domenica 9 aprile 2017

Il buon selvaggio

IL SELVATICO: ESSERE PRIMITIVO O «BUON SELVAGGIO»?




Mentre la cultura romantica ha visto nell'Uomo Selvatico un essere «puro», non inquinato, per convinzione o per inclinazione naturale, dalla società civilizzata, i positivisti, con minore enfasi, hanno considerato questo essere un chiaro esempio di quell'atavismo che già fece discutere al suo apparire e che fu al centro di ulteriori polemiche, in quanto principio delle non sempre felici teorie del Lombroso. "Per atavismo si intende la possibilità che ricompaiano, a distanza di alcune generazioni, caratteristiche degli antenati che erano scomparse nelle successive generazioni. Il termine è antico: fu ripreso da alcuni botanici del Settecento che studiavano la conservazione dei caratteri delle piante coltivate". [1] In Lombroso tale tema viene particolarmente analizzato per le sue caratteristiche «devianti» quando si ipotizzano certe teorie relative al «delinquente nato». Ma se riportiamo la tesi sul piano antropologico che ci interessa in questa sede, ci si imbatte in uno schema difficile da analizzare razionalmente. Infatti, secondo alcuni ricercatori, l'atavismo (peraltro non riconosciuto da tutti) non potrebbe essere utilizzato nello studio dell'Uomo Selvatico, in quanto le opportunità interpretative di questa teoria sono tali da non accordarsi al soggetto fin qui visto. In pratica è difficile pensare che un uomo, per gli strani meccanismi dell'ereditarietà, sia ritornato alle origini della specie, verso il periodo in cui la separazione tra uomo e animale antropomorfo non era ancora nitidamente tracciata. 

Esiste anche una versione contraria, sempre di matrice positivistica, ma comunque - secondo il nostro punto di vista - non completamente aderente al piano scientifico, che riconosce alla leggenda dell'Uomo Selvatico un'origine storica e vede nelle creature silvestri gli ultimi abitanti delle vallate alpine, ferme a uno stadio primitivo e pertanto considerate anomale, bestiali, anche mostruose, dal nascente complesso civilizzato. Più realisticamente, crediamo che l'ipotesi sia una delle tante versioni della metafora del primitivismo iniziale e che quindi l'arresto evolutivo vada inteso prevalentemente sul piano culturale, prima che su quello fisico e antropologico. Ci associamo a quanto sostiene Piercarlo Jorio, uno dei più sensibili studiosi della mitologia alpina, che riconosce negli uomini selvatici gli ultimi aborigeni delle valli, disadattati e ridotti a vivere in clandestinità da gruppi umani che progressivamente si andavano amalgamando con genti venute dal di fuori, oppure da situazioni climatiche peggiorate che costrinsero la maggior parte degli abitatori ad abbandonare le zone più elevate.

Noi crediamo che l'origine del mito del selvatico non sia da ricercare in un'alterazione del fattore evolutivo, per il quale l'essere vivente si adatta al suo ambiente attraverso l'acquisizione di caratteri che trasmette ai suoi discendenti (tale tesi ci conduce nella più sfruttata fantasy), ma piuttosto sia l'esito di una figura archetipica, ben presente nella vicenda culturale dell'uomo. Il selvatico, anche quando non partecipa a eventi straordinari (che diventano comunque tali in ragione delle loro irregolarità), veicola valori che da un lato sono l'ultimo riflesso dei nostri precedenti stadi, e dall'altro certificano il progresso raggiunto, designando uno stato sempre molto lontano da quello della cultura presa come riferimento. 
L'Uomo Selvatico, che appare più volte caricato dai significati associati, sul piano fisico e su quello culturale, all'uomo di natura, rispecchia ampiamente il noto «buon selvaggio», fino a essere l'oggettiva immagine del primitivismo più puro. [....] La cultura di cui è portatore il buon selvaggio appare naturalmente meno complessa e intricata di quella dell'uomo civilizzato: questa semplicità, in un'ottica antropologica priva di etnocentrismo, può essere considerata una virtù importante, in grado di permettere la salvaguardia di tradizioni non ancora corrotte dalle abitudini dell'uomo civilizzato.

Il ritorno dell'umano agli stadi dell'innocenza preistorica è visto dall'essere civile come una fuga ed è sempre accompagnato da una particolare sensazione di disagio, destinato in alcune occasioni a trasformarsi anche in un acceso odio verso la creatura ormai svincolatasi dall'universo di apparenti certezze in cui si è arroccata la maggioranza. Di conseguenza la contrapposizione instauratasi tra la cultura spontanea e quella istituzionalizzata è la stessa divergenza che intercorre tra lo spazio selvaggio e quello addomesticato, tra i luoghi pericolosi e i luoghi sicuri, tra mondo naturale e lo spazio controllato dall'uomo.

Il primitivismo può essere duro e tenero, ma comunque si tratta sempre di un ambito, malgrado tutto, impenetrabile, che non cede alle adulazioni del civile e solo in qualche caso gli offre parte delle proprie conoscenze, consolidatesi grazie alla simbiosi ininterrotta con l'ambiente naturale. L'Uomo Selvatico incarna, sotto un certo aspetto, i dati migliori del «buon selvaggio» e, sul filo di uno sviluppo ancora non travolto dai contatti esterni, trattiene nel suo primitivo ecosistema le caratteristiche tipiche dell'essere di natura per eccellenza. Il selvaggio è portatore di un codice fatto di elementi profondamente legati al passato e strutturati all'interno di un linguaggio che solo nell'ambito della natura trova una propria significanza. Selvaggi quindi, solo se visti da una distorta angolazione, ma depositari di una loro cultura, di un loro comportamento antropologico «diverso» e anomalo forse solo per questo suo aspetto.

Possiamo leggere, a conclusione delle nostre considerazioni, una pagina del diario che Paul Gauguin scrisse durante il suo soggiorno a Tahiti: le parole del grande pittore ci sembrano le più adatte per circoscrivere in poche ma nitide riflessioni la fragilità del radicato ma effimero concetto di selvaggio:Per vivere è alla natura che bisogna rivolgersi, essa è ricca è generosa: non rifiuta niente a chi chiede la parte che gli spetta dei tesori che essa ha in serbo sugli alberi, sulla montagna, nel mare. Ma bisogna saper arrampicarsi sugli alberi alti, andare sulla montagna e ritornare con carichi pesanti, prendere il pesce, tuffarsi, svellere dal fondo del mare la conchiglia saldamente attaccata alla roccia. Io, l'uomo civile, ero quindi inferiore, per il momento, ai selvaggi che vivevano felici nei dintorni, in un luogo dove il denaro, non essendo prodotto della natura, non può servire all'acquisto dei beni essenziali che essa produce; e mentre a stomaco vuoto riflettevo tristemente sulla mia situazione, scorsi un indigeno che gridava e gesticolava nella mia direzione. I gesti erano molto espressivi, traducevano la parola: il mio vicino mi invitava a pranzo. [2] 


NOTE

1.R. VILLA, «L'atavismo: ritorno al primitivo » in La scienza e la colpa. Crimini, criminali, criminologi: un volto dell'Ottocento, Milano, 1985, p. 246

2. Il diario di Paul Gauguin è stato pubblicato in Italia con il titolo L'isola dell'anima, Como 1987



Massimo Centini – L'Uomo selvatico. Dalla "creatura silvestre" dei miti alpini allo Yeti nepalese (Oscar Mondadori, pag. 156 e seguenti)

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