L'onestà del Duce nessuno ha mai osato contestarla. E' uno storico di matrice socialista, Silvio Bertoldi, che lo ammette. "Mussolini non tradì cupidigia di denaro, egli non mostrò mai interesse alla ricchezza: e non si può contestare che un uomo che ebbe come lui in mano per vent'anni una nazione, e che non subì alcun controllo in nessun campo, avrebbe avuto facoltà - purché avesse voluto - di costruirsi una fortuna. Invece quando morì, alla vedova non lasciò praticamente nulla, la già citata villa Carpena e una casetta a Riccione; la sua famiglia uscì netta da qualsiasi indagine della commissione per gli illeciti arricchimenti". Prima della morte, a Gargnano, viveva in povertà certosina. Giovanni Dolfin racconta che non volle accettare nemmeno lo stipendio di capo della RSI, dicendogli: "Ma di che cosa ho bisogno io, ormai? Mangiare, non mangio più nulla. Vestiti non me ne occorrono. Cento lire al giorno mi bastano". Quinto Navarra, il fedele e pettegolo cameriere, testimonia che nei due anni di permanenza sul Garda, si comprò solo due paia di stivali e, per gli abiti, mandò a stringere da un sarto quelli che aveva per non comprarne di altri. Chiavolini, suo segretario particolare, narra che dovendo il Duce venire a Roma da Milano ed alloggiare in albergo, prese con sé venti biglietti da dieci lire ed era turbatissimo poiché pensava di avere addosso un patrimonio. Come si sa, per tutta la durata del Regime, non prese mai lo stipendio di Primo Ministro e viveva scrivendo articoli sulla stampa estera. Lo conferma anche Nicola De Cesare, che fu suo segretario dal '41 al '43, il quale aggiunge: "Tutti i denari che gli pervenivano come lasciti, elargizioni e altro, li consegnava a me perché li amministrassi. Andavano, fino all'ultima lira, in sussidi e beneficenza. Distribuivamo circa diciotto milioni di sussidi all'anno, milioni di allora"
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