domenica 10 febbraio 2013
Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale
"Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale" a cura di Tommaso Piffer
Il Mulino, 162 pp., 15 euro
Essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler combattere per l’Italia e la libertà; non per Tito e il comunismo. Così sono stati ammazzati tutti, barbaramente”. Così il 21 agosto 1945 Pier Paolo Pasolini spiegava in una lettera l’eccidio delle Malghe di Porzûs: località del Friuli orientale in cui il 7 e 8 febbraio 1945 un centinaio di partigiani comunisti trucidò venti componenti delle formazioni Osoppo. Erano state in origine create dal Partito d’Azione, ma avevano poi accolto una gran quantità di cattolici, e che comunque si contrapponevano alle rivendicazioni titine. Tra gli assassinati, Guido Pasolini, fratello minore del grande intellettuale e il comandante Francesco De Gregori: omonimo e zio del cantautore.
Non fu l’unico scontro interno a una resistenza italiana in realtà meno concorde di quanto tramandato dalla vulgata storiografica, anche se – a differenza di Polonia, Jugoslavia, Grecia o Albania – le istanze dell’unità finirono comunque per prevalere. Di certo quello di Porzûs fu l’episodio più grave e scandaloso, aggravato dalla vicinanza temporale con l’altra grande tragedia rimossa delle foibe. Di qui un infuocato dibattito che non si è ancora del tutto appianato. Senza negare l’ “esagerazione” dell’accaduto, la storiografia resistenziale canonica, da Battaglia a Bocca e a Pavone, ha liquidato Porzûs in qualche nota; oppure ha tacciato gli assassinati di essere stati personaggi discutibili, poco combattivi e troppo inclini alla polemica contro i comunisti. Nel 1997 il film di Renzo Martinelli scatenò accuse di “delegittimazione della Resistenza”: l’Anpi diffidò sindaci e presidi dal diffonderlo, e la Rai, pur detenendone i diritti, non l’ha mai trasmesso. La stessa Anpi nel 2001 sconfessò l’ex commissario politico della divisione Garibaldi Natisone, Giovanni Padoan, che aveva chiesto perdono per l’eccidio all’ex cappellano delle Osoppo, don Redento Bello.
Tommaso Piffer è uno studioso della resistenza che già da anni sta cercando di uscire dagli stereotipi, a partire dal suo “Banchiere della resistenza” del 2005 su Alfredo Pizzoni, il liberale presidente dimenticato del Clnai. Riservandosi un’analisi sulla strategia e politica delle formazioni partigiane comuniste italiane, per aggredire il nodo di Porzûs ha messo in campo una squadra di altissimo livello, tra i quali l’istriana Orietta Moscarda Oblak, che ha affrontato il tema della “Violenza politica e presa del potere in Jugoslavia”; lo storico delle Foibe, Raoul Pupo, ha trattato “La violenza del dopoguerra al confine tra due mondi”; Patrick Karlsen ha analizzato “il Pci di Togliatti tra via nazionale e modello jugoslavo (1941-1948)”; Elena Aga-Rossi ha scritto su “L’eccidio di Porzûs e la sua memoria”; e Paolo Pezzino, si è occupato di “Un termine di paragone: casi di conflitti interni alla Resistenza toscana”.
La conclusione generale è che l’uso della violenza nei confronti dei concorrenti politici non derivò dall’esasperazione del contesto storico, ma era una delle tecniche di presa del potere collaudate con la rivoluzione di ottobre. Il Pci, attraverso la linea Gramsci-Togliatti, ne applicava una variante machiavellica – ammortizzare i metodi del leone con quelli della volpe. Tito, invece, fece ricorso a una strategia più estrema, collegato al nazionalismo jugoslavo, che rifiutò da subito ogni finzione pluralista. La dirigenza del Pci nella penisola tese a marginalizzare gli estremisti fautori dei metodi titini, ma al confine orientale dovette invece sottostare al loro contagio. Per questo Porzûs raggiunse vertici che in altri contesti furono evitati, e che annunciano la ferocia delle foibe.
9 marzo 2012 © - FOGLIO QUOTIDIANO
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