sabato 16 marzo 2013
L'uomo è grande quando conosce i suoi limiti, solo così ritrova la sua Anima!
Per Dostoevskij l’uomo che vuole farsi Dio non riesce a diventare
neanche un insetto
di Francesco Lamendola - 13/03/2013
Fonte: Arianna Editrice
L’uomo moderno avrebbe voluto farsi un dio, il dio di se stesso, dopo
aver spinto nel solaio delle cose vecchie e inutili quell’altro Dio,
il Dio dei suoi padri, che lo aveva accompagnato per le innumerevoli
generazioni della sua storia; ma spesso non è riuscito a diventare
niente, nemmeno quell’insetto che pure, in certi momenti, avrebbe
desiderato essere.
Perché essere un insetto è già qualcosa, è già avere una forma, un
significato, uno scopo quale che sia: così almeno pensava Fëdor
Dostoevskij; mentre l’uomo moderno, che ha voluto farsi il dio di se
stesso, ha finito per perdere la propria essenza, precisamente in
quanto che di essa fa parte il legame con la trascendenza, con il
soprannaturale, con Dio; e mutilare l’uomo del rapporto con Dio, vuol
dire mutilarlo in quanto vi è di unitario, di originario, di
essenziale in lui. A quel punto, persino un insetto può apparire, al
suo confronto, come una creatura risolta e compiuta, armoniosamente
completa in se stessa e, dunque, più riuscita e più perfetta di lui.
L’uomo che fallisce nella realizzazione della propria umanità,
infatti, non è semplicemente qualcosa di meno di un essere umano, il
che già sarebbe tragico; ma viene ad essere qualcosa di meno di
qualunque altra creatura, fosse pure la più umile e nascosta, il
fallimento della propria umanità non essendo una condizione naturale,
ma innaturale, un tracollo e una inversione del giusto ordine delle
cose, dunque un “monstrum”. L’uomo che si allontana da Dio per farsi
dio egli stesso è una creatura mostruosa, demoniaca, abbandonata alla
mercé di forze devastanti; non le resta quasi più nulla di umano, ma
diviene una contraffazione dell’uomo così come era e come dovrebbe
essere, cioè fatto a immagine del suo Creatore.
Ne era convinto Dostoevskij, così come era convinto del sofisma insito
nella filosofia moderna, figlia del liberalismo e soprattutto
dell’utilitarismo di Bentham (pur se non lo nomina), il quale
affermava, e noi continuiamo a crederlo, che dall’egoismo di ciascuno
verrà fuori, in ultima analisi, non si sa come – e qui il filosofo
inglese tirava fuori dal suo cilindro di prestigiatore la Mano
invisibile, niente meno!) il bene collettivo, il bene comune.
Prodigio! Ciascuno badi al proprio utile, ciascuno badi alla propria
scalata al successo; e poi, che bellezza, verrà fuori il massimo utile
per il maggior numero di persone: c’è da star tranquilli, altro che
Divina provvidenza.
Dostoevskij scriveva le sue opere in un’epoca in cui gli esponenti del
Positivismo propagavano le idee di John Locke, di Adam Smith, di
Jeremy Bentham come fossero state verità rivelate e sostenevano, senza
batter ciglio né arrossire, che era possibile realizzare il vecchio
sogno dei “philosophes” illuministi: portare, attraverso il progresso,
il benessere, e dunque - perché sono sinonimi, vero? – anche la
felicità al genere umano; e aveva il coraggio di affermare che tutte
queste non sono altro che sciocchezze, giochi di parole della logica
astratta, chiacchiere e arzigogoli intellettuali senza alcun
fondamento.
E tutto è nato dalla presunzione e dall’ignoranza dell’uomo moderno:
dalla sua presunzione di aver capito tutto, dalla sua ignoranza circa
l’essenziale. La ragione, dice Dostoevskij, sa soltanto quel che
riesce a conoscere; ma la natura umana contiene molte più cose di
quante la ragione riesca anche solo a sospettarne: coscientemente e
incoscientemente. È assurda la pretesa della ragione di aver capito
l’uomo e, addirittura, di volerlo riformare, di volerlo rifare,
partendo dai suoi postulati scientisti, dalle sue astratte e
aprioristiche certezze.
Lo scrittore russo ne era convinto: dall’egoismo non nasce altro che
egoismo; dalla ricerca individuale del proprio utile, non nascono
altro che guerre e conflitti; dalla pretesa di portare agli uomini la
felicità insieme al benessere materiale, non nascono altro che funeste
illusioni, ingiustizie, sopraffazioni, crimini e delitti.
Così riflette il protagonista dei «Ricordi dal sottosuolo», dopo
essersi definito dapprima un malato, indi un malvagio e infine un uomo
odioso (da: F. Dostoevskij, «Ricordi dal sottosuolo»; titolo
originale: «Zapiski iz Podpolja», traduzione dal russo di Tommaso
Landolfi, Milano, Rizzoli, 1975, 1988, pp. 25-27):
«Voglio ora raccontarvi, signori, vi piaccia o non vi piaccia
sentirlo, nemmeno a diventare un insetto. Solennemente dichiaro che
molte volte ho voluto diventare un insetto. Ma neanche quest’onore m’è
stato concesso. Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è
una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo
sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta
parte di quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice
diciannovesimo secolo, il quale abbia, per sopramercato, la disgrazia
d’abitare a Pietroburgo, la più astratta e premeditata città
dell’intero globo. (Si danno infatti città premeditate e città non
premeditate). Sarebbe sufficiente, infatti, la coscienza di cui godono
tutta la gente cosiddetta immediata e gli uomini d’azione. Voi
pensate, scommetto, che io stia scrivendo tutto questo per posa, per
fare lo spiritoso ai danni degli uomini d’azione, e anzi per una posa
di cattivo gusto, che insomma stia facendo rumore colla sciabola come
quel mio ufficiale. Ma, signori, chi potrebbe menar vanto delle
proprie malattie, e addirittura trarne pretesto per darsi arie
d’importanza?
Ma che sto dicendo? Tutti fanno così; menano vanto delle proprie
malattie, e io magari più di tutti gli altri. Non ne discutiamo
neppure; la mia obiezione era assurda. Eppure sono fermamente convinto
che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una
malattia. Insisto su questo punto. Ma lasciamo da parte ciò per un
istante. Dite un po’ adesso: da che viene che, neanche a farlo
apposta, proprio nei momenti, sì nei precisi momenti in cui ero
disposto a prender coscienza di tutte le sottigliezze “del bello e del
sublime”, come si diceva noi un tempo, mi capitasse non già di
figurarmi, ma addirittura di compiere azioni basse e che… be’,
insomma, che magari tutti compiono, ma che a me, neanche a farlo
apposta, toccava d compiere proprio nel punto che avevo la coscienza
più chiara di non doverle compiere? Quanto più avevo coscienza del
bene e di tutte quelle tali cose “belle e sublimi”, tanto più
affondavo nel mio fango e tanto più ero disposto a metterci radici. Ma
il punto principale era questo, che tutto ciò non pareva capitarmi per
caso, ma anzi come se così dovesse essere. Quasi quello fosse il mio
stato normale, e nient’affatto una malattia o uno stato
morboso,cosicché alla fine, mi passò anche la voglia di lottare contro
questo supposto stato morboso. Andò a finire che quasi mi convinsi (e
forse anche me ne convinsi completamente) che quella, perché no, era
la mia condizione normale. Ma sulle prima, quante pene patii in questa
lotta! Non potevo credere che per gi altri fosse o stesso, e tutta la
vita tenni nascosto quanto mi capitava come un segreto. Mi vergognavo
(forse mi vergogno ancora adesso); arrivai al punto che provavo una
sorta di segreta, morbosa, bassa voluttà a tornarmene nel mio angolo,
in qualche sordida notte pietroburghese, e a dover per forza
riconoscere che, ecco, anche quel giorno avevo commessa un’altra
azione vile, che ormai non c’era più rimedio, e a rodermi internamente
per questo, a dilaniarmi coi denti, a struggermi, a succhiarmi tanto
che l’angoscia, alla fine, si mutava in una tal quale dolcezza
vergognosa e maledetta e, in conclusione, in vera e propria voluttà!
Sì, in voluttà, in voluttà! Insisto su questo punto. Io perciò ho
cominciato a parlare, perché voglio sapere con precisione se anche gli
altri provano tali voluttà. Mi spiego: la voluttà mi veniva qui
proprio dal senso troppo chiaro della mia bassezza; dal fatto che
sentivo da me d’essere arrivato al limite estremo; e che seppure
orribile, la cosa non poteva stare diversamente; che non avevo più via
di uscita, che ormai non sarei più diventato un altr’uomo; che se
anche mi fossero bastati il tempo e la fede, certo non avrei voluto io
stesso mutare; e se anche avessi voluto, non avrei combinato nulla
neppure in questo caso, perché, di fatto, forse non c’era nulla in cui
mutarsi. E il peggio è che alla fin delle fini tutto ciò avviene
secondo le normali e fondamentali leggi della coscienza raffinata e
per l’inerzia che da queste leggi direttamente deriva, epperò non
soltanto non puoi cambiare, ma anzi non ci puoi far nulla. Ecco ad
esempio una conseguenza di questa coscienza raffinata: è vero, sì, ti
dici, sono un ribaldo; quasi poi per il ribaldo l’aver lui stesso
coscienza della propria effettiva ribalderia sia una consolazione… Ma
basta… Ebbé, ho parlato, e che ho detto?... Come si spiega questa
voluttà? Ma io la spiegherò. Io andrò fino in fondo! Non per nulla ho
presa la penna in mano.»
Sono passati cinque secoli, ma questa confessione sembra uscita dalla
penna di messer Francesco Petrarca, appunto alle soglie della
modernità, ossia di quel moto di orgoglio della creatura che va sotto
il nome di Umanesimo. Vi ritroviamo, descritta con straordinaria
acutezza, la stessa analisi dello stesso fenomeno: la scissione
dell’io; e vi ritroviamo esposta la medesima conclusione, quasi con le
stesse parole: l’accidia come condizione permanente dell’anima,
l’accidia come paralisi della volontà e come naufragio del senso della
vita, ma anche come cupa, deplorevole voluttà di colui che ne è
afflitto.
L’uomo moderno, dunque, è precipitato nell’accidia, nella paralisi
morale, perché ha voluto farsi Dio, e il suo io è andato incontro a
una frammentazione inarrestabile, a un autentico sbriciolamento: si è
sbriciolato sotto la pressione di forze immani, soverchianti, che egli
stesso ha messo in moto, credendo di padroneggiarle e di servirsene a
sua discrezione: la ragione, ma senza amore e senza compassione;
l’audacia, ma senza la prudenza; la brama di dominio, ma senza il
senso della giustizia; l’ambizione, ma senza la fortezza; la
sensualità, ma senza la temperanza; la tecnica, ma senza il senso del
limite; la fiducia in se stesso, ma senza la necessaria umiltà e senza
alcuna autentica comprensione di sé.
L’uomo moderno è vittima di un accecamento, anzi, per essere precisi,
di un auto-accecamento: per aver voluto guardare la luce troppo da
vicino, senza la necessaria cautela, si è bruciato la retina ed è
diventato cieco; cieco, crede di vedere o dice di vedere meglio di
prima; bugiardo, per stoltezza o per orgoglio luciferino, tende a
traviare anche i suoi simili, a trascinarli con sé verso l’abisso:
qualunque cosa, anche gettarsi a capofitto nel precipizio, piuttosto
che ammettere l’accecamento, piuttosto che riconoscere di non vedere,
piuttosto che confessare di aver sbagliato, di aver peccato di
superbia, di aver delirato per folle presunzione.
E così non è riuscito a diventare neanche un insetto: vale a dire quel
che avrebbe voluto, in certi momenti, in certe situazioni, piegato
sotto il peso del castigo spaventoso che si è tirato addosso; ma non
ancora persuaso dell’errore, non ancora domato nel proprio immenso
orgoglio, non del tutto convinto di essersi cacciato in una strada
senza uscita.
Perché un insetto, in un certo senso, è qualche cosa di più perfetto
di un uomo mancato; e l’uomo è mancato quando rifiuta la propria parte
divina, quando calpesta la propria vocazione all’assoluto, quando
bestemmia contro lo splendore dell’Essere. Qualunque insetto possiede
la propria intrinseca dignità; l’uomo la possiede solo se rimane
all’altezza di se stesso, anzi, solo se si innalza al livello di ciò
che deve diventare. Ma, per innalzarsi, egli deve prima abbassarsi:
deve abbassare il proprio orgoglio, deve morire alla propria brama di
dominio, deve spegnere le fiamme delle proprie egoistiche e
disordinate passioni.
Solo allora, nella sconfitta apparente, egli ritrova la propria
grandezza e si avvicina a diventare quel che deve diventare: cioè un
essere spirituale, figlio della luce e dell’amore, e non un essere
carnale, acceso di brame inestinguibili, dominato da impulsi
primordiali, stravolto dal riflesso ghignante del grande Distruttore,
che lo istiga e lo trascina a suo piacere, quanto più egli crede di
essere il padrone di se stesso e il signore del mondo intero.
L’uomo mancato, l’uomo che non è riuscito a diventare veramente uomo,
non rimane sospeso a mezz’aria, come in una sorta di Limbo: precipita
in basso e diventa una creatura delle tenebre, un essere demoniaco;
anche se si ammanta di belle parole, anche se si circonda di sfarzo e
di potenza, anche se sale in trono e si atteggia a saggio legislatore
e a giudice giusto, egli è ormai perduto, senza scampo e senza alcuna
possibilità di redenzione, perché la sua anima luminosa è diventata
un’anima di tenebra.
Forse questo aveva in mente Heidegger, quando affermava che ormai solo
un Dio ci può salvare: la speranza che riflettiamo su un’intuizione
come quella di Dostoevskij, finché siamo ancora in tempo.
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