La statua di Costantino posta dentro il pronao della basilica lateranense. Costantino l'artefice del culto cristiano nella ROMA Imperiale.
1700esimo anniversario della battaglia di Ponte Milvio. La rivincita di Massenzio
di Moreno Neri
Quando Costantino entrò a Roma il 29 ottobre 312, dopo il suo famoso e presunto sogno di due notti prima della croce affiancata dalla scritta in hoc signo vinces (che avrebbe finito per rappresentare il miracoloso trionfo del cristianesimo sulla paganità), senza dubbio entrava in un territorio nemico, dove chi vi abitava non sapeva quello che ai loro discendenti sarebbe aspettato. Negli ultimi sei anni l’Urbe era stata governata da Massenzio, cognato e collega imperiale di Costantino.
L’avvento della nuova religione monoteista coincise con un altro cospicuo cambiamento: l’abbandono di Roma come regolare residenza dell’Imperatore. Nel secolo seguente, tra la disfatta di Massenzio nel 312 e il sacco di Roma condotto dai Visigoti di Alarico nel 410, solo per una manciata di tempo – circa due anni – fu presente un Imperatore a Roma: un’assenza che avrà notevoli implicazioni politiche, sociali e culturali.
Massenzio aveva, all’opposto, fondato la sua politica sulle più arcaiche tradizioni di Roma e sul ripristino della sua grandezza e dei suoi dèi. Campione e protettore dell’Urbe (conservator urbis suae), il suo richiamo all’orgoglio di Roma preannunciava il ritorno dell’Urbe al legittimo e tradizionale posto come centro dell’Impero. La sua politica della Romanitas fu fisicamente enunciata dal suo vasto programma edilizio del centro della città, dalla Basilica al Tempio di Venere e di Roma, alla statua di Marte con Romolo e Remo nel Foro, alla sua stessa monetazione, solo per fare alcuni esempi. La sua missione era di far ritornare Roma la vera capitale imperiale intorno alla persona di un Imperatore residente. Così non doveva essere. Il 28 ottobre 312, il trentanovenne Imperatore di Roma fu sconfitto al Ponte Milvio, a pochi chilometri dalle mura della sua città che aveva contribuito a ricostruire, uscendo da esse perché preferì scontrarsi direttamente con Costantino. Dopo la rotta della sua armata, mentre si ritirava con i suoi pretoriani verso Roma un ponte di barche apprestato sul Tevere (l’attuale Ponte Milvio) cedette; a causa della sua pesante armatura Massenzio annegò con centinaia dei suoi seguaci; il suo corpo fu recuperato e decapitato, la sua testa fu infissa in una picca e portata il giorno dopo in parata per le vie della città.
La memoria di Massenzio fu demolita dall’immediata propaganda costantiniana. Massenzio sarà demonizzato come un tiranno con tutti i suoi stereotipi negativi (rapacità, avarizia, crudeltà, stravaganza, superstizione, lussuria). Invece di essere associato alla figura di Romolo al quale era specialmente devoto, verrà dipinto come un nuovo Tarquinio il Superbo. Eusebio di Cesarea, che nella sua biografia di Costantino ricorda il suo trionfo nel segno di Cristo, nella sua Storia Ecclesiastica paragona la disfatta dell’esercito di Massenzio e il suo annegamento nel Tevere all’apertura delle acque nel Mar Rosso e all’abbattimento del Faraone e dei suoi carri, con ciò suggerendo che non solo Costantino era un nuovo Mosè, ma anche che la sua vittoria era prefigurata dalla Bibbia. Se Massenzio divenne “il tiranno”, per analogia Costantino fu “il liberatore” (liberator urbis) e “restauratore dell’Urbe” (usurpando per appropriazione molti degli edifici costruiti o iniziati a costruire da Massenzio). La storia, con la sua immancabile ironia, seppe poi dimostrare quale liberazione Costantino portò a Roma. Come scrive l’amica Silvia Ronchey: «Costantino traslocava l’impero romano sul Bosforo, spostandone il baricentro a Est, in quel ciclico slittare degli equilibri e riassestarsi del peso da Oriente a Occidente e viceversa che scandisce come un pendolo tutta la nostra storia, nell’onda lunga della nascita e morte degli imperi, del separarsi e rifondersi delle civiltà.» (S. Ronchey, “Costantino, nel segno della Realpolitik”, in La Stampa, mercoledì 24 ottobre 2012).
La vittoria di Costantino avrebbe messo in moto i processi che fecero del cristianesimo la religione di stato dell’Impero Romano e che in seguito portarono a una Chiesa Cattolica Romana e a una Greco Ortodossa e, soprattutto, all’identificazione, in larga misura, della storia della cristianità occidentale con la storia moderna.
Se avesse vinto Massenzio Costantinopoli non sarebbe mai venuta alla luce e neanche l’Impero Bizantino sarebbe mai esistito. In questa possibile storia alternativa o ucronia, oggi esisterebbero centinaia di sette cristiane che non sarebbero state perseguitate e impedite di esistere dopo il Concilio di Nicea. Massenzio non fu mai anticristiano e, allo stesso modo del generoso imperatore Giuliano, avrebbe certamente tollerato i cristiani, così come aveva fatto a Roma sotto il suo regno, e, tuttavia, il culto di Mitra, una gnosi spirituale militare, avrebbe mantenuto la sua importanza. La storia del mondo occidentale (e dell’Europa) –e del lungo monopolio del cristianesimo sulla modernità – sarebbe stata molto diversa.
Quello che invece è probabile e anzi è certo, come ci ha sinteticamente spiegato Silvia Ronchey nel menzionato articolo, è che quella di Costantino, se di conversione si trattò, fu dettata da motivi di opportunismo politico, da Realpolitiker. Ma il problema più grave fu un altro e lo osservava il ghibellino Dante in una sua invettiva: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! (Inferno XIX, vv. 115-117). Nell’inarrestabile pendolo della storia vera, bisognava attendere il declino e la successiva caduta di Costantinopoli, perché Lorenzo Valla nel 1440 dimostrasse che la donazione di Costantino al Papa di Roma, non volendo mantenere la sede imperiale là dove risiedeva il successore di Pietro, era «falsa ma ritenuta a torto vera», denunciando l’illegittimità del potere temporale del Papato basato su un documento apocrifo; e ciò con un rigoroso esame filologico, partendo dal banalissimo errore della menzione di Costantinopoli che non era ancora stata fondata. Su di essa, come ci ha ricordato Silvia Ronchey, «si basò per tutto il Medioevo, e si basa ancora, quell’anomalia della politica globale che ancora condiziona la nostra politica attuale: il costituirsi in Stato della Chiesa d’Occidente». Il falso documento era inoltre, con tutta evidenza, fortemente antibizantino, perché impediva agli unici e veri eredi di Roma ogni possibilità di rivendicazione.
Se tutti ricordano il sogno di Costantino alla vigilia della Battaglia di Ponte Milvio, a causa della damnatio memoriae di Massenzio e della sua infelice sorte, pochi sanno che, secondo il racconto derivato dalla tradizione, Massenzio, prima della decisiva battaglia, consultò i Libri Sibillini e da essi ricevette questo responso: che nel giorno dell’anniversario della sua ascesa a imperatore (il 28 ottobre ricorreva il sesto) «il nemico di Roma sarebbe stato sconfitto».
Si ha il presentimento che il prossimo passaggio di quel vichiano pendolo della storia, cui allude la Ronchey, paia volgere irrevocabilmente alla rivincita di Massenzio e a nuovi modi di stare nel mondo, non dissimili da quelli degli antichi gentili e al loro rapporto con il sacro, che mai è consistito nell’alterare la realtà con la scusa di un disegno superiore solo a qualcuno rivelato. Il 28 ottobre dei Sibillini è quel giorno che, in modo impressionante, nel 1903 vaticinava d’Annunzio con la scomparsa non solo del segno «vincitore» ma preconizzando anche lo sfratto della Madonna a favore della Venere di cui, insieme a Roma, Massenzio ristabiliva il grandioso Tempio: e la croce del Galileo / di rosse chiome gittata / sarà nelle oscure favisse / del Campidoglio, e finito / nel mondo il suo regno per sempre. / E quella sua vergine madre, / vestita di cupa doglianza, / solcata di lacrime il volto, / trafitta il cuore da spade / immote con l’else deserte, / si dissolverà come nube / innanzi alla Dea ritornante / dal florido mare onde nacque / pura come il fiore salino / portata dai zefiri carchi / di pòlline e di melodia / là dove l’antico suo figlio / approdò coi fati di Roma e disse: “Qui è la patria.” (Gabriele d’Annunzio, Maia - Laus vitae, vv. 8249-8267).
Ma questa è un’altra ucronia: il 28 ottobre del 1922 d’Annunzio era già stato liquidato e messo da parte ed è per questo che ci tocca attendere un altro 28 ottobre per la riscossa di Massenzio. Che non sarà un’ucronia, ma una profezia in attesa della proiezione di un tempo «altro». Ché sempre più persone stanno seguendo l’invito di Arturo Reghini, nell’articolo significativamente intitolato «L’universalità romana e quella cattolica» pubblicato in Vita italiana nell’agosto-settembre 1924, a seguire il consiglio dato da Guénon di ricostituire nel nostro paese la gerarchia spirituale per mezzo di quella orientale. Quanto alla Chiesa Cattolica, come dichiarava Reghini, «se veramente ha fede nella propria superiorità, può imporsi colle proprie forze spirituali, senza ricorrere ad espedienti ed ai puntelli dello Stato. L’universalità romana trattava alla pari tutte le religioni, nessuna di esse era dominante sopra altre appena tollerate. Gli imperialisti comincino dall’essere romani in questo. E con un regime di privilegio, di arbitrio e di persecuzione non si renda ancora più penosa e più difficile di quanto non sia già l’opera della ricostituzione della sapienza spirituale in Occidente a coloro che, per lo meno, dimostrano di avere coscienza della esistenza di questo problema e di conoscere i termini in cui va impostato».
Quello che è certo è che la riscossa di Massenzio non dovrà mai realizzarsi nei termini contabili della rappresaglia e del risarcimento, ma per una necessità fatale della piena riemersione – seppure in termini riadattati – della «cultura» filosofica greca e di quella giuridica romana che in questi secoli sono state l’unico argine alle pulsioni autoritarie delle strutture ecclesiastiche e al loro esercizio del potere. «Sia pertanto ai filosofi perfetti questa necessità di prendersi cura dello Stato … lo Stato descritto ci fu, c’è e ci sarà ogni volta che questa Musa della filosofia abbia la signoria della città. Infatti, né è impossibile che ciò accada e nemmeno affermiamo cose impossibili; ammettiamo, però, che non è cosa facile da realizzare» (Platone, Repubblica, VI 499 C-D).
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