martedì 4 aprile 2017

L’ancestrale rito delle Persephoni a Bova



Un frammento di antichità magno-greca nella Domenica delle Palme



di Redazione FdS
Quella che stiamo per raccontarvi è forse una delle testimonianze più palesi di quel processo di sincretismo, ossia di contaminazione, che ha caratterizzato il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo, allorquando dottrine e culti di origine diversa, soprattutto nella sfera delle credenze religiose, si sono fusi dando vita a degli ibridi in cui non sempre sono distinguibili le matrici. Vi sono però casi in cui la leggibilità dei caratteri originari è particolarmente marcata, a dispetto del nuovo imprinting conferito ad un’usanza dalla dottina o dal culto “vincitore” a scapito di quello “soccombente”. Questo per dire che certe tradizioni sono frutto di un compromesso che storicamente ha permesso il passaggio dal “vecchio” al “nuovo” senza troppi traumi da parte del popolo. Un caso lampante è quello della processione delle Persephoni (popolarmente dette pupazze) che si tiene ogni anno a Bova, la Domenica delle Palme, nel cuore di ciò che resta dell’antica zona ellenofona in provincia di Reggio Calabria.
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Rappresentazione di Demetra legata ai misteri eleusini, si noti l'accostamento spiga di grano frutto del papavero da oppio: mantenimento della vita e trascendenza.
Si tratta di un rito antichissimo che non ha corrispondenze attuali nel resto della Calabria e che consiste nel portare in processione, fino alla Chiesa di San Leo, la principale di Bova, delle grandi sagome femminili costruite con foglie di ulivo (della varietà Chianota-Sinopolese), intrecciate con sapienza dai contadini intorno ad un asse di canna per dar forma a figure stilizzate dette appunto “pupazze”. Diverse per dimensioni, si distinguono in madri e figlie e sono adornate con fiori freschi di campo, frutta fresca e primizie. La processione si snoda per i vicoli tortuosi del borgo in un giorno sacro per il Cristianesimo (evocante l’entrata di Cristo in Gerusalemme), ma celebrando in realtà l’esplosione di vita insita nel ritorno della Primavera. L’ingresso in chiesa per la benedizione può forse considerarsi l’effettivo punto di passaggio fra un rito pagano celebrante la ciclicità della vegetazione e la relativa legittimazione in ambito cristiano attraverso il suo assorbimento all’interno delle festività pasquali.
Nella chiesa le pupazze sono disposte ai lati dell’altare presenziando alla liturgia. Terminata la messa, le Persephoni vengono portate fuori dalla chiesa, lasciando che la gente le smembri in varie parti dette “steddhi”, distribuite fra i presenti. C’è chi colloca almeno una “steddha” benedetta su un albero del proprio podere, dove rimarrà per tutto l’anno a simboleggiare il rapporto sacro che unisce uomo e creato, e chi invece la appende sulla parete della propria camera da letto o su un mobile accanto ad immagini sacre e foto di propri familiari. C’è poi un uso propiziatorio delle foglie d’ulivo benedette e che consiste nello “sfumicari”, ossia fare delle fumigazioni per allontanare il malocchio dalla casa e dai suoi abitanti. Questo momento del rito si esegue ponendo su un pezzo di brace ardente tre grani di sale più quattro foglioline consacrate disposte a croce. Il fumo prodotto dalla combustione viene utilizzato per “incensare” la casa accompagnandosi con la recita della seguente preghiera, evidente versione cristiana di qualche più antica formula apotropaica: “A menza a quattru cantuneri nci fu l’Arcangelu Gabrieli, dui occhi ti docchiaru, tri ti sanaru, lu Patri, lu Figghiu, lu Spiritu Santu. Tutti li mali mi vannu a mari e lu beni mi veni ccani. Lu nomu di San Petru e lu nomu di San Pascali, lu mali mi vai a mari lu beni mi veni ccani” (in mezzo a quattro cantoni c’era l’Arcangelo Gabriele, due occhi ti osservarono, tre ti sanarono, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. Che tutti i mali vadano a mare e che il bene venga qui. Nel nome di S. Pietro e nel nome di S. Pasquale che i mali vadano a mare e che il bene venga qui). Trascorso l’anno, i ramoscelli benedetti, continuano ad essere sacri e l’unico modo per disfarsene senza sacrilegio è incenerirli col fuoco.
Volendo fare una riflessione sulle possibili origini di questo rito non si può prescindere dal carattere di queste figure femminili, spesso imponenti, che ricordano il mito greco di Persephone e di sua madre Demetra, dee che presiedevano alla fertilità e all’agricoltura. Il mito, metafora del ciclo delle stagioni e della fertilità della natura, racconta che Persefone, figlia di Demetra e Zeus, venne rapita nel campo Niseo da Ade, dio dell’oltretomba, che la portò negli inferi contro la sua volontà per sposarla ancora fanciulla. Nell’oltretomba le venne offerta della frutta, ed ella mangiò senza appetito solo sei semi di melograno. Persefone ignorava però che chi mangia i frutti degli Inferi è costretto a rimanervi per l’eternità. La madre Demetra, dea della fertilità e dell’agricoltura, che prima di questo episodio procurava agli uomini interi anni di bel tempo e di raccolti, reagì disperata al rapimento, impedendo la crescita delle messi, scatenando un inverno duro che sembrava non avere mai fine. Con l’intervento di Zeus si giunse ad un accordo, per cui, visto che Persefone non aveva mangiato un frutto intero, sarebbe rimasta nell’oltretomba solo per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere con la madre il resto dell’anno. Così Persefone avrebbe trascorso sei mesi con il marito negli Inferi e sei mesi con la madre sulla terra. Demetra allora accoglieva con gioia il periodico ritorno di Persefone sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera ed in estate.
Il culto delle due dee fu molto praticato nell’antichità (in Grecia ad esse erano dedicati i celebri Misteri Eleusini la cui prima parte, i cosiddetti piccoli misteri, si svolgeva proprio in primavera nel mese di Antesterione) ed ebbe ampia diffusione in Magna Grecia dove addirittura si ricollegava la vicenda mitica a dei luoghi reali ben precisi. Non ci dimentichiamo che ci troviamo in un’area esposta nell’antichità all’influsso di Locri Epizephiri, una fra le località note per il culto di Persefone e Demetra. E’ probabile che già in epoca greco-bizantina, periodo nel quale tutta la Calabria era ancora ellenofona,  la tradizione cultuale avesse subito delle metamorfosi e che attraverso i secoli (per il passato, il rito di Bova è ad esempio particolarmente attestato nel ‘600) sia poi giunta fino a noi nella forma che conosciamo. Certo è che gli elementi per sospettare fortemente un collegamento con l’antichità pagana sono diversi: dalla duplice figura femminile della mamma e della figlia, all’utilizzo di fiori di campo e frutta per adornarle, elementi che non sembrano potersi inquadrare in ambito cristiano senza forzature.
Nettamente orientata in questa direzione è Alfonsina Bellio, specialista di Scienze Storico-antropologiche delle Religioni, che al misterioso rito di Bova ha dedicato il saggio “All’ombra delle pupazze in fiore. Antropologia di un rito nella Calabria grecanica” 

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Paese di Pentedattilo, legato alla Calabria grecanica


edito da Kurumuny con la prefazione di Vito Teti. Nel libro l’autrice analizza l’organizzazione della festa, ne indaga le origini ed il significato da essa acquisito per la comunità di Bova. In particolare cerca di comprendere come l’uso di portare in procesisone tali figure femminili abbia finito con l’incrociarsi col rito cristiano della Domenica delle Palme. “Diversi giorni prima, alcuni uomini – racconta l’autrice – hanno già portato grandi rami d’ulivo delle varietà locali, la chianota sinopolese, e canne lunghe, che servono per allestire le strutture portanti delle pupazze. Assemblate le varie parti la pupazza è pronta. La si decora con nastri colorati, merletti, rami di mimosa e margherite bianche e gialle e altri fiori spontanei e poi frutta in abbondanza. Alcune figure sono abbellite da orecchini a forma di minuscolo paniere o altri monili. Ci sono figure molto grandi e altre più piccole, che vengono definite “madri” e “figlie”, nel segno dell’evocazione del mito greco (Demetra e Kore-Persefone).
Un passaggio particolarmente significativo nella ricostruzione della Bellio è nel punto in cui sottolinea come lo stesso sacerdote nell’introdurre il rito metta in evidenza che queste “palme” evocano in realtà antiche figure mitologiche che segnano il passaggio dall’inverno alla primavera, dalla morte alla vita. In questo modo – sottolinea l’autrice – “i temi della Pasqua cristiana nell’omelia vengono ricondotti alla festa primaverile di morte e rinascita e quindi ad antichi culti agrari.”  Soprattutto nel succitato momento conclusivo del rito, ossia quello dello smembramento delle figure, la studiosa ritrova un rimando indiretto all’Eucarestia, sebbene in questo caso ad essere simbolicamente “ricordato”, distribuito e “mangiato”, è il corpo e il sangue divino della madre (Demetra) e della figlia (Persefone). Inoltre, chiamando in causa Luce Irigaray, massima teorica della differenza sessuale e sostenitrice della tesi che gli uomini hanno instaurato il patriarcato distruggendo le genealogie femminili, la Bellio analizza un altro aspetto del rito di Bova e cioè il fatto che “le pupazze, figure femminili in fiore, sono preparate e portate solo da giovanotti, in un periodo festivo in cui avviene uno scambio di doni tra fidanzati”. Una separazione di ruoli che vede gli uomini alle prese col compito di preparare e portare in corteo le pupazze, mentre le promesse spose svolgono quello di impastare i dolci pasquali per il proprio futuro marito.
Tutto questo ci fa rendere conto di quanto molteplici possano essere le implicazioni culturali di quella che ad occhi meno smaliziati può sembrare una semplice usanza del periodo pasquale. Un motivo in più per salvaguardarla e per tramandarne la pratica in un prezioso processo di conservazione delle nostre radici più autentiche.


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