martedì 23 luglio 2019

La psicologia ha radici lontane (pagane)

Acuminate pagine Puliga dedica al mal di vivere in alcuni grandi della letteratura latina: Lucrezio, Cicerone, Orazio, Seneca, e specialmente Ovidio, il poeta che più e meglio di ogni altro seppe notomizzare, senza reticenze, anzi quasi con clinica precisione, la depressione in cui piombò negli anni del forzato esilio sulle lontane coste del Mar Nero. Egli si rendeva lucidamente conto del fatto che il suo malessere era psicofisico che mai lo abbandonava (quae mihi sempre adest) e la ‘noia’ (taedium), ovvero il disgusto per la vita, lo portavano a coltivare il desiderio di morte (amor mortis), anzi a vedersi già come un morto che cammina. Nondimeno riuscì a dare una veste letteraria sofisticatissima (il capitolo che il saggio gli dedica si intitola, molto appropriatamente, l’arte di essere depresso) a questa sua fondamentalmente sincera autoanalisi, trovando proprio nella scrittura l’unico possibile sostegno terapeutico: «Se vivo, e resisto … devo ringraziare te, o musa. Tu mi dai sollievo … tu vieni a me come una medicina».Il contributo più originale del libro sta però nell’individuazione di una differenza semantica tra gli antichi e noi, che rivela una interessante differenza antropologica noi associamo la depressione all’essere schiacciati verso il basso, come gravati da un peso mentre i romani la collegavano all’idea del ‘marcire’, dell’andare in putrefazione. Anche l’animus, la sede immateriale delle facoltà psichiche, poteva secondo i romani decomporsi al pari della materia organica. Ma la categoria del marcio era più ampia per loro che per noi: marcidus/murcidus comprendeva tutto ciò che è fiacco, languido, vacillante, torpido, obnubilato. La depressione era perciò vista come uno stato di spossatezza, di abbattimento, di progressivo venir meno delle forze vitali.Benché a Roma gli schiavi fossero considerati alla stregua di cose (res), erano pur sempre esseri umani, e dunque accadeva anche a loro di cadere nella depressione . Scopriamo però con Puliga che un serio dibattito divise i giuristi romani sulla possibilità di chiedere indietro al venditore il prezzo pagato per un servus melancholicus. Le cose potevano avere un’anima sofferente?
L’ultimo capitolo del libro (Murcia in convento) indaga quella particolare forma di depressione che rappresentava il lato oscuro della vita monastica: quell’inerzia eccessiva a cui portava la vita contemplativa diventerà il vizio capitale dell’accidia.
Molti sono i fili con cui l’autrice ha tessuto la sua tela: se l’ordito è rappresentato dalla civiltà classica e dall’antropologia, la trama è data dalla psicologia, dalla psichiatria e anche dalla fisiologia. In tutti questi campi Donatella Puliga si muove con sicurezza e scioltezza: la sprezzatura della scrittura lascia comunque trasparire l’ingente lavoro di ricerca multidisciplinare di cui il saggio è apprezzabile frutto...

(tratto da Alias)

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