Capo Colonna: dal
culto pagano di Hera a quello di Maria Theotokos
Pasquale Attianese
A 12 km circa da Crotone, sul promontorio oggi chiamato
Capo Colonna, assolato ed arido d’estate, flagellato dai venti e dai marosi
nella stagione invernale, é situato l’antico tempio di Hera Lacinia. In realtà
del venerando santuario greco è superstite, purtroppo, ben poca cosa: una sola
colonna di stile dorico-arcaico e poche rovine rose ed erose dal tempo
inesorabile che passa su tutte le umane cose. Ed è un vero peccato, in quanto
la distruzione di tutti gli edifici pubblici, sacri e privati presenti
nell’antichità greca e romana, é andata sempre più incrementandosi per mano di
quell’incredibile creatura che osa definirsi raziocinante: vale a dire l’uomo.
Prova ne sia che leggendo qua e là tra le cronache medioevali, vi si trova che
il tempio era intatto fino al principio del 1500. Ma Don Pedro di Toledo,
governatore di Crotone per conto di Carlo V, non avendo a sua disposizione
pietra per edificare il castello e rafforzare il porto, ritenne molto
opportunamente e, aggiungiamo noi malauguratamente, aiutato in questo da alcuni
nobili del tempo, di servirsi per i suoi fini di riutilizzare i blocchi della
costruzione greca e di quelle di parecchie altre rovine esistenti nella Crotone
dell’epoca. I recenti scavi sono serviti a riportare alla luce molte
meraviglie, tra le quali l’ormai famosissimo diadema aureo, rinvenuto tra le
rovine del cosiddetto edificio B, a pochi passi dalla colonna, e sotto pochi centimetri
di terra. Tutto ciò ha contribuito a dare al promontorio una sacralità di
primo ordine, che non solo era già preesistente all’arrivo dei coloni greci, ma
si è via via sempre più rafforzato passando dal culto pagano a quello
cristiano.
E’ interessante in ogni caso, anche se
necessariamente per sommi capi, esaminare in che modo si è passati dal culto
per una divinità dell’Olimpo greco, alla particolare venerazione dei Crotonesi
antichi e moderni per la Madonna del capo, definita Odigitria ( = che indica la
retta via) e, ancor meglio, “Theotokos” ( = genitrice di Dio ). Un autore
latino, Servio, ci viene incontro per quanto riguarda l’origine del tempio
pagano ( in “Ad Aeneados”, III, 552 ) quando scrive : “Si dice che il tempio di
Giunone Lacinia venne chiamato cosi dal nome del re che lo aveva fatto
edificare, secondo altri dal ladrone Lacinio, che lì Ercole aveva ucciso e dopo
aver purificato l luogo, edificò il tempio”.
Un altro autore greco, Diodoro Siculo, narra: “
Herakles spintosi con i buoi verso l’Italia, si dirigeva lungo il litorale e,
dopo aver ucciso Lacinio che gli aveva sottratto alcuni capi di bestiame, colpì
mortalmente l’amico Kroton, anche se non volontariamente. Pentito ed
amareggiato lo seppellì con grandi onori, allestendo una magnifica tomba.
Predisse poi agli abitanti del luogo che colà, nei tempi a venire, sarebbe
sorta un’illustre città con lo stesso nome del morto”.( Diodoro Siculo di
Agirio, lib. IV, 24,7) .
Dai brani riportati di Servio e Diodoro Siculo si
evince subito che l’origine del tempio sia collegata con il mito di Herakles,
quello stesso che tanta parte ha avuto nella storia della Magna Graecia e, più
in particolare, di Crotone. E’ chiaro, però, che l’origine del santuario non
può essere ascritta ad Eracle, anche se nella leggenda vi deve essere per forza
un piccolo nucleo di originaria verità.
Una testimonianza più attendibile la si
rinviene in Lycofrone, l’autore dell’Alexandra. In essa viene enunciato un
fatto che potrebbe far risalire all’origine storica del
tempio. Questo poeta ellenistico ci fa capire che preesisteva a quello di
Hera un culto più antico, autoctono, anteriore alla venuta dei coloni greci,
dedicato ad una dea “ Portatrice di armi”. E’ evidente che tale culto fosse
indipendente dalla città di Crotone. Vale a dire: i coloni capeggiati da
Miscello di Ripe, ecista di Crotone, lo trovarono già presso gli abitanti del
posto e credettero bene lasciarlo intatto, sovrapponendogli, però, una divinità
dell’Olimpo Greco, appunto Hera, considerata la madre di tutti gli dèi.
Considerato altresì che il tempio era distante da Crotone, era necessario
difenderlo e fu per tale motivo che nel VI e nel V sec. av. Cr.
venne rinforzato in maniera adeguata. Il riconoscimento e l’identificazione
di questo culto si può fissare ai primi decenni del VI secolo av.Cr. , quando,
cioè, pare sia stata decretata l’erezione del tempio monumentale e di una
conveniente e solida cinta di mura protettive.
Grandissima era la considerazione del tempio
presso tutti i popoli limitrofi e non solo quelli. Ed ogni anno nel mese di
Maggio, si teneva l’adunanza di tutti popoli della lega Italiota. Ma sentiamo
cosa ci dice Tito Livio, storico romano, nell’Opera “Ab Urbe condita”, lib.
XXIV, 3, 3-7) :”Il nobile tempio, più illustre della stessa città, distava sei
miglia, santo per tutti i popoli intorno. Un bosco sacro, cinto da una fitta
foresta e da alti alberi di abete, ebbe nel mezzo rigogliosi pascoli, dove ogni
genere di bestiame sacro alla dea pascolava senza la guida di alcun pastore;
separatamente le greggi, secondo la loro specie, tornavano di notte alle
rispettive stalle, giammai violati dalle insidie delle fiere e nemmeno dalla
frode degli uomini. Perciò, con i grandi proventi di quel bestiame venne fusa e
consacrata una colonna d’oro massiccia. Il tempio divenne inclito non solo per
la santità, ma anche per le ricchezze. E vi attribuiscono alcuni miracoli, come
per lo più avviene per luoghi tanto insigni. E’ fama che nel vestibolo del
tempio vi fosse un altare la cui cenere nessuno vento avrebbe potuto muovere.”
Anche Plinio il Vecchio ( in “Naturalis Historia” lib. II -107) riferisce il
medesimo particolare. L’Interpolatore di Servio ( in “Ad Aeneados”, III,
52) riferisce un altro fatto strano che succedeva al Capo Lacinio :” In questo
tempio si dice che avvenisse questo di miracoloso e cioè se qualche fedele
avesse inciso il proprio nome con un ferro su una tegola, quella scrittura
sarebbe rimasta tanto a lungo quanto fosse durata la vita di chi aveva
scritto.”
Ma sentiamo ciò che dice il grande Cicerone nel
“De Divinatione”, I, 24,48 : “Celio scrive che Annibale, volendo portar via la
colonnina d’oro che era nel tempio di Giunone Lacinia, l’avesse fatta bucare ed
avendola trovata solida, stabilì di prenderla. Nella quiete della notte vide
Giunone che gli prediceva di non attuare il suo proposito e lo minacciava che
se avesse fatto altrimenti, sarebbe stata sua cura fargli perdere anche l’altro
occhio col quale vedeva bene. Questa visione non fu tradita da quell’uomo intelligente.
Pertanto con quell’oro che aveva fatto bucare, fece fondere una giovenca che
collocò in cima alla colonna”.
Ancora Cicerone, nel “ De Inventione”, II, I,I,
narra :” I Crotoniati, allora, vollero arricchire di pitture famose il tempio
di Giunone, che veneravano particolarmente. Così chiamarono Zeusi di Eraclea,
pagandolo a caro prezzo. Costui dipinse tutti i muri del tempio”. Altrove
viene riferito il particolare che il grande maestro, avendo in mente di
dipingere Elena di Troia, avesse scelto per modelle cinque bellissime fanciulle
della città e di ognuna di esse prese la parte migliore del corpo.
Come si vede, dunque, tra le poche fonti riportate,
ma tante altre lo confermano, il tempio di Capo Colonna rivestiva non solo
funzione massima di culto, ma anche storica. Si tramanda che il duce
Cartaginese, nella seconda guerra punica, quando stava per tornarsene a
Cartagine, si sia lungamente fermato presso il promontorio e Tito Livio (“ Ab
Urbe condita” lib. XXVII, 46, 16) scrive :” Il comandante dei Punici trascorse
un’estate presso il tempio di Giunone Lacinia e qui dedicò alla dea un altare
sul quale, in lettere greche e latine, narrò le sue imprese”.
Tralasciando di parlare delle tante spoliazioni
subite dal luogo sacro, vi è da dire che anche quando i Romani presero possesso
di Crotone , nel 196 circa av. Cr., il tempio continuò ad essere tenuto in
altissima considerazione, anzi i Duumviri che reggevano il Municipio di
Crotone, abitavano proprio sul Capo. Il grande santuario venne rinforzato con
marmi di Luni e tutto il recinto rinforzato in epoca repubblicana con muri ad
“Opus reticulatum”. Il culto della dea pagana Hera, identificata dai Romani
con Giunone, venne soppiantato dalla venerazione per la Madonna negra in epoca
Bizantina e da qui diventata Maria, madre di Gesù, in epoca cristiana. Volendo
meglio puntualizzare questa Ipostasi ( = sovrapposizione di culti ), è
necessario aggiungere che sotto la chiesetta attuale del Capo, durante gli
scavi di pulizia della fornace attigua e, più precisamente, nella parte a
strapiombo sul retro, nel 1993, si rinvenne l’abside della primitiva chiesa
sottostante, che insisteva su una stanza romana con muri ad opus reticulatum di
età repubblicana. Tale costruzione attesta in modo inoppugnabile che il culto
della Madonna di Capo Colonna era molto sentito anche in epoca medioevale
tra il V ed il VII sec. d. Cr.
Dovendo fornire anche l’origine del culto
cristiano, mi corre l’obbligo di dare altre notizie più recenti. La tradizione
cattolica tramanda che S. Luca era molto abile a tracciare immagini ed in
moltissimi posti è possibile rinvenire una raffigurazione della
Santissima Vergine Madre del Signore attribuita a S. Luca. Una di
queste immagini il Santo dipinse nei nostri luoghi e, secondo l’agiologia
popolare, proprio a Capo Colonne . E’ la figura di Maria di Nazareth, nel
sublime atto materno di donare al Divino Figliolo l’alimento della vita. Il volto
non era ancora ben delineato, perché San Luca voleva dare allo sguardo una
profonda espressione di vita, di soavità e di mistero. Un sonno profondissimo
lo colse accanto al suo lavoro e allorché si risvegliò egli vide con sommo
stupore che gli occhi ed il sorriso della Santa Vergine erano già compiuti
proprio come egli pensava e voleva. Si inginocchiò e pregò, perché
quell’impronta non era opera umana, ma divina. Il neofita cristiano, Dionigi
l’Areopagita raccolse la Sacra Immagine e la pose sul trono del tempio che
aveva visto per secoli svolgere il culto della dea pagana ormai in disuso. La
poneva, quindi, a custodia e protezione delle anime e della città più vicina al
capo Lacinio, vale a dire Crotone. Ma questi lidi, in tempi più tristi, furono
oggetto di continue scorribande saracene, avide di preda e rabbiosamente
contrarie ad ogni simulacro cristiano. La Santa Immagine della Madonna, rapita
dai miscredenti, resiste ad ogni tentativo di distruzione, facendo acuire la
rabbia. Decidono, quindi, di dare alle fiamme il dipinto, ma le fiamme nulla
possono contro la Sacra raffigurazione, se non quello di affumicarla solamente.
Insolentiti da questo fatto, gli infedeli buttano a mare il quadro, ma le onde
fecero approdare il dipinto nella città di Crotone, dove da allora ebbe altari
ed onori. Questa tradizione, anche ai nostri giorni, non si è mai incrinata. Si
è mantenuta intatta nei secoli. Le madri crotoniati di un tempo erano solite
narrare ai figli :”Com’Essa vinse le fiamme e la rovina a cui volevano dannarla,
così Crotone, protetta da Lei, ha sempre vinto tutte le rovine ! “
Volendo fornire qualche ragguaglio storico più
oggettivo non abbiamo, purtroppo, alcun documento che ci possa dar lumi
sull’origine del quadro. La figura è sicuramente di origine bizantina, specie
nelle parti meglio conservate e di fattura genuina: la testa della Santa
Vergine fino al sommità del petto, il volto del S. Bambino e l’insieme della
sua figura. Il resto mostra le tracce di chiari rifacimenti posteriori. La mano
destra, che dovrebbe sostenere con l’avambraccio il corpo del Bambino, ha una
posizione innaturale. Il braccio nemmeno si suppone, data la posizione della
mano. Il manto dalle spalle ai piedi è una sola macchia scura, alla quale, sul
davanti, è tracciato l’orlo più chiaro che, nelle volute, dovrebbe seguire
l’andamento delle pieghe del drappeggio del manto. Non vi è alcuna traccia di
doratura. In tutta la figura, oltre i toni carnicini scuriti e quella linea di
giallo offuscato, appaiono i toni rossi della veste del Bambino. Sotto l’azione
di luce bianca violenta, guizzano riflessi verdi e rossi, qua e là sul
manto. Manca il fondo, che, dal più lontano ricordo tramandato, è stato una
lamina metallica, di rame dorato dapprima e poi d’argento com’è attualmente. Il
dipinto non è su tavola, ma su tela a trama assai grossa, come si poté
verificare allorché si appose la preziosa corona. Allora fu necessario
consolidare tutto il dipinto, rafforzando con tela ed altri accorgimenti
l’intera parte posteriore. Le lingue metalliche, attorno alla figura, che
testimoniano le fiamme da cui fu avvolta l’Immagine ad opera dei Saraceni,
furono sovrapposte in epoche successive, ma non sono tracciate sul dipinto:
esse vogliono essere testimonianza del miracolo. A dire del dott. Raffaele Lucente,
grande studioso crotonese degli anni ‘30, non si può ritenerla opera originale
del primo periodo del cristianesimo, né sembra conservata com’era in origine.
Infatti le pitture mobili bizantine sono tutte su tavola e comunque dipinte con
tecnica diversa da quella che appare dal nostro sacro quadro nelle attuali
condizioni. Si sa che nel XII secolo, esattamente tra il 1000 ed il 1300
giungevano fino a noi, commerciate dall’Oriente, tavole dipinte, a soggetti
sacri. Le invasioni saracene dei nostri territori iniziarono nel IX secolo,
verso l’anno 890 susseguendosi nelle varie epoche.
In un periodo non precisabile, al Capo Lacinio
genti immigrate dall’Oriente portarono con loro una sacra immagine della Madre
del Redentore, opera originale bizantina. Sul promontorio costruirono un
saccello, assai semplice, che aveva anche funzione di asilo. In effetti la
chiesetta, formata da un vano centrale, con due annessi laterali all’esterno, a
scopo di rifugio, aveva la forma tipica dell’architettura semplice orientale.
Tutti e tre i vani avevano il tetto a cupola emisferica. In qualche incursione,
gli invasori oltre al saccheggio, presero di mira le sacre immagini,
distruggendo ed incendiando il piccolo santuario. La sacra tavola, manomessa e
danneggiata, ma difesa dai Cristiani locali, fu trasportata a Crotone, dove fu
messa al sicuro; per opera di qualche esperto ed ingegnoso artista, venne
trasportata con sapienti accorgimenti su letto di grossa tela rafforzata
da mastici e poi completata così come si presenta nelle attuali condizioni.
Perciò il dipinto è un abilissima trasporto della Immagine, che invece avrebbe
dovuto essere a mezzo busto, reso più grande con il completamento della figura
in piedi. Infatti la traccia del drappeggio non è riferibile allo stile bizantino.
Non si deve nemmeno escludere che il quadro, nel corso del tempo, abbia subito
successivi ritocchi o restauri, per le avarie certamente manifestatesi e dovute
alla pittura eseguita con mezzi il più delle volte inadeguati. Quindi,
accettando tutti i dati fin qui forniti, si ricava che il dipinto è un’opera
bizantina restaurata ( oppure apografata) nel XV secolo. Quello che è certo che
nel XVI secolo era già venerata. Né ci possono essere di aiuto gli
archivi monastici o quelli della Curia, questi ultimi, infatti, furono
certamente distrutti dall’incendio che devastò l’Episcopio e la Cattedrale nel
XVI secolo, così come ci viene attestato nei Reali diplomi esistenti
nell’archivio di stato in Napoli.
Questa carenza di fonti storiche, giova a tener sempre viva
ed eguale la tradizione leggendaria, tanto cara ai fedeli Crotonesi e del
circondario. Perciò la Sacra Opera rimane testimonianza di vicende remote,
avvolte nel mistero, ma sature di misticismo e di fede. Al cuore degli umili e
dei credenti è manifesto segno di protezione divina. E questo stato di fatto
viene annualmente dimostrato, nel mese di Maggio, dall’imponente e solenne
pellegrinaggio della terza Domenica del mese, durante il quale decine di
migliaia di persone si raccolgono in preghiera sotto il quadro della Madonna
negra, ma bellissima e taumaturga.
Crotone, 6 Maggio 1997
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