venerdì 10 luglio 2015

In ricordo di Giuseppe Faggin

Dal blog di Emilio Renzi

Giuseppe Faggin





Le ragioni dell’insegnante
(da: Franco Volpi, Emilio Renzi, Giangiorgio Pasqualotto, Per Giuseppe Faggin 1906-1995, Atti della commemorazione tenuta il 22 novembre 1996 al Liceo Ginnasio “Antonio Pigafetta” di Vicenza, I Quaderni dell’Accademia Olimpica n. 27, Vicenza 2001, pp. 21-41)
Sono stato allievo di questo Liceo Ginnasio dal 1951 al 1956. Oltre quarant’anni sono trascorsi, un periodo così lungo, e talmente lontano, che quando Giorgio Faggin mi ha chiesto di parlare del prof. Giuseppe Faggin, ho detto di sì con emozione, al tempo stesso precisando che non ero ricchissimo di ricordi del professore. Dico subito, quindi, che non ho molti aneddoti da raccontarvi; anche perché non credo molto agli episodi aneddotici, che spesso sono per così dire il simmetrico della commemorazione paludata e inamidata.
Si possono invece ricordare e argomentare alcuni fatti (questi sì illuminanti, spero), sul conto dell’insegnante Faggin. Se si approfondisce la figura del docente può venirne un contributo a una miglior conoscenza dello studioso e quindi anche dell’uomo, e forse anche una miglior conoscenza di quello che per molte persone e per tutti noi sono stati e continuano a essere gli anni del Liceo, una istituzione che, alla fine, è tra gli assi portanti della cultura italiana ed europea.
L’insegnante (e su questo sono certo che siamo tutti d’accordo) era di grande valore, serio, attento, scrupoloso, severo. Era un professore che poco, anzi nulla, concedeva (forse meno ancora di quanto i tempi già molto formali concedessero) al facile successo, alla captatio benevolentiae dei singoli o di una classe nel suo insieme.
Per quelli tra noi studenti che per studiare e scoprire il mondo frequentavamo la Civica Biblioteca comunale conosciuta come “la Bertoliana”, il professor Faggin era tanto il professore del mattino quanto lo studioso del pomeriggio.
Era il professore che nelle ferme mattinate scolastiche percorreva questo tratto di falso corridoio, il portico che c’è qui fuori, entrava in aula… e si creava un momento di silenzio, un grumo di attenzione e di tensione. Ecco, questo è un ricordo innegabile. E c’era sempre una fatica, c’era come una sorta di piccolo spasmo di compressione e di decompressione prima che iniziasse la lezione, perché la lezione poteva essere lezione o interrogazione, e non era la stessa cosa.
Se era interrogazione, era una prova difficile. Se era lezione, era ugualmente difficile, nel senso che iniziava come enunciazione dell’argomento per diventare poi rapidamente tutta un’altra cosa, cioè un lavorio di scavo, un metodo (la parola è obbligata ma mi sento di dirla volentieri) socratico: un’arte di estrazione da ognuno di noi di ciò che la cultura, la filosofia, la storia, potevano tirar fuori.
L’altra immagine che so di non essere il solo ad avere forte nella mente era la Biblioteca Bertoliana, il cui orario canonico era osservato dal professore con cronometrica puntualità e con regolarità infrastagionale, tutti i pomeriggi.
Si entrava, si saliva lo scalone a gomito, poi c’era l’ingresso, c’era il banco della distribuzione dei libri. C’erano gli addetti: c’era Melato, c’era Rezzara. Poi c’erano la signorina Galante, la signorina Cristofari, e altri. Si entrava. A destra si apriva la “manica corta”, l’ambulacro che era riservato alla consultazione dei manoscritti, dei libri antichi, dei libri preziosi. Su quei tavoli erano posti in bell’ordine leggii in legno. Sulla sinistra c’era la parete delle riviste, seguiva una paretina di libri cui qualcuno di noi è ancora oggi grato perché era un deposito dell’USIS, l’Istituto culturale statunitense, dove appunto erano disposti a vista e a portata di mano libri sul mondo moderno che, come dire, non si trovavano facilmente in giro e certo non erano previsti nei programmi scolastici di allora. Infine c’era la sala grande dove stavano gli studenti a far finta di studiare o a studiare veramente.
Ecco, in quello spazio sulla destra si scorgeva la sagoma del prof. Faggin, una presenza costante e significativa. Si sapeva che studiava delle cose difficili, delle cose rare, delle cose straordinarie. In greco, in tedesco, in latino… Si vedevano i suoi libri, si sapevano i libri che aveva scritto.
Però vorrei dire che la mia personale opinione è che se queste due immagini convivono a combaciano, quando era in aula il professor Faggin tornava a essere il docente di “quel” Liceo di “quegli” anni, secondo quello che era il programma e quella che era la didattica di allora. Oggi sono portato a pensare che non solo il professor Faggin, ma tutti i docenti di quei decenni potessero esser chiamati “funzionari dello Stato”, un termine che oggi mi sembra scomparso, bene o male che sia, insomma non più usato per la categoria dei professori.
Erano funzionari dello Stato nel senso di una grande e inappuntabile serietà nell’adempimento delle funzioni del compito istituzionale, non soltanto nel senso di una tenuta della disciplina, della morale, dell’esempio, ma anche per quanto riguardava l’applicazione dei programmi scolastici. Credo che ora possiamo cominciare a ragionare sul docente e su che cosa insegnava Faggin e sul perché la insegnava.
È normale per tutti pensare che chi studia filosofia sia per ciò stesso un insegnante, ma non è sempre stato così e potrebbe ancora oggi non essere così, anche se gli esempi controfattuali sono rari. Da quando, in sintesi, avvenne la grande unificazione culturale dell’Europa sotto i modelli scolastico-istituzionali francese e tedesco, la filosofia sostituì la retorica delle scuole gesuitiche; e da allora chi studia filosofia è ipso facto un docente di filosofia. O almeno così è stato certamente per Hegel, che è ancora oggi il fondamento di larga parte della cultura moderna ­ ma non di tutta. Basterà citare il nome di Socrate, da cui nasce la filosofia come ricerca; ma anche quelli di Kierkegaard e Schopenhauer, per ricordare due filosofi amati e studiati proprio da Giuseppe Faggin.
Giuseppe Faggin era, secondo la mia opinione, un professore necessario. Voglio dire che era un professore per il quale la professione di professore era necessaria, cioè gli veniva dall’interno. Non era una soluzione fra quelle possibili nella vita. Gli veniva da dentro per motivi profondi, non soltanto da un amore per il dialogo con i giovani, un amore che sottostava (ma c’era, fungeva) a quelle forme severe e qualche volta burbere, persino talora ispide, che aveva nei confronti degli alunni e delle alunne (che allora erano pochissime, in un rapporto ribaltato rispetto a oggi). La ragione interiore era che il suo tipo di ricerca filosofica implicava a un certo momento la necessità dell’insegnamento. E qui propongo di fare un passo indietro per farne, come si suol dire, due in avanti.

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