sabato 26 gennaio 2013
Le velleità dello strapotere vaticano
Nacque così, alla fine del 1951, la famosissima casa discografica RCA controllata per il 90% dalla casa madre statunitense e per il 10% dal Vaticano tramite l'Istituto per le Opere di Religione (IOR): la prima ragione sociale dell'azienda era Radio e Televisione Italiana S.p.A. (RTI), che pochi mesi dopo fu cambiata definitivamente in RCA Italiana S.p.A..
Come presidente fu nominato il conte Enrico Pietro Galeazzi, (ingegnere dipendente del Vaticano, uomo di fiducia del Papa nonché amico di Francis J. Spellman, già potente vescovo di New York), mentre a capo della fabbrica di via Tiburtina fu posto l’ingegnere Antonio Giuseppe Biondo. Fino ad allora, l'unica fabbrica di dischi in Italia si trovava a Milano ed era di proprietà de La Voce del Padrone.
Il Vaticano voleva condizionare anche le scelte musicali del Nostro Paese. Volevano il controllo totale Bernabei alla TV, Andreotti alla censura e pretendevano anche di agire sui gusti musicali dei giovani.
Da Panorama.it
La canzone italiana? L'ha inventata il Vaticano
Uno stabilimento alle porte di Roma, gli uffici nei pressi di Villa Borghese e un parco artisti senza eguali: Morandi, Battisti, Baglioni, Cocciante e molti altri. Tutti i segreti della storica casa discografica, finanziata dagli americani ma voluta da Pio XII. Che in nome dell'hit parade benedisse anche la protesta dei nostri cantautori.
di Lorenza Foschini
L'uomo che inventò la parola cantautore regnò per oltre 30 anni sulla canzone per volere del Papa. Ennio Melis è stato padrone e signore della Rca, la succursale italiana della grande industria musicale americana che negli anni Cinquanta lanciò Rita Pavone e Gianni Morandi, Nico Fidenco, Edoardo Vianello, Gianni Meccia e Jimmy Fontana, e poi Lucio Battisti e Renato Zero, Paolo Conte e Patty Pravo, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Claudio Baglioni, insomma i protagonisti della storia della musica leggera italiana.
Pochi sanno che il Vaticano ne conservò la presidenza dalla fondazione fino alla chiusura, una quindicina di anni fa (quando la casa discografica americana fu acquistata dal gruppo tedesco Bertelsmann). Oggi quella fabbrica, a Roma, al dodicesimo chilometro della Tiburtina, che vide nascere motivi meravigliosi, con sale di registrazione all'avanguardia per quei tempi (nello studio A, il più grande del mondo, Frank Sinatra, venne a registrare i suoi Caroselli per la Perugina), è un casermone fatiscente, un deposito di scatoloni pieni di vestiti scadenti. Eppure, resistono ancora i segni del suo glorioso passato: alle pareti favolose boiserie e tra i vetri rotti si intravedono le sale di regia. In un altro paese forse non sarebbe stato permesso questo oblio e la sede della Rca sarebbe, se non un museo, almeno una facoltà di musica.
«La storia» racconta Melis «comincia verso la fine del 1949 quando il cattolico Frank M. Folson, consigliere delegato della più grande azienda elettronica del mondo, la Rca, si reca in udienza dal Papa per consegnargli l'obolo di San Pietro. La società aveva inventato il televisore e vendeva migliaia di dischi. "Santità" gli chiede "posso fare qualcosa per Roma?". Gli risponde Eugenio Pacelli: "Voi avete bombardato l'Italia, ma anche Roma. Sono andato a San Lorenzo e ho visto il disastro che avete combinato. Se volete, costruite un'industria in quel quartiere". Folson tornato negli Stati Uniti chiama i suoi scagnozzi e gli chiede: "Cosa stiamo facendo in Italia?". "Stiamo costruendo una fabbrica di dischi a Milano, tutta l'industria discografica italiana si trova in quella città". "Fatela a Roma" ordinò e chiuse la discussione.
«Nel '51 la fabbrica venne costruita con l'intervento di tecnici statunitensi. Gli uffici erano in via Caccini, vicino a Villa Borghese. Il cast artistico non era male, c'erano Nilla Pizzi, Katyna Ranieri, Paolo Bacilieri e fra gli altri un giovane che si chiamava Domenico Modugno. Dopo poco, Folson telefonò al conte Enrico Pietro Galeazzi, che era il presidente della Rca Italia, per comunicargli che si doveva chiudere».
Galeazzi era l'uomo di fiducia del Papa, trattava tutti gli affari economici della Santa Sede, specialmente con gli americani. Era amico di Spellman, il potentissimo cardinale di New York.
Melis giovanissimo, dopo varie peripezie al seguito degli Alleati che lo avevano portato da Firenze a Roma, era diventato il suo segretario a 21 anni grazie a un annuncio letto sul Messaggero; nel corso dei nove anni passati in Vaticano si era conquistato sempre di più la fiducia del suo datore di lavoro. «Accompagnavo i giornalisti e i cineoperatori statunitensi che si recavano dal Papa, soprattutto a Castel Gandolfo» continua. «Una domenica il conte mi invita a caccia nella sua riserva. Durante una pausa chiacchierando gli dico: "Peccato che chiudono la Rca, al Papa dispiacerà". Galeazzi mi guarda e mi dice: "Melis, se ne vuole occupare lei?". Io rimango di stucco e lui: "Ci pensi un attimo". Il lunedì successivo ricapito a Castel Gandolfo per delle riprese. Quando gli operatori vanno via, mi avvicino al Papa per accomiatarmi e Pio XII mi dice: "Senta Melis, com'è questa storia della Rca?". Rispondo: "Non so, è un peccato se la chiudono". E lui: "Veda lei cosa si può fare". Pensai: "Se il Papa mi ci manda e poi le cose vanno male, qui mi riprenderanno!".
«Trovai una situazione tipicamente italiana: uffici lussuosi, molti posti di lavoro inutili, insomma spese superiori ai finanziamenti. Chiusi via Caccini e trasferii la parte amministrativa e artistica sulla Tiburtina. Presi una decisione molto dolorosa: licenziai 128 persone riassumendo personale nuovo in maniera oculata. I primi tempi furono duri. I dischi di Elvis Presley si vendevano così e così, ma uscì Harry Belafonte con Banana Boat che ci permise di respirare. Inoltre buttammo via i vecchi 78 giri e portammo tutta la produzione sul 45 giri che nasceva allora. Una decisione rischiosa, anche perché gli americani ci portarono delle presse riciclate che funzionavano male e i nostri rivenditori erano scettici su quei dischi così piccoli. Questo, invece, ci diede un grande vantaggio sugli altri.
«Incontrai un ragazzo con la chitarra, Nico Fidenco, che mi fece sentire per la prima volta Legata a un granello di sabbia. Lo presi subito e con lui Gianni Meccia, Jimmy Fontana, Edoardo Vianello: i quattro moschettieri li chiamavo. Un giorno Vincenzo Micocci, il direttore artistico, mi dice: "Questi cantano però sono anche autori" e io: "Chiamiamoli cantautori".
«Negli Stati Uniti quelli della Rca volevano che ci limitassimo a distribuire le incisioni americane e diedero battaglia. Arrivò un loro emissario che incominciò a controllare, a minacciare licenziamenti: alla fine fu licenziato lui. Un'altra volta mandarono uno molto legato all'ambiente cattolico. Alla fine si decise a mandare un telegramma negli Stati Uniti informandoli che bisognava impedire la pubblicazione di un disco perché conteneva propaganda comunista. Si trattava di una canzone di Nilla Pizzi che era stata in Russia, Dasvidania Mosca. La risposta fu: "Basta che venda". La verità era che cominciavamo a guadagnare, anche tanto, e per gli americani questo è sempre stato l'argomento più convincente.
«Ingrandimmo la fabbrica sulla Tiburtina. Accanto allo stabilimento dove si facevano le miscele di vinile costruimmo un campo di calcio. Morandi, Dalla, tanti altri dopo mangiato andavano a giocare a pallone.
«All'entrata degli studi c'era il bar, un porto di mare dove si poteva incontrare chiunque: Rita Pavone, Patty Pravo, Gabriella Ferri, Gino Paoli, Lucio Battisti, ma anche Pier Paolo Pasolini che parlava con Ennio Morricone o John Huston con Aurelio De Laurentiis, registi, ma anche grandi soprano, direttori d'orchestra, celebri solisti come Arthur Rubinstein. Questo grandissimo pianista in attesa di suonare Chopin si metteva seduto solo solo davanti a un tavolino su cui stendeva un tovagliolo bianco. Tirava fuori da una borsa un uovo alla coque e ci inzuppava un biscottino tranquillamente. Un giorno passò una ragazza di borgata che cercavamo di fare cantare, vide la scena e dandogli una manata sulla spalla gridò: "Nonnetto bravo che se magna l'ovetto!". Non dimenticherò mai la faccia di Rubinstein.
«A proposito di musica classica, noi innovammo completamente il mestiere di arrangiatore chiamando diplomati in conservatorio come Luis Bacalov ed Ennio Morricone. Nascono così i famosi arrangiamenti Rca, come l'introduzione di In ginocchio da te o la costruzione di un marchingegno da far rotolare in studio per Il barattolo di Meccia.
«Mi ricordo il primo incontro che ebbi con Antonello Venditti e Francesco De Gregori in un ristorante sulla Nomentana. Il terrore di Micocci che li aveva scoperti al Folkstudio era che quei due ragazzi colti, intelligenti, di sinistra, molto diversi dai soliti cantanti, potessero rifiutarsi di avere a che fare con un rappresentante di una multinazionale americana. Non fu così, dal ristorante passammo direttamente nel mio ufficio e firmammo i contratti.
«Non abbiamo mai fatto censure politiche. Il Vaticano, che aveva la presidenza, possedeva solo il 10 per cento di capitale sociale e non ha mai interferito. Ha telefonato qualche prelato per raccomandare un cantante e io gli dicevo: "Monsignore, se volete dargli una mano, fate comprare 10 mila copie del suo disco". Ho saputo molti anni dopo che qualcuno segnalò agli americani la nostra disinvoltura nei riguardi della politica e che un uomo della Cia fu spedito in Italia per controllarci!
«Ho passato ore fuori dal lavoro a chiacchierare con Paoli, Cocciante, Dalla. Lucio credo che abbia superato di gran lunga i 20 anni di permanenza in Rca. Cominciò con una jazz band, poi si mise da solo, ma non riusciva a sfondare. La prima vendita vera arrivò dopo anni con 4 marzo 1943 che aveva portato a Sanremo, ma fu un episodio isolato. Il problema era la sua dipendenza dai parolieri. Era lui a ispirare le parole, ma era restio a scriverle. A un certo punto lo posi davanti a un aut aut: "O scrivi da solo le tue canzoni o rompiamo il contratto". "Ma devo fare ancora un lp" mi rispose. "Pazienza, vuol dire che ti pagheremo i danni". Se ne andò via indispettito. Tornò qualche giorno dopo: "Un pezzo l'ho scritto" disse. Nella palazzina degli uffici c'era una stanza col pianoforte, si mise a suonare e cantò Come è profondo il mare. Mi commossi nell'ascoltarlo e gli dissi: "Vedi?". Credo di non avere preso granchi nel puntare sui cantanti che sentivo vincenti.
«Mi ricordo quando in riunione feci ascoltare il disco di De Gregori Rimmel. Il direttore delle vendite disse : "Nessuno ci capirà niente". Ma io gli controbattei: "Prova ad ascoltarlo come un racconto, come impressioni che risvegliano la tua memoria, e vedrai che capirai il senso". Lui lo sentì con attenzione e osservò: "È vero, ma alla gente chi lo spiegherà?". "La gente è più intelligente di noi, vedrai che piano piano capirà" gli risposi.
«Nel 1983, erano passati più di 30 anni, mi resi conto che la realtà era cambiata. Era necessario ridurre il personale: c'erano 600 persone, ne sarebbero bastate 200, ma avevo cominciato questa avventura licenziando tante persone e non me la sono sentita di ripetere un'operazione così triste. Me ne sono andato, ma ancora oggi se incontro i capi delle aziende che vendono dischi mi dicono: "Noi campiamo ancora sui successi tuoi" e aggiungono: "Bei tempi quelli!"».
DOPO LA MUSICA, GLI SPARI
Melis, Mussolini jr e Anselmi: va in onda «La piccola storia»
Non c'è la S maiuscola alla storia raccontata dal nuovo programma di RaiSat Extra, il lunedì sera, La piccola storia, a partire dal 14 febbraio. La visione prospettica è dichiarata dal titolo: personaggi minori, rimasti nell'ombra, aiutano a ripercorrere decenni della grande storia.
L'intervista a Ennio Melis, il fondatore della Rca, inaugura la serie di monografie curate da Lorenza Foschini e Anna Vinci che vedranno protagonisti Fey Von Hassel, figlia del cospiratore che attentò alla vita di Adolf Hitler; Romano Mussolini, figlio del Duce; Tina Anselmi, protagonista della vita politica italiana del dopoguerra; Silvana Farinelli, nipote di Pietro Mascagni amante segreta di Ennio Flaiano.
Marco Giudici, direttore di RaiSat Extra, alterna l'orgoglio per la nuova trasmissione all'amarezza gestionale. Spiega: «Compriamo a uno a uno il meglio dei programmi Rai dell'ultimo periodo: in questo modo mettiamo insieme buona parte del palinsesto. Perché non avviene mai il contrario, ovvero che la Rai acquisti le nostre produzioni sperimentali tanto apprezzate?».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento