IL TRAMONTO DELL'OCCIDENTE- Ci siamo
lunedì 04 agosto 2008, 10:33
L’intramontabile "tramonto dell’Occidente"
di Maurizio Cabona
Non tramonta Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, dal 28 agosto di nuovo in libreria dopo più di 15 anni di assenza (Longanesi, pagg. 1.520, euro 50; pref. di Stefano Zecchi). Ideato come romanzo storico, scritto come saggio filosofico, doveva insegnare a pensare per continenti - come facevano inglesi, russi, cinesi, americani e giapponesi - ai tedeschi, se avessero vinto la Grande guerra. Spengler scomparve nel 1936, anno olimpico a Berlino; se ci fosse ancora nel 2008, anno olimpico a Pechino, sorriderebbe di chi umilia l’orgoglio serbo ed è umiliato dal neocesarismo cinese. Il tramonto dell’Occidente non è innocente, come non sono innocenti le Olimpiadi: fu l’apice del pensiero del capitalismo industriale germanico, sfidato dal capitalismo industriale americano, dal capitalismo mercantile britannico, dal capitalismo di Stato sovietico. Nell’egemonia del capitalismo finanziario globalizzato, Il tramonto dell’Occidente è ancora attuale?
Di padre tedesco, socialdemocratico ed esule negli Stati Uniti dal 1938, lo svizzero Jean-Jacques Langendorf è, come Spengler, un romanziere prestato alla saggistica. Del clima in cui piombò Il tramonto dell’Occidente, dice: «Era una Germania assetata di rivincita: il pessimismo del libro contribuì ad assicurargli un’accoglienza favorevole. Conteneva una grandiosa metafisica della storia, che parla di nascita, apogeo, estinzione delle civiltà. Qui eccelle Spengler, soprattutto filosofo di minacce incombenti: dominazione delle masse, del denaro, della tecnica, esaurimento della democrazia».
Nell’Italia d’un altro dopoguerra di sconfitta, però di ricostruzione democratica, Il tramonto dell’Occidente, inno a un neocesarismo a quel punto sconfitto, fu tradotto da Julius Evola. A certi neofascisti sembrò la versione imperialistico-cesariana della Rivolta contro il mondo moderno di Evola stesso (1934); invece era la Rivolta a echeggiare il Tramonto in chiave nostalgico-aristocratica.
Storico delle idee e diplomatico, Maurizio Serra radiografa la recezione italiana di Spengler: «Non è abbastanza filonazista per essere idolatrato a sinistra come Schmitt e Heidegger; non scrive abbastanza bene per essere incomprensibile, né abbastanza male per esser ristampato spesso; non crede che l’Occidente si salverà dal tramonto, imbracciando il fucile dopo ogni choc, tipo 11 settembre. Chiedere a Spengler la ricetta per la crisi dell’uomo moderno è come chiedere a Henry Miller come conquistare la compagna di scuola. Spengler fissa una direzione dove abbiamo paura perfino di buttare l’occhio». Come dir meglio?
Negli articoli de La città futura e de L’ordine nuovo, Antonio Gramsci notava, contemporaneamente a Spengler, l’ascesa degli Stati Uniti. Firma storica del Manifesto, Nico Perrone insegna storia dell’America; ma prima ha appreso a pensare per continenti accanto a Enrico Mattei, impegnato con l’Eni nella lotta per le materie prime: «Per Spengler - dice Perrone - il primato dell’economia sulla politica è fattore di decadenza. Non si è sbagliato. La sua analisi è piaciuta alla destra del ’900. Forse solo la Chiesa cattolica, e lo dico da laico, ha capito che le diversità del mondo vanno accettate, e così cerca di resistere. Dalle altre parti c’è invece un’arroganza che accelera la conclusione di Spengler».
Alfiere del giornalismo italiano di grande respiro di cui oggi tanto si sente la mancanza, Piero Ottone è uno spengleriano: «Apprezzo Il tramonto dell’Occidente. Suddivide la storia del mondo in sette grandi civiltà che nascono, crescono, declinano: il nostro periodo attuale corrisponde alla decadenza dell’Impero romano. Cina, India, Africa sono per l’Occidente di oggi ciò che i barbari furono per Roma? Più che antagonisti, questi paesi sono concorrenti e le loro tecniche sono da imitatori, non da ideatori. E Spengler ne L’uomo e la macchina avverte che è pericoloso insegnare le tecniche».
Anche Gennaro Malgieri è giornalista; diventato parlamentare e consigliere d’amministrazione della Rai, dopo aver prefato Anni decisivi di Spengler (Ciarrapico), sintetizza: «Il tramonto è attuale perché l’Occidente è infedele a suoi valori e incapace di proporne di nuovi, colonizzato com’è da etiche, costumi e tradizioni estranee».
Luca Barbareschi è invece fra i rari attori, diventati parlamentari, a chiedersi, spenglerianamente: «Hanno un destino le civiltà? Forse sì. Gli italiani credevano le loro posizioni acquisite per sempre, senza capire che decadenza non è sacrificarsi, come si sacrificavano i genitori, ma è credere che qualcosa ti tocchi di diritto. Cinesi e indiani conquisteranno la nostra condizione di oggi, lasciandoci la loro di ieri».
Per il filosofo e sociologo francese Alain de Benoist, «Il tramonto dell’Occidente è uno dei libri più importanti del XX secolo. Tanto citato e poco letto, ha due messaggi: che il mondo mai è stato e mai sarà unificato, perché la Terra avrà sempre una pluralità di culture; che queste culture sono grandi organismi, che nascono, crescono, invecchiano e muoiono. La stessa civiltà occidentale va verso la fine. Visione tragica e pessimista, controcorrente rispetto a ogni “progresso”, che ha più possibilità di verificarsi che quelle di Huntington o Fukuyama».
Ma il diplomatico e storico Sergio Romano diffida: «Spengler fu un filosofo della storia, cioè un mediocre filosofo e un cattivo storico. Ma anche un filosofo della storia può essere uno scrittore affascinante. Leggere Il tramonto dell’Occidente come una chiave per aprire la porta del futuro dell’umanità, è una perdita di tempo. Leggerlo come segno del malessere europeo fra vigilia della Grande guerra e nazismo è una straordinaria esperienza letteraria».
Per il filosofo Emanuele Severino «Il tramonto dell’Occidente è tutt’altro che inattuale. È sovraccarico però di biologismo pseudoscientifico e ciò insospettisce i filosofi e gli scienziati. Ma se ne deve tener egualmente conto, fosse anche solo per prenderne le distanze. C’è il tramonto, ma i suoi motivi non sono quelli che dice Spengler, incapace di discutere il senso profondo della volontà di potenza».
Sindaco di Roma, città-simbolo di una delle civiltà evocate da Spengler, Gianni Alemanno considera invece Il tramonto dell’Occidente «una delle opere più importanti del “pensiero della crisi”, affermatosi in Europa dopo la fine della Grande guerra, ma le intuizioni spengleriane sul dominio della Tecnica e l’eclissi dei valori spirituali sono attuali. La civiltà occidentale si diffonde su scala planetaria, ma il suo sistema di valori è debole. E il concetto di “crisi dell’Occidente” è la chiave per interpretare il messaggio di Benedetto XVI».
Un regista che da Mosca, la “Terza Roma”, è passato a Hollywood, la “seconda Cartagine”, Andrei Konchalovsky, cita un altro Papa: «Il pensiero europeo reca i segni della crisi, sfociata ovunque in grossi scandali economici. Ai popoli mancano punti di riferimento, il denaro conta più della morale. Per Giovanni Paolo II, il secolo XX ebbe la dittatura politica e il XXI avrà la dittatura economica. Di tale crisi Spengler colse la radice nell’eurocentrismo. L’ignoranza prosegue in America nella politica di Bush e in Europa con l’illusione del tribunale dell’Aia di giudicare altri popoli».
Lettore de Il tramonto quando il libro circolava solo in tedesco, Alberto Pasolini Zanelli tiene l’America sott’occhio per Il Giornale. Ora ci racconta che «per le strade di Washington è ricomparso lo slogan che molti avevano incollato sui paraurti nel 1973 della crisi petrolifera: “Spengler era un ottimista”».
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