domenica 3 febbraio 2019

La tomba romana attribuita erroneamente a Zaccaria

Gerusalemme, Valle del Cedron, Tomba di età romana, detta erroneamente di Zaccaria. Dottrina dell'Architettura
Architetto David Napolitano


Il dio Asino ed il sacerdote del tempio di Gerusalemme, Zaccaria padre di Giovanni il Battista antagonoista di Cristo, fonderà i Giovanniti......


Iao il dio nascosto del mondo ebraico, tratto da CRISTUS REX di
Graves Robert


Laddove io non li ritengo caricature, bensì pie identificazioni giudeo-cristiane di Gesù col Messia Figlio di David, il cui simbolo nella letterature rabbinica era per l’appunto l’asino, così come quello del Messia figlio di Giuseppe era il bue. Ma questa opinione m’impiegherebbe in un’altra prolissa disputa critica……..>> Riporto ora lo stralcio che descrive i fatti strani accaduti al sacerdote Zaccaria dopo aver messo piede nel santuario per officiare presso l’altare dei profumi .Il complesso templare di Gerusalemme, dove si svolgerà lo stano evento, era simile a quelli mesopotamici e fenicie, la sapienza italica adotterà questo tipo di architettura per santificare gli Dei. Questo tipo di struttura sacra sarà ripresa anche nel probabile santuario di Giano a Verona. Il sacerdote Zaccaria era il marito di Elisabetta che proprio in quei mesi vicini all’inquietante apparizione che tanto turbò Zaccaria. La storia inizia descrivendo la tensione sociale scatenata dalla violazione delle tombe di Davide e di Salomone consumata da re Erode al fine di impadronirsi del tesoro e degli oggetti dei due re. Proprio Zaccaria fungeva da portavoce di una delegazione di sacerdoti che domando spiegazioni al re sulla profanazione della tomba, ma le risposte del re furono abili e la rivolta popolare fu scongiurata, ma in quei giorni accaddero fatti strani ed inspiegabili, forse la violazione della tomba aveva dato seguito agli stani prodigi. In questo clima Zaccaria si accinge ad officiare il rito accendendo i sette lumi del candelabro d’oro. <<………Zaccaria mise piede nel santuario al tramonto per accendere i sette lumi del candelabro d’oro e offrire fragrante incenso sull’Altare, e vi rimase da solo mentre la congregazione dei fedeli si teneva all’esterno, in preghiera . Con i gesti delicati ed esperti cimò gli stoppini con lo smoccolatoio e riempì le ciotole fino all’orlo di olio consacrato. Poi andò a prendere i coni d’incenso su uno scaffale dell’apposita nicchia e li depose in una ciotola d’oro; si prostrò a pregare; si rialzò e, afferrando i coni con un paio di pinze, li collocò sui carboni ardenti dell’Altare; li spolverò di sale; tornò a prostrarsi, e di nuovo pregò, mentre il profumo inebriante dell’incenso cominciava a diffondersi per il santuario. I fumi si sparsero fino alla congregazione in attesa all’esterno e Zaccaria udì cantare la preghiera di benedizione del coro di Asaf: Invero tu sei il Signore Dio nostro, il Dio anche dei nostri padri; il nostro Re, il Re anche dei nostri padri; il nostro Redentore, il Redentore anche dei nostri padri: il Creatore, il Creatore anche dei nostri padri; il nostro Soccorritore e Liberatore. Il tuo nome è sempiterno, non esiste altro Dio all’infuori di te. I redenti intonano un canto nuovo al tuo nome sulla riva del mare. Assieme ti lodano e ti riconoscono come loro Re e dicono :”Il Signore regnerà, il Salvatore di Israele, popolo suo….” Il canto cessò e Zaccaria comprese che l’agnello serale era stato sacrificato e ora i suoi pezzi bruciavano sull’altare nel cortile esterno. A un certo punto avrebbe dovuto tornarci, pronunciare la benedizione sacerdotale e accertare le offerte di carne e di bevande. Mentre aspettava, calmo e perfettamente a suo agio, l’assoluto silenzio del santuario fu rotto da una voce: una voce sottile, tra il bisbiglio e il gemito di un flauto, simile alla voce della coscienza di un peccatore. “Zaccaria” disse la voce. Zaccaria si rese conto che la voce proveniva dal Santo dei Santi, dove nessun uomo poteva mettere piede, a eccezione del sommo sacerdote una volta all’anno:la cella vuota dove abitava il Dio d’Israele. Gli balzò il cuore in petto, e rispose: “Eccomi, o Signore? Parla, ché il tuo servo ti ascolta?” Erano le parole arcaiche con cui, molte generazioni addietro, a Shiloh, il piccolo Samuele aveva risposto a un richiamo similare. L’esile voce lo interrogò:”Zaccaria, quali cose sono, quelle che ardono sul mio altare?” Rispose Zaccaria in un borbottio:”L’incenso fragrante, signore, conforme alla legge che tu stesso hai dato al tuo servo Mosè.” Domandò la voce in tono severo:”Forse che il Sole della Santità è una meretrice o un catamita? Le mie narici fiutano storace, giglimo di pettine, incenso, nartece, che ardono piano tutti assieme su carbone di legno di cedro? Appronteresti un bagno di sudore per il Sole della Santità?” Ora, la composizione del sacro incenso era basata su un’antichissima ricetta. Era sto costume delle sacerdotesse della dea dell’Amore, Rechab, la vigilia dell’orgia di maggio bruciare quell’incenso in un buco sotto il pavimento del santuario della dea. Ciascuna donna a turno si accovacciava per un momento sopra l’orifizio e all’interno di una tenda di pelle di foca chiusa finché la sua epidermide trasudava e assorbiva la fragranza, rendendola in tal modo irresistibile ai suoi amanti. Tutti gli ingredienti possedevano virtù afrodisiache. Lo storace è la resina di una pianta dai fiori bianchi, simile al platano e sacra alla dea Iside: il nome le deriva dalla parola greca che significa “suscitare lascivia”. Il pettine è una conchiglia sacra alla dea dell’Amore di Cipro e dei fenici, Afrodite, la quale viene rappresentata nei miti nell’atto di navigare sul mare entro una grande conchiglia di pettine trainata da delfini. Grande quantità di pettini vengono consumate dalle popolazioni di Ascalon e Pafo in occasione delle agapi in onore della dea, e il ginglimo della conchiglia è un simbolo del vincolo sessuale. L’incenso, che viene importato dall’Arabia meridionale e dalla costa africana situata di fronte, è una resina lattea profumata, trasudata da un arbusto chiamato olibano, sotto forma di lacrime bianche screziate di rosso, e ai cui fumi è attribuita la facoltà di conferire eloquenza amatoria; inoltre, si dice che la Fenice bruci a Heliopolis su un rogo di ramoscelli d’incenso. Il nartece è il finocchio gigante, ossia la verga, simbolo della sua carica, impugnata da Sileno, il signore caprino delle gozzoviglie dionisiache; e si dice che nel midollo del suo stelo Prometeo abbia nascosto il fuoco che aveva trafugato dai cieli. La resina che ne trasuda possiede un sentore appena percepibile; ma nella composizione del sacro incenso le resine dello storace e dell’incenso ne compensavano la deficienza e servivano altresì a coprire il lezzo sgradevole del ginglimo di pettine. Zaccaria non seppe rispondere, ma batté sette volte la fronte a terra, non osando alzare gli occhi. Udì il fruscio del Velo che si apriva e uno scalpiccio di passi maestosi che si avvicinavano sul pavimento di marmo. Vi fu una pausa, poi un subitaneo sibili e un crepitio proveniente dall’Altare. I passi si allontanarono e Zaccaria svenne. Quando tornò in sé, dopo qualche minuto, lì per lì non riuscì a comprendere dove si trovasse o che cosa fosse accaduto. I lumi ardevano ancora con fiamma regolare, ma il fuoco sull’Altare si era spento. L’orlo della sua veste era zuppo dell’acqua sgocciolata dal ripiano dell’Altare. Lo spavento tornò ad invadere la sua mente. Gemette e alzò gli occhi lentamente verso il Sacro Velo quasi per rassicurare se stesso che il suo Dio non lo odiava. Ma il peggio doveva ancora venire. Tra il Velo e il muro si ergeva una figura straordinaria, abbigliata con vesti che scintillavano come il lume della luna su uno stagno dalle acque increspate. Orrore! La testa era quella di un asino selvatico con rossi occhi lampeggianti e denti bianco avorio, ed era con zampi dagli zoccoli d’oro che la figura stringeva al petto lo scettro e il cane simboli della monarchia. Dalla bocca della bestia uscì la voce flautata “Non temere Zaccaria! Esci e dì al mio popolo con parole veritiere ciò che hai udito e visto!” Zaccaria, mezzo morto di paura si coprì il volto con la veste. Poi batté sette volte la fronte sul pavimento e uscì barcollando nel cortile esterno, dove tutti si domandavano ansiosi il motivo del suo ritardo. Si chiuse la porta alle spalle e ristette ansando. L’aria fredda lo rianimò. Fissò con cipiglio i volti placidi dei suoi congiunti e dei cantori di Asaf. Aspiro a fondo, e le parole terribili che gli salirono dal cuore furono: “O uomini di Israele, udite! Per tutte queste generazioni abbiamo a nostra insaputa venerato non già il vero Dio, bensì un Asino d’Oro!” Le sue labbra si mossero ma non ne uscì alcun suono. Era diventato all’improvviso muto. I suoi congiunti lo riaccompagnarono gentilmente a casa ma uno di essi Ruben, figlio di Abdiel, cui spettava il compito di prendere il suo posto qualora si fosse improvvisamente ammalato ovvero fortuitamente contaminato, pronunciò la benedizione, accettò le offerte di carne e di bevande e fece segno ai figli di Asaf di intonare il salmo serale. Quando la funzione ebbe termine e i sacerdoti e i musici si furono dispersi, Ruben entrò nel santuario per vedere se tutto era in ordine. Trovando il fuoco spento e pozzanghere di acqua sporca tutt’attorno all’Altare, rimase stupito e allarmato. Che il suo posato congiunto Zaccaria fosse stato colto da improvvisa follia? Il suo primo pensiero fu per l’Ordine, che non doveva essere svergognato. Nessuno doveva sapere che il fuoco si era spento. Pregando in silenzio che ciò che stava per fare non fosse peccato, Ruben si affrettò a rimuovere le ceneri umide dall’Altare, le avvolse nel mantello, preparò di nuovo il fuoco e lo riattizzò e offrì altro incenso in conformità al rito tradizionale. Mentre era intento ad asciugare il pavimento del santuario con un tovagliolo fu colto dallo stesso orrore che aveva colto Zaccaria, e si sentì rizzare i capelli in capo. Tutt’a un tratto, infatti, notò impronte umide di zoccoli in direzione in direzione del Santo dei Santi. Se ne stette a fissarle a lungo. Non ci si poteva sbagliare. Erano le impronte degli zoccoli di un mulo o di un asino. Si sentì turbianre la mente. Tuto ciò che riuscì a pensare fu che Zaccaria doveva aver fatto ricorso alla magia nera ed evocato un demone in sembianze d’asino, uno dei Lilim, il quale aveva spento il fuoco sull’altare. Doveva proprio essersi trattato di un qualche demone, giacché d’era finita la brocca d’acqua usata per spegnere il fuoco? Zaccaria non ne aveva una con sé, quando era uscito ne cortile esterno. “Ahimé, ahimé!” Gridò Ruben e, gettandosi a terra, pregò ad alta voce: “O Signore degli Eserciti, proteggi il tuo servo! Suggella le bocche di coloro i quali vorrebbero interrogarlo. Poiché non renderò mai pubblica la vergogna della mia Casa, se non mi sarà chiesto di farlo sotto giuramento dinnanzi alla corte suprema.” Il mattino seguente, Zaccaria fu interrogato gentilmente dal sommo sacerdote durante una seduta non ufficiale della corte suprema. Gli furono poste dinnanzi alcune tavolette per scrivere, ma Zaccaria le allontanò da sé, scuotendo il capo. Quando gli venne domandato se avesse avuto una visione, fece segno di si con la testa, e sul volto gli passò un’espressione di tale terrore che il sommo sacerdote si astenne dal porgli altre domande. Il Consiglio gli raccomandò di lasciare Gerusalemme e ritirarsi nella sua residenza di campagna a Ain-Rimmon, un florido villaggio situato nove miglia a nord di Bersabea. L’inchiesta fu aggiornata sine die, con grande solievo di Ruben. Stravaganti voci in merito a ciò che Zaccaria aveva visto cominciarono a diffondersi per il paese, e i sacerdoti dell’Ordine di Abia si consultarono tra loro per decidere sulle risposte da dare alle domande che venivano loro poste di continuo. Ruben non prese parte alla riunione, e in sua assenza i Figli di Abia decisero che ciò che Zaccaria aveva visto doveva essere stato un angelo il quale gli aveva comunicato sorprendenti notizie domestiche. Era, infatti, avvenuto che, tornando a casa a Ain-Rammon, Zaccaria fosse accolto con la notizia che sua moglie Elisabetta, la quale era rimasta sterile per più di vent’anni, era sul punto di diventare finalmente madre. Particolare ancor più degno di nota, quando Zaccaria era partito da Ain-Rimmon sei settimane prima, per presenziare ai riti della settimana pasquale a Gerusalemme, egli ed Elisabetta erano entrambi vincolati da un obbligo locale di continenza coniugale, e durante i trenta giorni precedenti si erano scambiati solo casti baci. Essendo la fedeltà di Elisabetta al di sopra di ogni sospetto, Zaccaria non seppe nascondere il suo stupore, ma si rifugiò nel mutismo, astenendosi dal far commenti per iscritto. I suoi congiunti ne conclusero che la visione da lui avuta al tempio fosse stata quella di un angelo il quale gli avesse predetto che la creatura che Elisabetta avrebbe dato alla luce in così tarda età sarebbe stata benedetta da straordinaria santità; e fu questa la versione che diffusero a Gerusalemme.


 

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