Melkitsedek. Il mistero di una figura biblica
di Nuccio D'Anna - 17/06/2014Fonte: Arianna editrice
Lo scritto che segue costituisce la Presentazione del libro di Nuccio D’AnnaMelkitsedek. Il mistero di una figura biblica (ed. Il Leone Verde, Torino 2014, € 16). Ringraziamo l’Autore per il gentile consenso alla pubblicazione.
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La figura di Melkitsedek si trova menzionata nell’Antico Testamento solamente nel Genesi (14, 18-20) e nel Salmo CX (v. 4). Nel canone neotestamentario, indirizzando ad una comunità cristiana la sua Epistola agli Ebrei (7, 1-18), anche San Paolo si sofferma sul significato ontologico di questo straordinario personaggio con un’ampia esegesi che sembra persino rimodulare formule midrashiche. Melkitsedek ritorna ancora con mansioni particolari in un paio di rotoli scoperti a Qumrân, affiora in alcuni aspetti del simbolismo e delle speculazioni rabbiniche (Targum di Gerusalemme, Talmud di Babilonia, Targum della Biblioteca Vaticana, Midrash Rabba, ecc.), infine lo ritroviamo in vari scritti gnostici e in qualche opera dei primi Padri cristiani. Tuttavia, rispetto ai testi biblici tutte queste speculazioni presentano importanti variazioni che spesso ne cambiano la funzione, i riferimenti simbolici, il radicamento dottrinale e la stessa prospettiva complessiva.
Gli elementi essenziali del sostrato spirituale che è stato sempre saldamente connesso con Melkitsedek vanno ricercati nello speciale radicamento dottrinale che ha alimentato la sua apparizione biblica e ne ha fatto senza alcuna incertezza “il re di Salem” e “il sacerdote dell’Altissimo”. C’è una continuità profonda che lega il Melkitsedek “re e sacerdote” del Genesi, la sua fugace menzione nel Salmo CX (il più ricco di princìpi e dottrine messianico-regali) e l’articolata esegesi sul “sacerdozio eterno” fatta da San Paolo nella sua Epistola agli Ebrei. Né si può ritenere frutto di una pura casualità il fatto che la prima apparizione biblica di Melkitsedek ha comportato la missione tutta particolare di Abramo quale artefice del “Patto di Alleanza” con Dio; la seconda menzione ha toccato la funzione “assiale” della regalità di Davide, l’”Unto del Signore” che avrà il compito di edificare Gerusalemme, la “Città Santa”; e infine l’esegesi paolina ha indirizzato l’intero sostrato messianico emerso attraverso le precedenti apparizioni antico-testamentarie verso la figura di Gesù Cristo, il “Sacerdote Universale”. D’altronde, la presenza di Melkitsedek nella storia della spiritualità cristiana non è stata certo episodica e può farsi rientrare nell’ambito di quegli eccezionali personaggi che il p. Jean Daniélou ha definito non senza acume storiografico “santi pagani dell’Antico Testamento”. La sua importanza nella vita ecclesiale è testimoniata persino dall’elevazione agli onori degli altari di un San Melkitsedek celebrato il 26 luglio nel calendario liturgico armeno, il 26 agosto in quello della Chiesa Cattolica e l’8 settembre in quello etiope.
E tuttavia, nonostante le continue menzioni Melkitsedek resta una figura enigmatica con una sua particolare storia che ha toccato ambienti culturali e spirituali diversissimi. Alois Dempf e Ernst Hartwig Kantorowicz hanno potuto documentare l’esistenza di una vera e propria “religione regale” che durante tutto il Medioevo si è richiamata costantemente a Melkitsedek, alle radici spirituali che ne hanno sostanziato l’importanza e al ruolo dottrinale sotteso dalla sua presenza nel Salmo CX. I loro studi li convincevano che il richiamo a Melkitsedek da parte di molti dottori e scrittori di “teologia politica” indicava una sorta di riferimento “esemplare” inteso a realizzare una organizzazione della società medievale fondata sulla centralità spirituale del sovrano e sulla sacralità della sua persona. Persino Dante fa fuggevolmente menzione di Melkitsedek e nel Paradiso (VIII,125) lo raffigura come l’esempio tipico di colui che ha corrisposto felicemente agli “influssi celesti” che ne hanno indirizzato la specialissima vocazione sacerdotale. La “sostanza” umana è stata plasmata totalmente dall’”essenza” divina e perciò nella sua persona si è realizzata in pienezza la Volontà del Creatore. Ma il Medioevo ha visto anche la circolazione del De tribus impostoribus, uno strano libello attribuito dal papa Gregorio IX agli intrighi politici e alle mene anti-ecclesiali dell’imperatore Federico II e del suo cancelliere Pier delle Vigne. In realtà, gli elementi essenziali di questo racconto erano affiorati per la prima volta nel mondo culturale degli Ebrei di Spagna (poi nel XV secolo verranno trascritti nelloSchévet Jehudà di Salomon ben Verga), ma li ritroviamo anche nel Li dis dou vrai aniel, nei Gesta Romanorum (cap. 89), nel Novellino (LXXIII), nell’Avventuroso Ciciliano (III, 5) di Bosone da Gubbio e con più dottrina, completezza e perizia narrativa nella celebre terza novella del Decameron di Giovanni Boccaccio. Dietro il velo di una divertente, ma feroce satira contro i “falsi profeti” Mosè, il Cristo e Maometto, veniva orgogliosamente rivendicato non uno sconsolato scetticismo, ma l’esistenza di un’unica tradizione spirituale rimasta sempre nascosta dietro queste forme esteriori rispetto alla quale le tre religioni di origine abramica si sarebbero configurate come semplici anelli di un’unica catena. E l’autore di questa straordinaria favola raccontata certo non casualmente al sultano Salah-ed-din (considerato dagli scrittori cristiani del tempo un autorevole rappresentante di quella “cavalleria spirituale” che attraversava senza distinzione alcuna il Cristianesimo e l’Islam), era un “savio giudeo” di nome Melkitsedek…
L’intento del presente studio non è solamente quello di delineare i tratti di un interessante personaggio che, pur presente autorevolmente in alcuni momenti del canone liturgico, per tanti aspetti sembrerebbe essere rimasto comunque impenetrabile, ma essenzialmente quello di fare emergere l’ambientazione religiosa e la dimensione ontologica dalla quale è fuoruscito Melkitsedek, i suoi legami con la storia spirituale israelitica, il ruolo “esemplare” che ha avuto nella fondazione della monarchia sacra davidica e la portata universale delle sue apparizioni nei momenti “epocali” delle vicende di questo popolo. Solo dopo aver delineato il valore universale della sua presenza nell’Antico Testamento si potrà capire perché San Paolo si sia premurato di soffermarsi con inusuale ampiezza esegetica sul significato spirituale di un personaggio così enigmaticamente poco presente nella Bibbia tratteggiandolo come il Typus del “sacerdote eterno” che il Cristo incarnerà nella Sua stessa persona e proclamando senza dubbio alcuno la sua “uguaglianza” (aphōmoiōmenos) reale ed effettiva con il Figlio di Dio.
Infine, in un capitolo specifico del libro si avrà cura di esaminare la portata teologica del personaggio di Melkitsedek quale appare in alcuni rotoli di Qumrân, nelle sette eterodosse, nelle correnti gnostiche e nel folklore. Si tratta di una variegata quantità di narrazioni che a volte mostrano rilevanti aperture dottrinali, ma che in massima parte fluiscono da una forma di cultura crepuscolare ormai definitivamente staccata dal radicamento rituale che l’aveva animata e spesso si presentano come pure sopravvivenze di cicli spirituali ormai spenti.
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