giovedì 30 luglio 2015

la magia di mendeleev

La chiave di tutti i segreti

C’è un oggetto che ogni tanto appare nei film dell’orrore, o magari in Indiana Jones: la tavola magica, il simbolo segreto che svela tutti i segreti dell’umanità; magari affidato a un faraone egizio, a un mago assiro, a Harry Potter o a un alieno di Roswell, magari un anello, un tatuaggio, una pietra o una statua da rimettere al suo posto, e che crea maledizioni e catastrofi ed effetti speciali luminosi, magari in 3D.
Lo so che è antipatico dirlo, ma questa Tavola della Magia esiste già, più o meno dal 1860; e la stiamo già usando da più di cent’anni. I chimici la studiano a scuola, e da almeno mezzo secolo è l’incubo (incubo da interrogazione e da compito in classe) dei sedicenni che fanno la scuola di perito chimico: la stechiometria, il sistema periodico degli elementi.
Così la presenta un grande medico e grandissimo scrittore, Oliver Sacks: il titolo del libro è simpatico (“Zio Tungsteno”: Sacks aveva uno zio che costruiva lampadine) ma mi è sempre sembrato un po' astruso, forse con un altro titolo sarebbe stato un bestseller perché è molto chiaro e molto divertente. Ma, attenzione: questa non è una semplice sequenza di nomi più o meno astrusi, è una visione dell’Universo, della Creazione. Fate attenzione soprattutto ad uno di questi nomi: il Carbonio, su questa Terra, è l’unico degli elementi che è connesso alla vita.
Capitolo XVI - IL GIARDINO DI MENDELEEV (by Oliver Sacks)
Nel 1945 il Museo della Scienza di South Kensington fu riaperto (dopo una lunga chiusura nel periodo della guerra) e per la prima volta vidi la gigantesca tavola periodica che vi era esposta. 
La tavola, che copriva un'intera parete in cima alle scale, era in realtà una vetrina di legno scuro con una novantina di scomparti, ciascuno dei quali porta scritto il nome del proprio elemento, il suo peso atomico e il suo simbolo chimico. In ogni scomparto, poi, c'era un campione dell'elemento stesso (quanto meno, di tutti quelli che erano stati ottenuti in forma pura, e che potevano essere esposti in condizioni di sicurezza). Il cartellino informava, « La classificazione periodica degli elementi secondo Mendeleev».
I primi che vidi furono i metalli, esposti a decine in tutte le forme possibili: barrette, cubi, fili, fogli, dischi, cristalli, masse di forma indefinita. La maggior parte erano grigi o argentei, alcuni avevano sfumature azzurre o rosa. In qualche caso le superfici erano brunite e risplendevano debolmente di giallo; poi c' erano i colori intensi del rame e dell'oro.
Nell'angolo in alto a destra c'erano i non metalli - gli spettacolari cristalli gialli dello zolfo e quelli
rossi, traslucidi, del selenio; il fosforo, simile a pallida cera d'api, immerso nell'acqua; e il carbonio, sotto forma di minuscoli diamanti e grafite nera e lucente. C'era poi il boro, una polvere brunastra; e i cristalli di silicio, dalla superficie come increspata, di una lucentezza nera, intensa, simile alla grafite o alla galena.
A sinistra c'erano i metalli alcalini e i metalli alcalino-terrosi (i metalli di Humphry Davy), tutti, tranne il magnesio, immersi in bagni protettivi di nafta. Fui colpito dal litio, nell'angolo più in alto a sinistra, perché, leggero com'era, galleggiava sulla nafta; e anche dal cesio, più in basso, che formava una pozzanghera luccicante sotto la nafta. Il cesio, questo lo sapevo bene, aveva un bassissimo punto di fusione, e quello era un giorno d'estate molto caldo. Tuttavia, non mi ero del tutto reso conto, osservando le minuscole masserelle parzialmente ossidate che avevo visto fino ad allora, che il cesio puro fosse dorato: al principio lanciava solo un bagliore, un lampo d'oro, sembrava emettere un'iridescenza con una lucentezza dorata; ma poi, osservato da un'angolazione diversa, appariva di un color oro puro, e sembrava un mare d'oro, o del mercurio dorato.
C'erano poi altri elementi che fino ad allora erano stati per me solo dei nomi (oppure, in modo quasi ugualmente astratto, dei nomi associati a qualche proprietà fisica e a un peso atomico) e adesso per la prima volta li vedevo in tutta la loro diversità e la loro realtà. In quella mia prima, sensuale panoramica, percepii la tavola come un sontuoso banchetto, un enorme desco apparecchiato con un'ottantina di portate diverse.
A quell'epoca avevo ormai acquisito familiarità con le proprietà di molti elementi e sapevo che essi formavano un certo numero di famiglie naturali, come quella dei metalli alcalini, dei metalli alcalinoterrosi e degli alogeni. Queste famiglie (che Mendeleev chiamò « gruppi ») formavano le colonne verticali della tavola, con i metalli alcalini e quelli alcalino-terrosi a sinistra, gli alogeni e i gas inerti a destra, e tutto il resto collocato in quattro gruppi intermedi situati nel mezzo. Questi gruppi intermedi erano « gruppi » in un modo un po' meno chiaro - nel Gruppo VI, per esempio, vedevo lo zolfo, il selenio e il tellurio. Sapevo bene che questi tre elementi (i miei « puzzogeni ») erano molto simili - ma che ci faceva in mezzo a loro l'ossigeno, proprio in testa al gruppo? 
Doveva esserci un principio più profondo - e infatti c'era. Era stampato in cima alla tavola, ma nella mia impazienza di osservare gli elementi, non gli avevo prestato attenzione alcuna. Il principio più profondo, vidi poi, era la valenza. 
Il termine valenza non esisteva nei miei libri dell'epoca vittoriana, giacché era stato sviluppato correttamente solo verso la fine degli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo. Mendeleev fu uno dei primi ad avvalersene e a usarlo come fondamento per la classificazione, offrendo così qualcosa che non era mai stato chiaro prima: una base razionale per spiegare la tendenza degli elementi a formare famiglie naturali e ad avere profonde analogie chimiche e fisiche gli uni con gli altri. 
(...)La tavola che avevo dinnanzi era dominata da una periodicità in base otto, sebbene si potesse anche vedere che nella parte inferiore, all'interno dei fondamentali ottetti, erano interposti alcuni elementi extra: dieci per ciascuno nei Periodi 4 e 5, e dieci più quattordici nel Periodo 6.
Così si procedeva, osservando ogni periodo completarsi e condurre al successivo imboccando una
serie di curve da capogiro - questa, almeno, era la forma in cui l'immaginavo io, così che la solenne tavola rettangolare che avevo di fronte si trasforma nella mia mente in anse e spirali. 
La tavola era una sorta di scalinata cosmica, o di scala di Giacobbe che saliva e scendeva verso un cielo pitagorico.
All'improvviso, fui travolto al pensiero di quanto dovesse esser sembrata sorprendente, la tavola periodica, ai chimici che la videro per primi – chimici che avevano una profonda familiarità con sette o otto famiglie di elementi, ma che non avevano mai compreso la base di quelle famiglie (la valenza), come esse potessero confluire a comporre un unico schema di ordine superiore. Mi chiedevo se non avessero reagito come avevo fatto io di fronte a quella prima rivelazione: «Ma certo! E così ovvio! Come ho fatto a non pensarci io? ».
Indipendentemente dal fatto che uno pensasse in termini di colonne verticali o di righe orizzontali, in un modo o nell'altro si arrivava alla stessa griglia. Era come uno schema di parole crociate, che poteva essere affrontato sia partendo dalle definizioni «verticali » che da quelle «orizzontali », salvo per il fatto che un gioco enigmistico era un costrutto arbitrario, squisitamente umano, mentre la tavola periodica rifletteva o rappresentava un ordine profondo della natura, perché mostrava tutti gli elementi disposti in base ad una loro relazione fondamentale. Avevo la sensazione che essa custodisse un segreto meraviglioso, ma si trattava di un criptogramma senza chiave: perché quella relazione era così? (...)
(Oliver Sacks, da “Zio Tungsteno”, ed. Adelphi – capitolo XVI, Il giardino di Mendeleev)

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