mercoledì 28 novembre 2012
Anima Mundi
Anima mundi
di Eduardo Zarelli - 04/05/2011
Fonte: Arianna Editrice
I luoghi hanno un’anima, dice Hillman nel suo saggio L’anima dei
luoghi. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per
la persona umana. Un tempo, nell’antichità, le potenze apparivano in
luoghi specifici: sotto un albero, presso una sorgente, un pozzo, su
una montagna, in un pianoro, all’ingresso della tana di un serpente.
Gli uomini circondavano il luogo di pietre: per proteggere la sua
interiorità. Nascevano i templi; consacrati a queste divinità: gli
Àuguri ritualizzando il Genius loci fondavano le città.
Oggi, il funzionalismo razionalistico cela l’interiorità dei luoghi.
Vediamo ciò che appare, le facciate dei palazzi, il manto urbano, i
campi pianificati a giardino o monocoltura e dimentichiamo che là
sotto c’è una topografia dinamica, interiore, fatta di sentimenti e
memorie, figure e forze, fantasie e pensieri. Prendiamo un paese
meridionale, le mura bianche riverberano di luce solare e i portoni
ostinatamente chiusi nascondono all’indiscreto le preziose atmosfere
intimistiche dell’urbanità siciliana. «La facciata - scrive Hillman -
non è niente di speciale, ma dietro si trova il cortile, il giardino
protetto da alti muri, la piccola fontana». Quello è il dentro del
luogo.
Le culture tradizionali erano animate da un’interpretazione sacrale
del territorio. Ogni angolo di terra del Pianeta presenta una propria
manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano
lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità
contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha
descritto compiutamente come le culture sciamaniche si basassero sulla
consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da
luogo a luogo. Carlos Castaneda, riportando le parole dell’uomo di
medicina della tribù amerindia degli Hopi, Don Juan, parlava
dell’esistenza di “luoghi di potere”, dove è possibile esercitare la
“seconda attenzione”, o percezione sottile, il telema mercuriale.
Rispettare un "territorio", proteggendolo ecologicamente
invece di
distruggerlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere,
di sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi.
Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo
e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo
indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che
l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in
cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere
umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione
dell’essere, poneva il “senso del limite” comunitario del vivere
associato, in assoluta simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia
in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi,
culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si
poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura
involontariamente ecologica delle forme di civiltà.
In un’epoca nella quale domina l’artificio e la superficialità, basata
sull’inganno patinato in modo che l’occhio non possa scorgere la
profondità, il cammino filosofico dell’oltrepassamento postmoderno
consiste nello smascherare l’inganno della banalizzazione
utilitaristica: per spingerci dentro le cose, per discernere la
manifestazione dell’essere nella narcotica nauseante ridondanza
dell’edonismo consumista. E conoscere quello che il daimon del luogo
ci dice: a cominciare dalle sue ferite che non possono, non devono,
essere cancellate dal tempo. L’architettura può aiutarci nell’aderire
all’identità profonda tra cultura e natura: ascoltando l’anima del
luogo, facendo in se stessa un vuoto ricettivo, non sovrapponendo la
sua razionalità strumentale, le sue intenzioni soggettive,
all’autenticità del luogo, all’oggettività cosmogonica. Che parla da
sé. La natura indica perentoriamente, il senso del limite, la
sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la
meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato
delle metropoli e l’insignificanza dei suoi (non) luoghi, l’anestetico
arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione
della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della
perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e
di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima
in tutte le sue manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman -
può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un
lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Solo l’amore per
l’ineffabile può ricomporre l’unità interiore tra uomo e natura.
Quasi tutto, del resto, è nascosto: la profondità contempla distanze
che la nostra mente neppure immagina. E conduce al mondo infero.
Questo è il mondo dei sogni. Freud e Jung - sostiene Hillman ne Il
sogno e il mondo infero - pensarono di strappare l’anima da questo suo
amplesso col mondo notturno e di poter interpretare i sogni col
linguaggio della veglia.
Volevano spingere i sogni verso la luce del giorno. Vedevano nei sogni
le spiegazioni della vita diurna e dei suoi “incubi” consci, il
completamento archetipico della personalità, l’appagamento
dell’istinto sessuale, le premonizioni, i «residui» della vita
quotidiana. Noi dobbiamo fare l’esatto contrario: come l’architetto è
opportuno che ascolti la «voce» del luogo e non sovrapponga a codesta
voce la sua mente, così sarà opportuno ascoltare la «voce» del sogno.
E abbandonare la luce apparentemente chiarificatrice del giorno. I
sogni, scrive Hillman con un’immagine wagneriana seducente, «sono
opera di gnomi che lavorano la notte, fabbri del mondo infero che
forgiano labirinti, artigiani che non smettono mai di creare forme».
Sovente, queste forme sono ambigue, indecifrabili, oscure. Se vogliamo
entrare in profondità in un sogno, dobbiamo abbandonare il linguaggio
del mondo diurno e penetrare nel sogno, avendo come unica guida la
luce della notte. In questa dimora, tutto ciò che sappiamo della vita
non serve. Qui, le pulsioni sono assai più profonde di quelle della
carne e del sangue; l’istinto che ci sospinge all’interno della nostra
ombra è assai più rapinoso dell’istinto della conservazione, o del
mistero del sesso, ridotto a cupidigia sensistica. È l’istinto della
morte. Ma non della morte fisica: quello è, appunto, un concetto
diurno. È l’istinto della morte come attrazione verso il totalmente
inconoscibile, il totalmente oscuro, che per eterogenesi ci apre le
strade alla conoscenza ulteriore ai dualismi tra soggetto e oggetto,
spirito e materia, vita e morte. La missione di Cristo nel mondo
infero - scrive Hillman - consistette nell’oltrepassarlo con la sua
resurrezione, con la vittoria sopra la morte. Ogni religiosità fondata
sulle radici eterne del sacro propone una resurrezione come
significato ed oltrepassamento della morte. L’oscurità, invece, esige
unilateralismi: s’introduce speculativamente nel profondo dei
significati senza risolverli, rimuovendoli e soggiacendo a quel buio
nel quale stanno ancora acquattate le belve mitologiche - le gorgoni,
le sfingi - con le quali, fin dai tempi più antichi, gli uomini hanno
cercato risposte alle proprie inquietudini esistenziali, nel tentativo
di costruire un mondo rassicurante e opposto, luminoso, un mondo
spiegabile e positivo, moralistico.
È comprensibile che l’uomo da questo buio si ritragga sgomento: che la
vita umana sia una disperata, vana fuga dall’oscurità. E che i sogni,
spesso, facciano paura. Ma non bisogna temere ciò che ci costituisce.
Non esiste giorno senza notte, e viceversa. La totalità è superiore
alla somma funzionale delle singole parti. La forza del simbolo si
radica nella ragione che anela alla conoscenza e non si diminuisce in
protesi analitica e strumentale. Hillman ci ricorda da oltre un
trentennio che gli Dei, defunti nel disincanto contemporaneo,
riaffiorano inquieti nelle nostre patologie psicologiche, culturali e
sociali. La via per ritrovare se stessi transita per il riconoscimento
dell’anima del mondo. Quest’ultima si coglie per empatia, ricomponendo
nell’equilibrio del Sé, introversione ed estroversione, profondità
spirituale e pratica sociale, persona e collettività nel sentire
comune l’identità cosmogonia, simbolica, della comunità.
L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa,
dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo
circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il
senso.
In tale unità differenziale, il mio vivere qui e ora deve ritornare ad
essere consapevole della sua molteplice appartenenza e, quindi,
responsabilità: il mio comportamento responsabile e salvaguardante non
esaurisce la sua azione nel cerchio più prossimo e più visibile, ma
contribuisce all’armonia del tutto.
Quando Thoreau afferma che «nella natura selvaggia sta la
preservazione del mondo», intende affermare che una corretta
disposizione ecologica, e quindi la possibilità di salvaguardare sia
noi sia la natura, sta nel lasciare ciò che è altro da sé nella sua
alterità, sottraendosi alla tendenza ad assimilarlo con la forza
dell’azione o del discorso. L’abbandono di ogni volontà
assimilazionistica riconosce e rispetta la diversità delle identità.
In quest’approccio ritroviamo composta la drammatica frattura
dualistica tra cultura e natura, che caratterizza il disagio profondo
dell’uomo civilizzato. Il modello scientifico dominante è il prodotto
della considerazione della realtà come “natura morta”, cioè
osservabile dall’esterno con rigore matematico, sperimentabile e
manipolabile all’infinito dal Promèteo tecnologico. Questa
rappresentazione, all’oggi assunta come scontata e irreversibile, è
anch’essa però frutto di una falsificazione ideologica. La visione
contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi
simbolica con la cultura è rintracciabile in millenni di civiltà umana
ed è, a tutt’oggi, fonte inesausta per un paradigma scientifico
olistico. Le implicazioni epistemologiche della rivoluzione
quantistica, che fanno intendere il reale come tessuto di eventi
totalmente interconnessi, in continuo divenire, ribaltando il piano di
lavoro empirico casualistico delle scienze positivistiche, mostrano al
tempo stesso la falsificazione dei modelli di conoscenza dominanti.
Una scienza dei “legami vitali”, che declini il sapere e l’agire nella
coerenza della natura.
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