Mario, Lucio Cornelio Silla, Caio Giulio Cesare, Pompeo Magno, Ottaviano Augusto e Vipsanio Agrippa, Marcio Ulpio Traiano e Lucio Domizio Aureliano, Marco Aurelio Valerio detto Massenzio.
E con loro, nel corso degli evi, Federico II di Svevia, Giovanni Dalle Bande Nere, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Stefano Porcari e il mio Callimaco Esperiente, il Geronta Bocchini e i veri Re della famiglia Savoia, fino al nostro Giuseppe Garibaldi, al maresciallo Diaz, a Gabriele D’Annunzio, a Italo Balbo e ai suoi contemporanei.
Ecco gli eroi incliti mentre irrompono assieme dal tempio di Giano come faville corruscanti per incenerire le spire del serpente e liberare dall’onta, alle falde del Gianicolo, la forza nostra vittoriosa.
Lucio – Vedo, Pomponio. Ora vedo.
Pomponio – Ma ora pace, la Notte sta per aggiogare i cavalli al suo carro, giunge il termine dei nostri conversari, ti saluto Lucio. Vale felikissime.
Lucio – Vale.
(Nelle immagini: Statua votiva in bronzo di Culsans, il Giano etrusco (Cortona). Erma gianiforme barbata e imberbe. Idolo del santuario siriaco. Il mausoleo della Repubblica Romana, costruito alla fine degli anni Trenta e inaugurato nel 1941. Disegno dell’altarino ecateo di Pergamo)

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