sabato 26 gennaio 2013
Il carteggio inedito tra Junger e il teorico sionista Scholem
Dal quotidiano la Stampa.it cultura: IL CARTEGGIO INEDITO TRA LO SCRITTORE E IL TEORICO SIONISTA
Jünger-Scholem
amici per un fantasma
Due intellettuali agli antipodi, attratti da un affetto comune
ALESSANDRA IADICICCO
BERLINO
«Non intenderà mio fratello Werner?». Il dubbio che ci fosse un malinteso era venuto subito a Gershom Scholem allorché, un mattino di fine febbraio del 1975, uscito nel giardino davanti alla sua casa di Rehavia, il quartiere di Gerusalemme popolato di emigranti tedeschi, aveva trovato nella cassetta delle lettere una cartolina con il timbro postale di Wilflingen.
Era proprio il vecchio eremita di Wilflingen a scrivergli: Ernst Jünger, il filosofo soldato, il reduce pluridecorato di due guerre mondiali che dal 1955 viveva nel suo rifugio di «Anarca» in Alta Svevia, ospite nella foresteria del castello di von Stauffenberg, l’attentatore di Hitler. E: «mi ha commosso leggere la sua scrittura dopo aver studiato con attenzione due suoi libri», confidava il vecchio ebreo, teorico del sionismo, storico delle religioni e studioso della kabbala, nelle prime righe della lettera recapitata nel giro di poche settimane in risposta.
Iniziava così, all’insegna della curiosità reciproca e di un dichiarato rispetto, lo scambio tardivo tra due longevi testimoni del secolo breve. Due giganti che non sarebbero potuti essere più diversi. «Che mai avranno avuto da dirsi?», si sono chiesti i critici tedeschi di fronte al carteggio finora inedito, menzionato nelle opere di entrambi (nei diari dello Jünger centenario Siebzig Verweht e nell’edizione ebraica dell’autobiografia di Scholem Da Berlino a Gerusalemme) e ora pubblicato nell’ultimo numero di Sinn und Form, la rivista dell’Akademie der Künste di Berlino. Un «documento sensazionale», da leggere «con il fiato sospeso»: così, «elettrizzato», Ijoma Mangold su Die Zeit. L’ennesima riprova del riguardo sempre riservato da Jünger agli intellettuali ebraici: così Heimo Schwilk, il suo biografo, su Die Welt. Confessioni, rivelazioni, dichiarazioni di straordinarie affinità spirituali, ovviamente, non ce n’è. E, tanto per cominciare, i due grandi vecchi - quasi ottantenne Jünger alla data della prima Postkarte spedita il 16 febbraio, di due anni più giovane il suo destinatario - dovevano appunto prevenire ogni malinteso.
«Leggo continuamente il suo nome sulla stampa e mi chiedo: sarà mica lo stesso Scholem che era tra i miei Schulkameraden a Hannover (1914)?». In caso di erronea omonimia non si dia pena di rispondermi, concludeva Jünger con laconica cordialità. Scholem, con tanto d’occhi e con la matita in mano, annotava lì per lì sulla missiva jüngeriana la prima idea che gli passava per la mente: «Non intenderà mio fratello Werner?».
I personaggi per imbastire un piccolo racconto confidenziale, per rievocare un capitolo autobiografico di storia europea, entrano subito in scena tutti assieme. Jünger che, già sedotto dalle letture nietzscheane e dall’estetica della guerra, dopo la maturità conseguita a Hannover si sarebbe arruolato nella Legione Straniera per andare a giocare i suoi Ludi africani. Scholem che, traducendosi in «Gershom» da «Gerhard» qual era, si ribellò alla famiglia assimilata berlinese e, sostenitore di uno Stato nazionale ebraico in Palestina, migrò a Gerusalemme sin dal ’23. Tra i due, fautore di «un incontro pericoloso», catalizzatore del loro fulmineo, fulminante contatto, il primogenito Werner, enfant terribile di casa Scholem. Vicino (di banco) a un cultore del superuomo quanto ai sottoproletari di Hannover. Pacifista educato alla stessa scuola dell’eroe delle «tempeste d’acciaio». Oppositore - dall’interno, dall’estrema sinistra in Parlamento, dai seggi della Kpd occupati come deputato al Reichstag - di quel governo tedesco da cui il fratello minore volle anche geograficamente estraniarsi. Estraneo a tutti i nazionalismi che invece chi gli era vicino - fratelli o compagni di scuola, sionisti o nazionalbolscevichi che fossero - ciascuno a suo modo propugnava.
È l’ombra di Werner - il terzo uomo assente, il fantasma di colui che, arrestato all’indomani dell’incendio del Reichstag, imprigionato a Dachau, deportato e ucciso a Buchenwald nel ’40 - a visitare i sogni e le attenzioni reciproche dei due vegliardi. Delle dieci lettere che si scambiarono fino all’81, le più belle sono quelle che ne ricordano la fisionomia, il carattere, lo spirito insubordinato e l’impegno radicale. Attratti l’uno all’altro da quell’affetto comune, i due intellettuali collocati per convenzione ideologica agli antipodi scoprono di avere conoscenze e perfino tratti specularmente comuni. «Fu Lei a intercedere per salvare Walter Benjamin nel 1940? Me lo ha scritto Adorno», chiede Scholem. «Non ricordo. Può essere. Quando ero a Parigi avrei avuto il potere di farlo. Ma temo che il suo amico abbia perso l’ultimo treno per la fuga» risponde il veterano della Wehrmacht. Che, nel giugno del ’76, annotava: «L’altra sera, dopo un’interminabile partita di calcio, L’ho vista in Tv. Parlava di kabala, delle lacune della creazione, dell’inesorabile “imperfezione del mondo”. È un problema che mi inquieta sin dall’infanzia...».
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