LE PROCESSIONI RELIGIOSE IN LESSINIA - STORIE " DE SANTI E DE MADONE".
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Le processioni rimangono tuttora un elemento molto importante delle consuetudini religiose della Lessinia. Anticamente talune assumevano carattere di “universalità” in quanto le compivano le parrocchie di un determinato territorio verso una meta determinata, come, per esempio, al Santuario di Madonna di Campagna.
A Campofontana nel giorno di San Marco (25 aprile, primo giorno delle Rogazioni), tutto il paese si recava sopra un dosso del paese, proprio di fronte al Montelongo di San Vitale sventolando le proprie bandiere. Contemporaneamente, sul tale dosso, un’altra processione, proveniente da San Vitale, sventolava festosamente le proprie insegne a ricordo degli antichi patti che le due comunità avevano stipulato nel passato tra di loro.
Nella Lessinia orientale, poi, sono tornate alla luce e con grande fastosità, tre importanti avvenimenti del genere: la processione cosiddetta dell’ “Avóto” di Sprea; la processione tra Campofontana e Durlo, nell’alta Valle del Chiampo; la processione dei “Dolori” di Velo Veronese.
L’“Avóto” di Sprea si celebra l’ultima domenica di luglio; vi partecipano in media un migliaio di fedeli che partono dalla chiesa parrocchiale, dove officiò per tanti anni il famoso parroco don Luigi Zocca, il “Prete de le erbe”, raggiunge il vicino Monte Castéche, su cui viene celebrata una santa Messa all’aperto, presieduta dal vescovo ausiliare di Verona. La manifestazione che ricorda la cessazione della terribile pestilenza del 1600, durante l’ultimo conflitto era stata abbandonata per ovvie ragioni di sicurezza, ed è stata ripresa negli anni Sessanta e da allora è diventata un appuntamento prettamente religioso tra i più partecipati.
Anche la storica processione — che risale al Quattrocento — tra Campofontana e Durlo, nell’alta Valle del Chiampo, ha subito un ridimensionamento: oggi vi si partecipa in automobile seguendo un camioncino che trasporta, come d’uso, le statue in legno di San Giorgio e di San Rocco. Nel passato, invece, esse venivano portate a spalle (San Giorgio pesa oltre 2 quintali) e le due parrocchie distano sette chilometri una dall’altra. La cerimonia si svolgeva in due tempi; nella prima domenica di maggio scendeva la popolazione di Campofontana a Durlo; nella seconda domenica ricambiava la visita la popolazione di Durlo che saliva a Campofontana con i suoi santi protettori a spalle: Santa Margherita e Sant’Antonio Abate.
Una terza processione, che si ripete anch’essa da alcuni anni a questa parte a Velo Veronese nei primi giorni di settembre, è detta la “Processione dei Dolori”, perché ricorda la festività dell’Addolorata, detta anche “Madonna dei Dolori”, di cui a Velo si venera un’immagine in legno che viene portata in processione in tale occasione. Della festa fa menzione nei suoi “Diari” Don Scalmana, parroco di Velo nell’Ottocento. Ma la ricorrenza si porta dietro anche un’altra denominazione, più profana: “Sagra dei fighi”, perché in quei giorni si colgono gli ultimi fichi giù in collina e i fruttivendoli, improvvisati per lo più, li portano a vendere sulle piazze di montagna nei giorni di domenica, quando la gente esce di chiesa dopo la messa.
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Le processioni rimangono tuttora un elemento molto importante delle consuetudini religiose della Lessinia. Anticamente talune assumevano carattere di “universalità” in quanto le compivano le parrocchie di un determinato territorio verso una meta determinata, come, per esempio, al Santuario di Madonna di Campagna.
A Campofontana nel giorno di San Marco (25 aprile, primo giorno delle Rogazioni), tutto il paese si recava sopra un dosso del paese, proprio di fronte al Montelongo di San Vitale sventolando le proprie bandiere. Contemporaneamente, sul tale dosso, un’altra processione, proveniente da San Vitale, sventolava festosamente le proprie insegne a ricordo degli antichi patti che le due comunità avevano stipulato nel passato tra di loro.
Nella Lessinia orientale, poi, sono tornate alla luce e con grande fastosità, tre importanti avvenimenti del genere: la processione cosiddetta dell’ “Avóto” di Sprea; la processione tra Campofontana e Durlo, nell’alta Valle del Chiampo; la processione dei “Dolori” di Velo Veronese.
L’“Avóto” di Sprea si celebra l’ultima domenica di luglio; vi partecipano in media un migliaio di fedeli che partono dalla chiesa parrocchiale, dove officiò per tanti anni il famoso parroco don Luigi Zocca, il “Prete de le erbe”, raggiunge il vicino Monte Castéche, su cui viene celebrata una santa Messa all’aperto, presieduta dal vescovo ausiliare di Verona. La manifestazione che ricorda la cessazione della terribile pestilenza del 1600, durante l’ultimo conflitto era stata abbandonata per ovvie ragioni di sicurezza, ed è stata ripresa negli anni Sessanta e da allora è diventata un appuntamento prettamente religioso tra i più partecipati.
Anche la storica processione — che risale al Quattrocento — tra Campofontana e Durlo, nell’alta Valle del Chiampo, ha subito un ridimensionamento: oggi vi si partecipa in automobile seguendo un camioncino che trasporta, come d’uso, le statue in legno di San Giorgio e di San Rocco. Nel passato, invece, esse venivano portate a spalle (San Giorgio pesa oltre 2 quintali) e le due parrocchie distano sette chilometri una dall’altra. La cerimonia si svolgeva in due tempi; nella prima domenica di maggio scendeva la popolazione di Campofontana a Durlo; nella seconda domenica ricambiava la visita la popolazione di Durlo che saliva a Campofontana con i suoi santi protettori a spalle: Santa Margherita e Sant’Antonio Abate.
Una terza processione, che si ripete anch’essa da alcuni anni a questa parte a Velo Veronese nei primi giorni di settembre, è detta la “Processione dei Dolori”, perché ricorda la festività dell’Addolorata, detta anche “Madonna dei Dolori”, di cui a Velo si venera un’immagine in legno che viene portata in processione in tale occasione. Della festa fa menzione nei suoi “Diari” Don Scalmana, parroco di Velo nell’Ottocento. Ma la ricorrenza si porta dietro anche un’altra denominazione, più profana: “Sagra dei fighi”, perché in quei giorni si colgono gli ultimi fichi giù in collina e i fruttivendoli, improvvisati per lo più, li portano a vendere sulle piazze di montagna nei giorni di domenica, quando la gente esce di chiesa dopo la messa.
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I SANTI IN LESSINIA -
Andando in Lessinia, soprattutto in quella centro-orientale, si potranno vedere qua e là, lungo le strade o nei pressi di contrade, dei pilastrini di pietra, alti circa un metro, di fattura molto semplice, formati da una colonna a parallelepipedo rettangolare, con incisa una grande croce in bassorilievo, e sormontata da un capitello a forma di pentagono irregolare, pure quello scolpito a bassorilievo, le cui figure effigiano generalmente la Madonna e il Bambino, ma quelle più antiche, del Cinquecento, riportano talora anche altre figure quali San Valentino, San Rocco, San Sebastiano.
Anche i vari oratori che si trovano nelle contrade sono dedicati ad un numero piuttosto ridotto di santi , oltre a quelli sopraddetti possiamo aggiungere: Sant’Antonio Abate, San Bovo, San Leonardo, San Carlo Borromeo, in misura minore San Francesco e San Giorgio.
La popolarità di questi santi era legata al fatto che intervenivano in modo molto concreto nelle “faccende” degli uomini che erano semplicemente: la salute, il cibo, il bestiame: erano i sancti adiutores.
Vediamone alcuni in una breve panoramica.
Il due gennaio, nelle nostre comunità montanare, ma anche della pianura, si celebrava la ricorrenza di san Bovo, un santo della cui vita si conosce poco o niente, ma, in compenso, c’è una copiosa tradizione orale che ne illustra e magnifica le prodigiose opere compiute. Intorno al Mille, recandosi a Roma in pellegrinaggio, si ammalò a Voghera e ivi morì. Nella stessa città, più tardi, morì un altro santo importante per le nostre montagne: San Rocco. Bovo fu sepolto fuori delle mura del castello, ma il tempo e le guerre cancellarono le tracce della sua tomba. Lo fecero conoscere, però, i numerosi miracoli, tanto che il misterioso pellegrino fu identificato col nome di Bovo e fu destinato alla protezione dei bovini.
In Lessinia, meglio e più efficacemente che in pianura, lo venerava come il santo degli animali per eccellenza, ma anche dei vacàri. Infatti l’iconografia lo raffigura come un robusto cavaliere romano con un bue accanto. Era talmente diffusa la sua venerazione che i Cimbri assicuravano che durante la notte che precede la sua ricorrenza gli animali conversavano tra loro. Quindi era proibito, quella notte, come pure durante la notte di Natale, andar nella stalla a far filò.
Un proverbio così contrassegna l’evolversi del tempo in gennaio: El giorno de San Bovo / i giorni jè slongadi un passo de lovo / a Sant’Antonio / on passo de demonio / a San Bastian te gh’è un’ora in man / da la Candelora i giorni s’e gà slongadi de un’ora ... e dell’inverno semo fora.
Sant’Antonio abate da sempre è stato venerato, sia in montagna che in pianura, come il santo protettore della salute degli animali domestici. Le figurazioni lo rappresentano contornato da bovini, maiali, capre, pecore, animali da cortile: cioè le bestie che costituivano il patrimonio delle popolazioni montanare e contadine. Ma il maiale, in particolar modo, costituisce l’elemento agiografico più interessante della vita del santo eremita e viene sempre riprodotto ai suoi piedi.
La tradizione popolare lo identifica come rimedio contro il Fogo de Sant’Antonio, l’herpes zoster: infatti i malati bagnavano col grasso del maiale la parte colpita. Per dire quanto fosse tenuto in considerazione il maiale in passato, i frati agostiniani godevano addirittura del diritto di lasciar pascolare i porci della loro stalla anche nelle strade urbane.
Ci sono vari proverbi sulla figura e l’opera del santo abate: per esempio «Sant’Antonio il diciassette / che le stalle in festa mette / mette in festa anche il pollaio / nel rigore del gennaio». Come abbiamo scritto più sopra, il diciassette gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, nei nostri paesi di montagna vigeva l’usanza di andare alla messa portando con sé un sacchettino o un cartoccio con del sale rosso da far benedire e poi somministrare nei cibi agli animali.
Scrive Dino Coltro: «Non c’è paese che non abbia almeno un capitello dedicato a San Rocco, eretto in funzione apotropaica, cioè a difesa delle malattie epidemiche, in particolare della peste. In questa funzione ausiliatrice il Santo ha sostituito San Sebastiano; ma in qualche capitello, soprattutto nelle “colonnette” della Lessinia si vedono ancora i due santi insieme alla Madonna, conforme ad una tradizione che viene dai paesi nordici».
La devozione per San Rocco nacque nel Quattrocento e si diffuse rapidamente a seguito soprattutto di terribili epidemie che colpirono le popolazioni, anche quelle delle nostre montagne.
Per esempio: l’epidemia di colera che il Manzoni descrisse nel suo romanzo dei “I Promessi sposi”, nella nostra Lessinia, stando alle informazioni che ci offrono i verbali delle visite pastorali del 1615 e del 1634, cioè quelle effettuate prima e dopo il colera, dimostrano che anche le popolazioni delle montagne furono terribilmente decimate: un 30 per cento di vittime.
Il culto del santo di Montpellier si estese dal Vicentino a tutta la regione e le devozioni si moltiplicarono con costruzione di oratori e capitelli. Si può, anzi dire, che non ci sia chiesa della Lessinia in cui non si trovi la sua immagine. Come detto sopra, le “colonnette” lo raffiguravano a lato della Vergine col Bambino, mentre, dall’altra parte, talora era riprodotto San Sebastiano.
Se andiamo a rivedere i verbali delle visite pastorali dei vescovi veronesi alle parrocchie della Lessinia, così tanto per far della cronaca, a partire da quelle del Quattrocento in avanti, troveremo registrata la presenza di almeno un altare dedicato a San Rocco in tutte le chiese, senza contare addirittura le parrocchie intitolate a questo santo, come San Rocco di Piegara e San Rocco di Sprea, ma anche di Campofontana, la quale ha voluto cointitolarla dopo la peste del Seicento.
Tra le costruzioni sacre che gli sono dedicate, le più importanti, soprattutto sotto l’aspetto artistico sono: San Rocco del Garzon a sud di Velo Veronese, e San Rocco degli Scali a nord di Bosco Chiesanuova.
Per andar in contrada Garzon di Velo bisogna salire lungo la dorsale per San Mauro di Saline e Velo Veronese; al crocevia per contrada Comerlati, si gira a sinistra e si scende lungo questa strada fino a Prasecche, Vanti, Fondi e Garzon di Sotto.
L’oratorio di Garzon di Sotto, di stile gotico, è datato 1576 in una lapide esterna; poi, ovviamente è stato ristrutturato o addirittura costruito ex novo. L’interno è piuttosto spoglio ma lo caratterizzano alcuni splendidi affreschi e la pala dell’altare che raffigurano San Sebastiano, San Rocco, Sant’Antonio Abate e San Giovanni Battista e al centro la Vergine col Bambino.
Anche San Sebastiano, come detto sopra, era spesso effigiato nelle colonnette. Il soldato romano martirizzato sotto il tiro delle frecce, fece breccia sulla pietà delle popolazioni, e fu invocato come protettore contro le malattie, in modo speciale contro la peste. Egli sarebbe stato invocato come adiutor contro questa malattia, perché nel 680 a Roma scoppiò una terribile forma di epidemia che scomparve solo quando si ricorse alla sua intercessione.
La popolazione era molto devota anche a San Valentino, la cui festa cade il 14 febbraio, perché era l’unico santo che poteva combattere il “mal caduto”, l’epilessia. Uno dei rimedi popolari di un certo potere taumaturgico era conosciuto come “La ciave de San Valentin”, una “trovata” ironica e anomala che una volta veniva eseguita nella chiesa di Castagnaro (Verona) per malati di epilessia. Lo troviamo raffigurato nelle tavolette della scultura popolare della Lessinia con la mitra da vescovo in capo; qualche scultore del nostro tempo l’ha raffigurato insieme con la Madonna, facendolo diventare così un “San Giuseppe”…vescovo. A parte questa forzatura, se i montanari lo hanno voluto nella loro iconografia scultorea, è perché ne avevano un buon motivo: anche lui era un santo adiutore contro le malattie del bestiame con il compito di salvaguardare e proteggere il bestiame dalle malattie infettive. E a lui, nelle chiese della Lessinia, nel passato, sono stati dedicati molti altari e addirittura un paese: San Valentino di Pernigo (San Mauro).
Non possiamo chiudere senza citare anche San Leonardo, che si venera tuttora a San Moro di San Mauro di Saline. Come abbiamo raccontato nel capitolo riguardante la chiesa di San Moro, durante i lavori di restauro della celebre abbazia sono venuti alla luce degli anelli attaccati ai muri di accesso alla basilica. La tradizione orale vuole che ad essi venissero attaccati i buoi durante le feste che si celebravano in onore del santo. Pertanto se venivano condotti animali all’abbazia, vuol dire che al di là del mercato che si teneva, il santo aveva anche questa facoltà: proteggere gli animali della stalla.
Anche i vari oratori che si trovano nelle contrade sono dedicati ad un numero piuttosto ridotto di santi , oltre a quelli sopraddetti possiamo aggiungere: Sant’Antonio Abate, San Bovo, San Leonardo, San Carlo Borromeo, in misura minore San Francesco e San Giorgio.
La popolarità di questi santi era legata al fatto che intervenivano in modo molto concreto nelle “faccende” degli uomini che erano semplicemente: la salute, il cibo, il bestiame: erano i sancti adiutores.
Vediamone alcuni in una breve panoramica.
Il due gennaio, nelle nostre comunità montanare, ma anche della pianura, si celebrava la ricorrenza di san Bovo, un santo della cui vita si conosce poco o niente, ma, in compenso, c’è una copiosa tradizione orale che ne illustra e magnifica le prodigiose opere compiute. Intorno al Mille, recandosi a Roma in pellegrinaggio, si ammalò a Voghera e ivi morì. Nella stessa città, più tardi, morì un altro santo importante per le nostre montagne: San Rocco. Bovo fu sepolto fuori delle mura del castello, ma il tempo e le guerre cancellarono le tracce della sua tomba. Lo fecero conoscere, però, i numerosi miracoli, tanto che il misterioso pellegrino fu identificato col nome di Bovo e fu destinato alla protezione dei bovini.
In Lessinia, meglio e più efficacemente che in pianura, lo venerava come il santo degli animali per eccellenza, ma anche dei vacàri. Infatti l’iconografia lo raffigura come un robusto cavaliere romano con un bue accanto. Era talmente diffusa la sua venerazione che i Cimbri assicuravano che durante la notte che precede la sua ricorrenza gli animali conversavano tra loro. Quindi era proibito, quella notte, come pure durante la notte di Natale, andar nella stalla a far filò.
Un proverbio così contrassegna l’evolversi del tempo in gennaio: El giorno de San Bovo / i giorni jè slongadi un passo de lovo / a Sant’Antonio / on passo de demonio / a San Bastian te gh’è un’ora in man / da la Candelora i giorni s’e gà slongadi de un’ora ... e dell’inverno semo fora.
Sant’Antonio abate da sempre è stato venerato, sia in montagna che in pianura, come il santo protettore della salute degli animali domestici. Le figurazioni lo rappresentano contornato da bovini, maiali, capre, pecore, animali da cortile: cioè le bestie che costituivano il patrimonio delle popolazioni montanare e contadine. Ma il maiale, in particolar modo, costituisce l’elemento agiografico più interessante della vita del santo eremita e viene sempre riprodotto ai suoi piedi.
La tradizione popolare lo identifica come rimedio contro il Fogo de Sant’Antonio, l’herpes zoster: infatti i malati bagnavano col grasso del maiale la parte colpita. Per dire quanto fosse tenuto in considerazione il maiale in passato, i frati agostiniani godevano addirittura del diritto di lasciar pascolare i porci della loro stalla anche nelle strade urbane.
Ci sono vari proverbi sulla figura e l’opera del santo abate: per esempio «Sant’Antonio il diciassette / che le stalle in festa mette / mette in festa anche il pollaio / nel rigore del gennaio». Come abbiamo scritto più sopra, il diciassette gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, nei nostri paesi di montagna vigeva l’usanza di andare alla messa portando con sé un sacchettino o un cartoccio con del sale rosso da far benedire e poi somministrare nei cibi agli animali.
Scrive Dino Coltro: «Non c’è paese che non abbia almeno un capitello dedicato a San Rocco, eretto in funzione apotropaica, cioè a difesa delle malattie epidemiche, in particolare della peste. In questa funzione ausiliatrice il Santo ha sostituito San Sebastiano; ma in qualche capitello, soprattutto nelle “colonnette” della Lessinia si vedono ancora i due santi insieme alla Madonna, conforme ad una tradizione che viene dai paesi nordici».
La devozione per San Rocco nacque nel Quattrocento e si diffuse rapidamente a seguito soprattutto di terribili epidemie che colpirono le popolazioni, anche quelle delle nostre montagne.
Per esempio: l’epidemia di colera che il Manzoni descrisse nel suo romanzo dei “I Promessi sposi”, nella nostra Lessinia, stando alle informazioni che ci offrono i verbali delle visite pastorali del 1615 e del 1634, cioè quelle effettuate prima e dopo il colera, dimostrano che anche le popolazioni delle montagne furono terribilmente decimate: un 30 per cento di vittime.
Il culto del santo di Montpellier si estese dal Vicentino a tutta la regione e le devozioni si moltiplicarono con costruzione di oratori e capitelli. Si può, anzi dire, che non ci sia chiesa della Lessinia in cui non si trovi la sua immagine. Come detto sopra, le “colonnette” lo raffiguravano a lato della Vergine col Bambino, mentre, dall’altra parte, talora era riprodotto San Sebastiano.
Se andiamo a rivedere i verbali delle visite pastorali dei vescovi veronesi alle parrocchie della Lessinia, così tanto per far della cronaca, a partire da quelle del Quattrocento in avanti, troveremo registrata la presenza di almeno un altare dedicato a San Rocco in tutte le chiese, senza contare addirittura le parrocchie intitolate a questo santo, come San Rocco di Piegara e San Rocco di Sprea, ma anche di Campofontana, la quale ha voluto cointitolarla dopo la peste del Seicento.
Tra le costruzioni sacre che gli sono dedicate, le più importanti, soprattutto sotto l’aspetto artistico sono: San Rocco del Garzon a sud di Velo Veronese, e San Rocco degli Scali a nord di Bosco Chiesanuova.
Per andar in contrada Garzon di Velo bisogna salire lungo la dorsale per San Mauro di Saline e Velo Veronese; al crocevia per contrada Comerlati, si gira a sinistra e si scende lungo questa strada fino a Prasecche, Vanti, Fondi e Garzon di Sotto.
L’oratorio di Garzon di Sotto, di stile gotico, è datato 1576 in una lapide esterna; poi, ovviamente è stato ristrutturato o addirittura costruito ex novo. L’interno è piuttosto spoglio ma lo caratterizzano alcuni splendidi affreschi e la pala dell’altare che raffigurano San Sebastiano, San Rocco, Sant’Antonio Abate e San Giovanni Battista e al centro la Vergine col Bambino.
Anche San Sebastiano, come detto sopra, era spesso effigiato nelle colonnette. Il soldato romano martirizzato sotto il tiro delle frecce, fece breccia sulla pietà delle popolazioni, e fu invocato come protettore contro le malattie, in modo speciale contro la peste. Egli sarebbe stato invocato come adiutor contro questa malattia, perché nel 680 a Roma scoppiò una terribile forma di epidemia che scomparve solo quando si ricorse alla sua intercessione.
La popolazione era molto devota anche a San Valentino, la cui festa cade il 14 febbraio, perché era l’unico santo che poteva combattere il “mal caduto”, l’epilessia. Uno dei rimedi popolari di un certo potere taumaturgico era conosciuto come “La ciave de San Valentin”, una “trovata” ironica e anomala che una volta veniva eseguita nella chiesa di Castagnaro (Verona) per malati di epilessia. Lo troviamo raffigurato nelle tavolette della scultura popolare della Lessinia con la mitra da vescovo in capo; qualche scultore del nostro tempo l’ha raffigurato insieme con la Madonna, facendolo diventare così un “San Giuseppe”…vescovo. A parte questa forzatura, se i montanari lo hanno voluto nella loro iconografia scultorea, è perché ne avevano un buon motivo: anche lui era un santo adiutore contro le malattie del bestiame con il compito di salvaguardare e proteggere il bestiame dalle malattie infettive. E a lui, nelle chiese della Lessinia, nel passato, sono stati dedicati molti altari e addirittura un paese: San Valentino di Pernigo (San Mauro).
Non possiamo chiudere senza citare anche San Leonardo, che si venera tuttora a San Moro di San Mauro di Saline. Come abbiamo raccontato nel capitolo riguardante la chiesa di San Moro, durante i lavori di restauro della celebre abbazia sono venuti alla luce degli anelli attaccati ai muri di accesso alla basilica. La tradizione orale vuole che ad essi venissero attaccati i buoi durante le feste che si celebravano in onore del santo. Pertanto se venivano condotti animali all’abbazia, vuol dire che al di là del mercato che si teneva, il santo aveva anche questa facoltà: proteggere gli animali della stalla.
Quando vogliamo menzionare un santo, per comodità o per antica abitudine, ci riesce più facile farlo coincidere con la sua provenienza; così, per esempio, diciamo “Sant’Antonio da Padova”, “San Francesco d’Assisi”, “Santa Rita da Cascia”, “San Giorgio di Cappadocia”, “Santa Margherita da Cortona” e via dicendo.
Velo Veronese è forse l’unico centro della Lessinia cimbra che annoveri un suo santo; per restare in tema, lo chiameremo familiarmente “San Fiorenzo da Velo”. E qui qualcuno si domanderà: ma da quando in qua a Velo Veronese c’è un santo? Rivolgiamoci, allora a qualche appunto di storia.
È risaputo che nel Medioevo non erano proprio del tutto fortuiti i casi di spoliazioni, di ruberie di corpi interi o di reliquie piuttosto consistenti di santi che venivano fatte su commissione e dietro pagamento. Esempio classico: la mattina del 23 giugno 1053, ricorda mons. G.P.Pighi, della chiesa di Verona di Santa Maria in Organo, un certo Gotschaldo, del monastero benedettino di Burn in Germania, rubò il corpo di Santa Anastasia, con la complicità del custode, lo infagottò nel pallio dell’altare e fuggì.
Ma Torniamo a Velo. Il vescovo di Verona, Francesco Barbarigo, nel 1700 fece un giro di visite pastorali nelle parrocchie della Lessinia. A Velo si accorse che dietro l’altare maggiore c’era una porticina che custodiva all’interno la sacra reliquia del martire Fiorenzo, conservata in un decoroso reliquiario. Una verifica del contenuto del piccolo sacrario aveva già avuto luogo ancora nel 1687 durante un’altra visita pastorale. La popolazione, quella volta, si rivolse al vescovo chiedendogli il permesso di estrarne, alla presenza dei canonici, un frammento osseo da porre in un reliquiario, da portare durante le processioni, ovviamente chiuso e sigillato e accompagnato da un documento canonico autentico. Ma come sarà arrivato a Velo il corpo del martire?
Illustri studiosi del passato se ne sono interessati per tentare di stabilire l’epoca in cui San Fiorenzo sarebbe vissuto, il luogo, com’è stato martirizzato e altro ancora, ma sono venuti a capo di ben scarse notizie. La tradizione orale, invece, ha trovato quello che la storia e i documenti non sono stati capaci di rintracciare.
Il Cav. Attilio Benetti, che della tradizione orale è stato un fedele riproduttore nei suoi libri, narra che i suoi avi raccontavano a tal proposito; dimostrando così che tante volte, come si sa, quanto viene tramandato arriva provvidenziale a integrare o a completare quello che la storia non era riuscita a determinare con maggiore chiarezza.
La nonna gli raccontava — ma lo dicevano un po’ tutti gli anziani del posto — che nei tempi lontani, gli abitanti di Velo, segretamente, avevano organizzato una spedizione in Germania, proprio nel paese da dove erano partiti i loro progenitori, con il preciso scopo di trafugare i resti mortali del loro santo martire e portarseli a Velo. L’impresa riuscì perfettamente, ma non è dato conoscere quando essa abbia avuto luogo. Si tenta di collocarla nel tardo Trecento o nel primo Quattrocento, quando cioè gli insediamenti teutonici, o “cimbri” che dir si voglia, avevano già radici profonde e radicate e avevano acquisito anche la solidità economica e la sicurezza politica che permise loro di tentare un’impresa del genere.
Velo Veronese è forse l’unico centro della Lessinia cimbra che annoveri un suo santo; per restare in tema, lo chiameremo familiarmente “San Fiorenzo da Velo”. E qui qualcuno si domanderà: ma da quando in qua a Velo Veronese c’è un santo? Rivolgiamoci, allora a qualche appunto di storia.
È risaputo che nel Medioevo non erano proprio del tutto fortuiti i casi di spoliazioni, di ruberie di corpi interi o di reliquie piuttosto consistenti di santi che venivano fatte su commissione e dietro pagamento. Esempio classico: la mattina del 23 giugno 1053, ricorda mons. G.P.Pighi, della chiesa di Verona di Santa Maria in Organo, un certo Gotschaldo, del monastero benedettino di Burn in Germania, rubò il corpo di Santa Anastasia, con la complicità del custode, lo infagottò nel pallio dell’altare e fuggì.
Ma Torniamo a Velo. Il vescovo di Verona, Francesco Barbarigo, nel 1700 fece un giro di visite pastorali nelle parrocchie della Lessinia. A Velo si accorse che dietro l’altare maggiore c’era una porticina che custodiva all’interno la sacra reliquia del martire Fiorenzo, conservata in un decoroso reliquiario. Una verifica del contenuto del piccolo sacrario aveva già avuto luogo ancora nel 1687 durante un’altra visita pastorale. La popolazione, quella volta, si rivolse al vescovo chiedendogli il permesso di estrarne, alla presenza dei canonici, un frammento osseo da porre in un reliquiario, da portare durante le processioni, ovviamente chiuso e sigillato e accompagnato da un documento canonico autentico. Ma come sarà arrivato a Velo il corpo del martire?
Illustri studiosi del passato se ne sono interessati per tentare di stabilire l’epoca in cui San Fiorenzo sarebbe vissuto, il luogo, com’è stato martirizzato e altro ancora, ma sono venuti a capo di ben scarse notizie. La tradizione orale, invece, ha trovato quello che la storia e i documenti non sono stati capaci di rintracciare.
Il Cav. Attilio Benetti, che della tradizione orale è stato un fedele riproduttore nei suoi libri, narra che i suoi avi raccontavano a tal proposito; dimostrando così che tante volte, come si sa, quanto viene tramandato arriva provvidenziale a integrare o a completare quello che la storia non era riuscita a determinare con maggiore chiarezza.
La nonna gli raccontava — ma lo dicevano un po’ tutti gli anziani del posto — che nei tempi lontani, gli abitanti di Velo, segretamente, avevano organizzato una spedizione in Germania, proprio nel paese da dove erano partiti i loro progenitori, con il preciso scopo di trafugare i resti mortali del loro santo martire e portarseli a Velo. L’impresa riuscì perfettamente, ma non è dato conoscere quando essa abbia avuto luogo. Si tenta di collocarla nel tardo Trecento o nel primo Quattrocento, quando cioè gli insediamenti teutonici, o “cimbri” che dir si voglia, avevano già radici profonde e radicate e avevano acquisito anche la solidità economica e la sicurezza politica che permise loro di tentare un’impresa del genere.
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LA " MADONA COL BRASSO SCAESA' " -
LA " MADONA COL BRASSO SCAESA' " -
Lungo la mulattiera che da Giazza conduce a Campofontana passando per contrada Gauli, prima di arrivare alla strada comunale Selva di Progno-Campofontana, si incontra il cosiddetto Capitello della “Madonna dal brasso scaesso”.
A sinistra della nicchia contenente la scultura, si legge: ERETTO L’ANNO 1748 / DA FAINELLI D. VALENTINO / PARROCO DI CAMPOFONTANA /
A destra, invece, un’epigrafe recita: RINNOVATO/DAL PRONIPOTE / FAINELLI VALENTINO 7 L’ANNO 1923.
Infine, intorno al capitello è stata scolpita nella viva roccia la sagoma architettonica di un’edicola; la data dell’esecuzione è il 1881. L’immagine in pietra bianca della Madonna Addolorata che sorregge il figlio morto sulle ginocchia è probabile opera di un abile scultore, che non conosciamo. Il gruppo scultoreo si differenzia dalle consuete raffigurazioni delle Vergine dei Dolori della Lessinia perché il corpo del Figlio è tutto addossato sulla destra delle ginocchia della Madre.
La storia vera — se di storia si tratta — dovrebbe essere la seguente. Don Valentino Fainelli fu nominato parroco di San Giorgio di Campofontana nel 1744, quando ancora non aveva 27 anni, e nel 1752, dopo soli otto anni di reggenza, ritenne più opportuno trasferirsi a Cereda nel Vicentino, dove morì nel 1771.
Don Fainelli, come d’altronde gli altri parroci della montagna, era solito scambiarsi per qualche giorno la cura delle anime, specialmente durante alcuni periodi religiosi del calendario cristiano, come le Quarantore, i Quaresimali, le solennità locali, le sagre. Fu dunque invitato a Giazza a predicare i “Quaresimali”, cioè una serie di prediche speciali, fatte in chiesa durante la Quaresima, per invitare i fedeli a confessarsi e a comunicarsi per la Pasqua, dai due religiosi del posto, i “Fratelli Giazza”, com’erano chiamati i sacerdoti che reggevano una cappella soggetta a Selva di Progno.
Si racconta che un giorno, verso sera, don Fainelli prese la mulattiera per scendere a Giazza a tenere la solita predica. Giunto nei pressi della roccia, che allora — ma ancora adesso — era detta bante (termine cimbro che significa «roccia»), vide un mostro accovacciato per terra, raggomitolato su se stesso che digrignava i denti e schizzava fuoco dalle narici. Per nulla impressionato, don Fainelli, rivolse un pensiero alla Madonna dei Dolori, tracciò col suo bastone un cerchio per terra, vi segnò dentro un’impronta di croce, e disse: — Tu resterai qui finché te lo dirò io.—
Andò avanti e indietro da Giazza a predicare per le tre serate dei Quaresimali e, quando l’ultima sera fece ritorno alla sua parrocchia, ai piedi della bante trovò ancora il mostro rannicchiato, immobile, dove lo aveva costretto a stare e che digrignava ancora i denti: lo maledisse e quello sparì nell’aria in una nuvola di fumo e di fuoco. Si dice che si trattasse di un basilisco. Qualche tempo dopo, don Fainelli volle ricordare quel brutto incontro e fece scavare una nicchia nella roccia e vi collocò una statua della Madonna Addolorata. Era l’anno 1748, come si ha modo di leggere sull’epigrafe a lato del capitello.
Il senso del termine scaesso, cioè «spezzato»” si rifà ad un'altra storia, peraltro altrettanto fantastica. Si racconta che un uomo che era andato fuor di testa, un giorno passando davanti al capitello, assestò una potente bastonata sulla statua dell’Addolorata tanto da romperle il braccio che poi si portò via. E don Fainelli provvide allora a far fare una statua nuova.
A sinistra della nicchia contenente la scultura, si legge: ERETTO L’ANNO 1748 / DA FAINELLI D. VALENTINO / PARROCO DI CAMPOFONTANA /
A destra, invece, un’epigrafe recita: RINNOVATO/DAL PRONIPOTE / FAINELLI VALENTINO 7 L’ANNO 1923.
Infine, intorno al capitello è stata scolpita nella viva roccia la sagoma architettonica di un’edicola; la data dell’esecuzione è il 1881. L’immagine in pietra bianca della Madonna Addolorata che sorregge il figlio morto sulle ginocchia è probabile opera di un abile scultore, che non conosciamo. Il gruppo scultoreo si differenzia dalle consuete raffigurazioni delle Vergine dei Dolori della Lessinia perché il corpo del Figlio è tutto addossato sulla destra delle ginocchia della Madre.
La storia vera — se di storia si tratta — dovrebbe essere la seguente. Don Valentino Fainelli fu nominato parroco di San Giorgio di Campofontana nel 1744, quando ancora non aveva 27 anni, e nel 1752, dopo soli otto anni di reggenza, ritenne più opportuno trasferirsi a Cereda nel Vicentino, dove morì nel 1771.
Don Fainelli, come d’altronde gli altri parroci della montagna, era solito scambiarsi per qualche giorno la cura delle anime, specialmente durante alcuni periodi religiosi del calendario cristiano, come le Quarantore, i Quaresimali, le solennità locali, le sagre. Fu dunque invitato a Giazza a predicare i “Quaresimali”, cioè una serie di prediche speciali, fatte in chiesa durante la Quaresima, per invitare i fedeli a confessarsi e a comunicarsi per la Pasqua, dai due religiosi del posto, i “Fratelli Giazza”, com’erano chiamati i sacerdoti che reggevano una cappella soggetta a Selva di Progno.
Si racconta che un giorno, verso sera, don Fainelli prese la mulattiera per scendere a Giazza a tenere la solita predica. Giunto nei pressi della roccia, che allora — ma ancora adesso — era detta bante (termine cimbro che significa «roccia»), vide un mostro accovacciato per terra, raggomitolato su se stesso che digrignava i denti e schizzava fuoco dalle narici. Per nulla impressionato, don Fainelli, rivolse un pensiero alla Madonna dei Dolori, tracciò col suo bastone un cerchio per terra, vi segnò dentro un’impronta di croce, e disse: — Tu resterai qui finché te lo dirò io.—
Andò avanti e indietro da Giazza a predicare per le tre serate dei Quaresimali e, quando l’ultima sera fece ritorno alla sua parrocchia, ai piedi della bante trovò ancora il mostro rannicchiato, immobile, dove lo aveva costretto a stare e che digrignava ancora i denti: lo maledisse e quello sparì nell’aria in una nuvola di fumo e di fuoco. Si dice che si trattasse di un basilisco. Qualche tempo dopo, don Fainelli volle ricordare quel brutto incontro e fece scavare una nicchia nella roccia e vi collocò una statua della Madonna Addolorata. Era l’anno 1748, come si ha modo di leggere sull’epigrafe a lato del capitello.
Il senso del termine scaesso, cioè «spezzato»” si rifà ad un'altra storia, peraltro altrettanto fantastica. Si racconta che un uomo che era andato fuor di testa, un giorno passando davanti al capitello, assestò una potente bastonata sulla statua dell’Addolorata tanto da romperle il braccio che poi si portò via. E don Fainelli provvide allora a far fare una statua nuova.
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