domenica 29 marzo 2015

La danza della trascendenza



La danza dei dervisci rotanti

Il Semà dei sufi (dervisci) Mevlevi
Articolo apparso sul n. 2 della rivista Sufismo, trimestrale di cultura e spiritualità, edita dalla Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia. - 2007

Il Samâc (in turco, Semà), detto anche "la danza dell'estasi", è il tipico dhikr della Mevleviyya, la Confraternita sufi fondata a Konya (Turchia) da Jalâl âlDîn Rûmî nel XIII° secolo.

Nel suo insieme, tutto il semà rituale ha plurime valenze. Anzitutto: i Mevlevi danzano a Konya un Semà rituale completo la seconda settimana di dicembre per celebrare la morte di Jalâl âlDîn Rûmî. Altamente emblematica, altamente spirituale, questa danza è l'espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero. Il Semà simbolizza l'ascesa spirituale - viaggio mistico dall'essere a Dio - in cui l'essere si dissolve ritornando poi sulla terra («prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono giunto so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari» disse il grande maestro sufi del IX secolo Dhu âl Nûn âlMisrî).

Partecipano al rito da un lato un gruppo di musici e cantanti (mëtrëp), dall'altro il Maestro (shaykh della Mevlevihane, in funzione di qutub, "polo"), il capo dei danzatori (semazen basë) e i danzatori, che nel rito completo del 17 dicembre a Konya sono diciotto. Tutti hanno un abito bianco sopra il quale portano un mantello nero. Nessun altro colore è ammesso, e tutti sono, rigorosamente, maschi.
La cerimonia è divisa in varie fasi. Il rito inizia con un nait (o naat, Naat âlSherìf, inno di lode al Profeta), o con la recitazione del wird che comprende i dieci passi più importanti del Corano (Âshr âlSherîf). Questa eulogia è in pari tempo una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati. Segue una introduzione (taksim) con improvvisazione di flauto (ney). Un suono di tamburi - seconda fase - simbolizza la creazione del mondo (Corano, 36ª81-82); e poi - terza fase - la dolce melodia di un ney, col suo suono sensibile e delicato rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.

Terminato questo concerto, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi. Mentre il coro accompagnato dall'orchestra inizia a cantarlo, entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti - come già detto - da un mantello nero, simbolo dell'ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall'Ego. Il Maestro ha un caratteristico copricapo nero avvolto dal turbante nero (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la loro pietra tombale. A passi lenti, i dervisci percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Ka`ba) tutto il perimetro per tre volte. 

E' il devr-i Veledî: il circolo del Sultano Veled, e rappresenta il cîlm âlYaqîn, cayn âlYakîn e haqq âlYaqîn («conoscendo la Certezza, vedendo la Certezza, sapendo la Certezza»). Poi si fermano su un lato lungo e ha luogo, con un lieve inchino, lo scambio reciproco di saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. Se a questo momento i danzatori si siedono, prima di rialzarsi battono all'unisono le palme delle mani sul pavimento. Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi (simbolo dell'alef, prima lettera dell'alfabeto arabo) rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle (nell'atteggiamento che aveva l'angelo Gabriele quando si rivolgeva al Profeta Muhammad prima di ogni discesa del Corano, e simbolo dell'Unità divina).

Ha inizio allora la fase più suggestiva, divisa in quattro parti, dette "saluti" (salâm). A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e - dopo aver allargato le braccia - sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala (devri veledi), la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un'ampia vorticosa immagine dell'Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro "saluti", interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell'ultimo "saluto", il Maestro stesso, "polo celeste" (qutb), compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.

Il primo "saluto" simboleggia la nascita dell'essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell'esistenza di Dio. Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d'una consapevolezza superiore, in cui l'essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l'essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), ed è l'estasi ed il superamento d'ogni transitorietà fenomenica. Il quarto "saluto" simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l'accettazione della materia dopo l'ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», illustrando i versetti 27-30 della 89ª sura del Corano, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.

La fase finale (Segan taksimler ve ilâhiler) è agita dai musici e dai cantori che recitano versetti del Corano, in particolare 2ª115. E' composta da son pe?rev, yürük-semaî, as?r, dalla Fatiha e da un'ultima preghiera (Mevlevi Gülbank) cantata per tutti i profeti e per tutte le anime dei credenti, e che si conclude con le parole dello Shaykh: «Hu diyelim (Noi Lo vediamo).» Infine tutti esclamano Hu (Egli; e cioè Dio, in assoluto), chiudendo il rito con questa affermazione che trascende il vocabolo "Dio" quasi a significare il superamento d'ogni descrizione possibile della divinità da parte dell'essere umano.

Il sufi, a qualsiasi Confraternita appartenga, compie un cammino evolutivo declinato in sette tappe; ognuna rappresentata da un profeta. Per l'elaborazione d'ogni tappa abbiamo sette simboli, la cui penetrazione aiuta il cammino. Essi sono: suono, luce, numero, lettera, parola, simbolo, ritmo e armonia. Nel semà, in cui si uniscono musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore, troviamo così espressi e presenti tutti e sette questi simboli, in una completezza che trasupera il solo pensiero-azione della preghiera musulmana, e rende così altamente suggestivo e globale questo particolare dhikr dei sufi mevlevi.
Concludiamo con quanto Rûmî stesso scrisse del Semà, nel suo Dìvàn-e Shams-e Tabrizî:

«Il semà è la pace per l'anima dei vivi,
e chi conosce ciò raggiunge la pace dell'anima.
Colui che desidera il proprio risveglio,
è quello che già dorme in un giardino.
Ma per chi dorme dentro a una prigione
il risveglio è soltanto un dispiacere.
Assisti al semà là dove si celebra un matrimonio,
non quando c'è un funerale, o in un luogo di dolore.
Chi non conosce la propria essenza,
colui ai cui occhi è nascosta questa bellezza lunare,
che se ne fa della danza e del tamburo?
Il semà è fatto per l'unione con l'Amato;
e per quelli che hanno il viso rivolto alla qibla
ecco, il semà rappresenta questo mondo e quell'altro.
E più ancora: il cerchio dei danzatori di semà
che dolcemente volteggiano ha nel suo centro la Ka`ba.
Se desideri la miniera della dolcezza, ecco, essa è là,
e se ti accontenti d'una briciola di zucchero, ecco:
questo dono è gratuito.»

La Redazione di "Sufismo"
rivistasufismo.it

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