mercoledì 1 agosto 2018

La fabbrica dei tumori alla vescica detta del PISANO


IL PROCESSO ALL’IPCA DI CIRIE’
Alexik
L’Industria Piemontese dei Colori di Anilina, proprietà delle famiglie Ghisotti e Rodano, era attiva dal 1922 per la produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche, potenti cancerogeni vescicali, la cui pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn.
Nocività note, dunque, già dalla fondazione dell’Ipca, ma non per questo i padroni adottarono provvedimenti. “I Ghisotti di tutto questo non se ne dettero per inteso. La loro fabbrica continuò a lavorare come prima, gli operai erano a mani nude, senza tute, senza maschere. Polvere e colori impregnavano i loro corpi, avvelenavano le loro vite”.
Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizione stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.
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Non si durava molto là dentro: “Ho 44 anni. Sono sposato e ho un figlio di tre anni. All’Ipca ci sono stato dal 1960 al 1962. Lavoravo nel magazzino delle materie prime. Per non sentirci male, ogni tanto scappavamo fuori a prenderci un po’ di fiato. L’anno scorso, a distanza di 15 anni da quando sono uscito da quell’inferno, ho incominciato a orinare sangue.
Intervistato sulle condizioni in fabbrica, Silvio Ghisotti rispondeva al giornalista: “Lei mi insegna, che nulla è più dannoso per un’industria che gettar via soldi inutilmente”. Parole di uno che sente di non aver nulla da temere. Non dal Comune di Ciriè, che nel ’67 cazziò violentemente gli operai che avevano chiesto aiuto al gruppo consiliare del PCI. Non dalla Provincia, che smarrì distrattamente la denuncia inviatale dalla Commissione Interna. Non dall’Inail, né dall’Ispettorato del Lavoro, che negò di aver mai fatto controlli, a fronte di più di un centinaio di morti. Né dal medico di fabbrica, che prescriveva agli operai che pisciavano rosso di bere meno vino e più latte. In compenso l’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Torino, pubblicò un ricerca allarmante sui tumori all’Ipca … ma senza dire, per ‘riservatezza’, il nome della fabbrica.
Gli operai capirono che dovevano fare da soli. Nel 1968 due di loro, Albino Stella e Benito Franza si licenziarono. Per qualche anno girarono tutti i cimiteri della zona, annotando i nomi dei compagni morti. Ne trovarono 134, e decisero che erano abbastanza.
Dovevano sbrigarsi a fare denuncia: anche loro erano dei “pissabrut“, dei “pisciarosso”, come venivano chiamati i condannati dell’Ipca. La loro inchiesta fu alla base dell’apertura del processo, che riguardò 37 casi di morte avvenuta e 27 di grave malattia in corso.  Tutti gli altri omicidi erano andati in prescrizione, o amnistiati.
Benito Franza non arrivò alla sentenza, ma fece in tempo a lasciare testimonianza : “Mi sono impiegato all’Ipca, come primo lavoro, nel 1951. Ero addetto alla produzione di betanaftilamina, e usavo materiali che mi hanno fatto venire, come ho saputo 15 anni dopo, il cancro alla vescica. Lavoravo in questo modo e mi risulta che anche adesso i metodi non siano cambiati: con una paletta a manico corto prelevavo il beta naftolo in polvere e caricavo così, insieme ad altri elementi, un’autoclave, si passava quindi alla cottura e poi svuotavo l’autoclave immettendo la miscela bollente in appositi filtri sistemati all’aperto vicino ai reparti. Durante tutta l’operazione la miscela bollente entrava a contatto con l’aria e sollevava una gran nube di vapore velenoso che passava in tutti i reparti, e che veniva respirato da tutti gli operai, i quali si sono ammalati tutti come me e continuano anche adesso a d ammalarsi perché nessuno della fabbrica dice loro niente”.
E testimoniarono anche altri: “Gli operai usano tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi. I topi che entravano morivano con le zampe in cancrena. I topi non portano zoccoli“.
Quelli che lavorano ai mulini dove vengono macinati i colori orinano della stessa tinta dei colori lavorati (blu, giallo, viola, ecc) fin quando non si comincia ad orinare sangue“.
Quando lavoravo lì, c’era un paio di guanti in tutto per sei persone addette. Mi sono bruciato parecchie volte e ho ancora le cicatrici sulle mani“.
I colori e gli acidi che si sprigionano corrodono tutto, anche le putrelle del soffitto sono tutte corrose; figuriamoci i nostri polmoni, il nostro fegato, le nostre vie urinarie“.
In tutta la fabbrica ci sono solo alcuni aspiratori collocati sopra i tini dove viene fatto cuocere il materiale, ma non aspirano tutto. Evitano soltanto che si muoia subito e ci permettono di morire con un po’ più di calma. Una volta un aspiratore si è fermato e le 15 persone che erano nel reparto sono cadute in terra intossicate, e abbiamo dovuto salvrle portandole fuori“.
Il veleno lo mangiavamo anche a pranzo perché non c’era un luogo un po’ pulito dove potessimo mangiare la roba che ci portavamo da casa e che si impregnava di quegli acidi. Mai nessuno ci ha detto niente e noi non sapevamo che il nostro destino era segnato. In fabbrica c’era un medico ed un infermiere, ma in sei anni e più che ho lavorato non mi hanno mai avvertito del pericolo che correvo. Il medico mi chiedeva solo se fumavo, se bevevo, se mangiavo, e ogni volta mi diceva di mangiare di meno se gli dicevo di mangiare molto, di bere di più se gli dicevo che bevevo poco. Una volta che sono svenuto mente mi trovavo al gabinetto, mi ha misurato la pressione, e siccome era bassa, invece di avvertirmi che era colpa dell’ammoniaca, mi ha detto solo di mangiare di più.”
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Me ne sono andato dall’IPCA senza rendermi conto che il mio destino era segnato. I primi disturbi si verificarono nel novembre del 1966, con forti dolori addominali e fitte al basso ventre. La mia situazione attuale è la seguente: ho moglie e due figli. Non posso più fumare e bere, ho sempre dolori e devo restare sempre in cura. Anche questo però mi servirà a poco perché prima o poi morirò anch’io di cancro. Ma almeno so di che cosa morirò, e non come tanti altri compagni, morti di cancro, e che risultano essere morti di collasso cardiaco o polmonite“.
Ora, ripensando a quei tempi, mi rendo conto perché durante la lavorazione non c’erano mai i grandi capi o i padroni. Perché loro sapevano il rischio mortale che si correva a manipolare la betanaftilamina“.
Sono stato male sin dai primi tempi di lavoro presso l’IPCA. Tra il 1959 e il 1972 ho subito cinque ricoveri ospedalieri. Ricordo che una volta, nel mio reparto, venne a curiosare il figlio del dott. Graziano, chimico responsabile dell’IPCA. Questi, presenti io e altri due operai, vedendo il figlio che si avvicinava troppo a noi, mentre lavoravamo betanaftilamina, si allarmò e gli disse: “Togliti di lì, che quella roba fa venire il cancro“.
Sulle mie lenzuola e sul cuscino conservo ancora l’impronta del corpo di mio marito. Infatti, pur lavandosi e facendosi il bagno prima di coricarsi, la notte tutti quei colori che aveva in corpo uscivano, trapassavano il pigiama e le lenzuola rimanevano impregnate… Dormendogli accanto, sentivo un forte odore acido emanato dal suo respiro...”
Durante la prima udienza – ricorda l’avvocato di parte civile Bianca Guidetti Serra – il pubblico era così folto che si dovette cambiare aula. Venne accolta per la prima volta (e fece precedente) la costituzione del sindacato come parte civile in una causa per omicidi bianchi, e solo poche famiglie accettarono il risarcimento offerto dai Ghisotti per chiudere il contenzioso. La maggior parte resto’ dentro il processo. Spesero molto, i Ghisotti, negli onorari dei principi del foro, nelle perizie di illustri scienziati, ma non bastò ad evitare le condanne per omicidio e lesioni colpose (con pene fino ai sei anni in primo grado, lievemente attenuate in appello) di quattro dirigenti e del medico di fabbrica. Un altro precedente giuridico, perché per le morti per malattia professionale non era mai successo.
In quell’occasione, gli avvocati delle parti civili destinarono i propri onorari alla costituzione della “Fondazione Benito Franza”. Era nello stile di Bianca evitare di arricchirsi col mestiere.
Fonti:
  • Breve storia dell’Ipca. Come nasce una fabbrica della morte, in “Lotta Continua”, n. 11, 1978, p.6.
  • Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p.116.
  • Tecnici e classe operaia, in “Lotta Continua”, 23 giugno 1978, p. 10.
  • INAS-CISL (a cura di),La fabbrica descritta dagli operai. Il caso IPCA, Almeno so di cosa morirò, Torino, 1973.
  • Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p. 268.

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