sabato 7 aprile 2012

Vennero eliminati fisicamente per impossessarsi delle loro terre, con la Bibbia nella mano



Il grande olocausto dei nativi americani – quarta parte


Altri che in questo periodo si opposero alla colonizzazione furono i Creek del capo Red Eagle, noti come “Red Sticks”, per la caratteristica di piantare dei paletti rossi all’ingresso dei loro villaggi, che li distingueva dagli altri Creek, noti come “bianchi”, che invece erano per la collaborazione con i bianchi. Va detto che la loro rivolta fu di breve durata e molto costosa in termini di vite umane, specie perché contro i Creek “rossi” si mossero non solo gli americani, ma anche i Cherokee, loro nemici storici, che fra l’altro miravano ormai alla collaborazione con i coloni, visti i precedenti disastrosi e dolorosi tentativi di resistenza. A questi si unirono poi anche numerosi Creek “bianchi”, pensando così d’esser risparmiati. Dopo averli decimati in diversi scontri, il generale Jackson impose loro uno dei trattati più vergognosi che la storia ricordi, che venne siglato il 9 Agosto 1815: ai Creek furono confiscati 93.000 km2 di territorio, mentre coloro che avevano appoggiato i bianchi ottennero dei fazzoletti di appena 2,5 km2. Negli anni dal 1802 al 1825, i Creek firmarono altri trattati per effetto dei quali dovettero cedere altri 60.000 km2 di territorio in cambio di un posto sicuro in una riserva a Indian Springs e 25.000 dollari. Con questi accordi, il destino di questa tribù fu segnato per sempre.
La stessa sorte toccata a questi Indiani fu praticamente identica per tutte le tribù dell’Est. La “soluzione finale”, ossia la deportazione di tutti gli Indiani residenti nelle colonie al di là della “frontiera permanente” nelle grandi pianure disabitate, venne programmata dal presidente Jefferson ed attuata a partire dal 1825 durante la presidenza Monroe sotto la spinta del “partito del Bisonte”: con questo nome erano noti alcuni membri del Congresso. Il loro portavoce Brackenbridge dichiarò che: “Non avendo fatto buon uso della loro terra coltivabile per secoli, gli indigeni avevano perduto ogni diritto su di essa, altrimenti si sarebbe dovuto ammettere anche un diritto dei bisonti sulla terra”. Secondo Brackenbridge quindi gli Indiani non avrebbero dovuto godere che dei diritti che si concedono ai bisonti e il loro sterminio sarebbe stato utile al progresso civile e persino un onore per chi avesse provveduto a compierlo.
Il piano di deportazione conobbe il suo apice sotto la presidenza del già citato Jackson, allorquando il Congresso approvò il “Removal Act”, un documento che predisponeva la deportazione di tutti gli Indiani ad Ovest di una linea chiamata “frontiera permanente”. Questa linea partiva dal Lago Superiore, attraversava Iowa e Wisconsin, seguendo i fiumi Arkansas e Mississippi giungendo fino al Red River. Va detto che fino ad allora la dirigenza coloniale aveva spinto gli Indiani a seguire la via della “civilizzazione” e a fondersi con la cultura “bianca”, ma ora iniziava una vera inversione di tendenza. Molte tribù avevano recepito il messaggio assumendo comportamenti pacifici e operosi, avviando un progressivo abbandono dell’uso delle armi. Ma fu soltanto un pretesto, un inganno, tutto quanto proveniva da parte bianca era falso ed pianificato per altri obiettivi. Lo scopo dei colonizzatori era solo quello di espandersi, conquistare e saccheggiare: nessun atteggiamento da parte indiana poteva considerarsi soddisfacente dinnanzi ai criminali anglofoni. La deportazione degli Indiani fu uno degli atti più infami mai perpetrati da esseri umani a danno di loro simili: milioni di persone furono così strappate alla loro terra natale sino a diventare dei profughi nel loro stesso Paese. Furono programmate le distruzioni di culture e tradizioni millenarie, sostituendole con un tentativo di “fusione a freddo” che avrebbe comunque assorbito e annullato le usanze native nella cultura anglosassone coloniale dominante sul piano della forza politica e militare: era l’embrione di un atteggiamento che avrebbe forgiato col tempo la condotta degli Stati Uniti d’America in politica estera nei secoli successivi, e che continua ai nostri giorni nella stessa identica maniera, sebbene in forme nuove e più “edulcorate”. Ma se odiosi sono i fini di questi assassini, forse ancora peggiori sono i mezzi: la deportazione fu infatti eseguita con calcolata crudeltà. L’Ohio, che era molto fertile, divenne subito una preda ambita dei nuovi padroni: le tribù che lo popolavano (Delaware, Huroni, Shawnee e Miami, più altri rifugiati di tribù smembrate) avevano combattuto per gli inglesi e la loro sorte era segnata. I Delaware partirono spontaneamente nell’inverno del 1809, per sottrarsi ai continui soprusi e a causa del freddo e delle malattie arrivarono decimati al di là del Mississippi, dove incontrarono solo altra miseria. Gli Shawnee, i Potawatomi e i Winnebago si rifiutarono di partire, ma furono costretti dai soldati coloniali conoscendo analoga sorte dei loro predecessori. I Cherokee, che avevano pure aiutato gli americani contro i Creek di Red Eagle e che ormai vivevano in modo del tutto uguale ai coloni, ricostruendo un’economia prospera e pacifica – con tanto di scuole, città, fattorie e che avevano raggiunto un livello di cultura molto elevato – vennero colpiti dal provvedimento. Inizialmente solo 2000 individui accettarono di andarsene, ma più tardi nelle loro regioni fu scoperto l’oro. Fu la fine. Contro i soprusi degli avidi cercatori del prezioso metallo, sostenuti dal governo centrale americano, i Cherokee erano senza tutele. Stretti in una morsa agghiacciante, questi Indiani furono costretti a firmare un trattato che imponeva loro di abbandonare la loro terra entro tre anni. Alla scadenza di tale data, poiché quasi nessuno accettò di andarsene, 7000 soldati americani penetrarono nel loro territorio e scacciarono le persone dalle proprie case con inaudita ferocia, costringendole all’esodo, secondo un percorso ricordato con il marchio di “Pista delle Lacrime”. Durante questa drammatica stagione morirono nei modi peggiori ben 4000 Cherokee. Identico fu l’esodo forzato dei Creek, che morirono in 3500, e simili furono le storie dei Choktaw e dei Chickasaw. I Sauk e i Fox invece scelsero di opporsi e resistere, ma furono sconfitti e seguirono il destino delle tribù scomparse, dopo aver fatto comunque pagare con 200 caduti un duro prezzo agli americani. La resistenza più dura fu però quella dei Seminole della Florida che, sfruttando la migliore abilità in un territorio paludoso ed infido, intrapresero una guerriglia, di cui le forze armate statunitensi ebbero ragione solo dopo molte campagne militari perdendo quasi 3500 unità tra regolari e miliziani. Quanto ai Seminole, dopo aver pianto la morte di circa 2000 individui, 3200 di loro vennero deportati ad Ovest. Resta tuttavia il ricordo di un eroismo scolpito nella storia, nella misura in cui un pungo di combattenti aveva per molti anni tenuto testa ad un esercito potentissimo. Finisce così l’era delle guerre dell’Est, con tutte le tribù di questo territorio deportate al di là della “Frontiera Permanente”.
Lo scavalcamento di questo nuovo confine, beffandosi ancora una volta degli accordi conclusi, dà il via alla quarta fase (1840-1865). Questo nuovo sopruso fu ufficializzato con il famigerato “Atto di prelazione”, un’autorizzazione per i coloni ad acquistare terreni immensi a pochissimo prezzo, rispettando l’unica condizione che i diritti dei nativi dovessero essere “estinti” prima dell’acquisto. In pratica, più che i loro diritti, i coloni trovarono molto più semplice estinguere direttamente i nativi: si trattava di autorizzare un genocidio, né più né meno. I primi a pagare furono i membri della ormai dimenticata tribù dei Karankawa, stanziati nella zona orientale nelle Grandi Pianure, che si scontrarono con i coloni. La ragione per la quale oggi questi Indiani non sono noti ai più è molto semplice: gli ultimi membri vennero avvistati nel 1855 ed erano rimasti solo in sei. Ma ben più numerosi e organizzati dei Karankawa erano i Comanche, che costituivano una vera e propria nazione indiana. Essi godevano dell’emblematico appellativo di Spartiati delle Pianure. All’inizio, contrariamente a quanto il cinema e i libri sul tema ci abbiano mostrato, i rapporti tra Comanche e coloni furono buoni e nel 1835 le parti avevano firmato un trattato con il quale si accordava libero passaggio ai coloni sui territori Indiani, ma l’enorme aumento del numero dei nuovi arrivati portava inevitabilmente questi ultimi a estendere continuamente il proprio dominio guastando così il clima di convivenza. A migliorare le cose non contribuì certo il governatore del Texas Lamar, salito al potere nel 1838, il quale dichiarò che: “L’uomo bianco e l’uomo rosso non potranno mai vivere insieme in armonia, per cui lasciate che la spada faccia il suo lavoro”. Lamar fu anche il creatore del corpo dei “Texas Ranger”, la cui funzione fu quella di “cacciatori di Indiani” e in questo si mostrarono mortalmente efficienti: armati con le nuove pistole Colt a cinque colpi (i Comanche e le altre tribù delle pianure del Sud disponevano quasi solamente di archi) fecero vere e proprie stragi tra i Comanche, che pure si battevano al meglio delle loro capacità. Ma se in qualche modo gli attacchi ai Comanche venivano giustificati agli occhi dei coloni dalla loro condotta bellicosa, di sicuro nessun motivo può essere valido per giustificare l’ulteriore deportazione e la decimazione degli Indiani che vivevano pacificamente nelle terre da loro assegnate in seguito al Removal Act. Questi Indiani erano un’unione di 19 tribù guidate dal capo Cherokee Takatoka e avevano fatto rendere al meglio il loro pur piccolo territorio, ma nemmeno questo era sufficiente per far desistere i coloni dalla loro brama di conquista. Lamar accusò gli Indiani di collaborare con il Messico e così decise di espellerli dalle terre che occupavano, nonostante il trattato avesse stabilito i loro diritti. I Cherokee non si piegarono a questo nuovo sopruso e misero in campo 700 guerrieri per affrontare i 500 soldati inviati contro di loro. Nonostante il loro coraggio fu un’ecatombe per gli Indiani. Dopo averli sconfitti in battaglia, i “nuovi americani” rasero al suolo i villaggi e li costrinsero ad una nuova emigrazione verso il Territorio Indiano, l’attuale Oklahoma. Poco dopo vennero seguiti dal resto delle tribù alleate.
Lamar, “risolto questo problema”, si concentrò contro i Comanche e l’azione che aprì questa nuova fase fu tra le più orrende e meschine mai viste nella storia del nuovo Stato americano.
Di fronte alla disponibilità dei Comanche a trattare, Lamar fece convocare i loro capi a San Antonio dal colonnello Fisher. Ma non appena i capi Comanche non risposero come il colonnello si aspettava, quest’ultimo decise di imprigionarli tutti. Naturalmente gli Indiani reagirono con violenza e morirono in 33. Dopo questo affronto, i Comanche non scesero mai più a patti con i bianchi. Gli scontri ripresero con rinnovata violenza: il 24 ottobre 1840 un gruppo di miliziani attaccò un villaggio Comanche in piena notte, mentre gli abitanti dormivano; 130 Indiani vennero sterminati, naturalmente senza distinzioni di sorta.
Altra grande tribù delle pianure che pagò un alto tributo di sangue furono i Cheyenne che, dopo alcune ostilità, firmarono un accordo che lasciava loro buona parte delle terre del Colorado e del Kansas. Nel 1858 in Colorado fu trovato un vasto giacimento d’oro e di fatto ogni accordo veniva a cadere: 150.000 coloni in preda alla “febbre dell’oro” vi accorsero in quel solo anno. Un nuovo accordo impose agli Indiani di cedere quei territori, ma la maggior parte dei capi non firmò.
La situazione era molto tesa e come al solito fu un incidente a dare il pretesto per gli scontri: in questo caso del bestiame lasciato vagare per la pianura venne raccolto dagli Cheyenne, che furono accusati di averli rubati e ne seguirono dei violenti scontri, nel più duro dei quali venne distrutto in villaggio Cheyenne in cui morirono 50 Indiani inermi. Tuttavia il capo dei Cheyenne del sud, Black Kettle, scelse di trattare. Allo scopo, gli venne concesso di alzare le sue tende nei pressi di Fort Lyon assieme agli Arapaho di Left Hand. Com’è logico che sia, questi Indiani si sentivano assolutamente al sicuro, ma si sbagliavano: non sapevano quanto era grande l’infamia dei loro avversari. La notte del 19 novembre 1864, 750 tra miliziani e soldati al comando del colonnello Chivington li assalirono con l’ordine di non risparmiare nessuno. Il massacro, in cui vennero letteralmente fatti a pezzi circa 300 Indiani, praticamente disarmati, finì solo alle quattro del pomeriggio del giorno successivo. Ogni possibilità di pacificazione era praticamente annullata e del resto era proprio ciò che i colonizzatori volevano. Il nuovo comandante militare del distretto del Missouri (del quale faceva parte la zona delle pianure), il generale Sherman dichiarò che: “Più Indiani uccideremo quest’anno,meno ne dovremo uccidere l’anno prossimo”. Il fatto che molti decenni dopo, gli Stati Uniti battezzeranno un loro famoso carro armato con il nome di questo generale è altamente significativo. Da parte loro, gli Cheyenne e i Kiowa erano decisi a non cedere la terra nella quale erano vissuti liberi per secoli. Del resto per chi pretende di fare la morale ancora una volta agli Indiani basti citare questo fatto, che fu poi una delle cause scatenanti del conflitto: mentre gli Indiani uccidevano i bisonti, di cui le pianure brulicavano, nella misura strettamente necessaria al loro fabbisogno, i coloni riuscirono a sterminarne quasi quattro milioni tra il 1872 e il 1874, estinguendoli e riducendo di conseguenza gli Indiani alla miseria, poiché il bisonte era alla base della loro vita. Dopo numerose battaglie che consacrarono alla storia nomi quali Satanta, Kicking Bird, Tall Bull, Lone Wolf – solo per citarne i più famosi – nel 1880 praticamente tutti gli Indiani delle Pianure del Sud erano confinati nelle riserve o uccisi. Dei 12.000 nativi Comanche, al momento dell’internamento definitivo nella riserva ne restavano solo 1650.
Nel deserto che occupa la parte meridionale degli attuali Stati Uniti, il destino dei nativi è identico a quanto visto precedentemente. In questa terra vivevano numerose etnie, tra le quali la più numerosa era quella degli Apache suddivisi in numerose tribù. Dopo avere inizialmente resistito vittoriosamente ai colonialisti spagnoli e ai loro eredi messicani, la loro vita fu sconvolta dalla scoperta di numerosi giacimenti minerari in quelle aree.
Le autorità del resto non misero mai veramente freno alle ambizioni dei cercatori: basti pensare alle ricche taglie che i vari Stati americani offrivano per gli scalpi Indiani. Proprio queste taglie furono alla base di uno dei più efferati crimini. Nel 1837 un minatore americano, John Johnson, finse di organizzare una festa a cui parteciparono diverse centinaia di Indiani. Quando questi ultimi erano ormai ubriachi, John Johnson ordinò ai suoi degni compari di aprire il fuoco sulla folla; dopo la sparatoria, questi “esempi di civiltà evoluta” si gettarono sugli Indiani completando l’opera con le armi bianche: alla fine dell’orrendo scempio, a terra giacevano i corpi scotennati di circa 400 Apache. Tra coloro che riuscirono a fuggire vi fu il capo Dasoda-Hae, noto tra i bianchi come Mangas Colorado, che in quel macello aveva perso le sue due mogli e che da quel giorno giurò guerra agli invasori. Nel 1840, lo stesso Mangas Colorado, che si era recato per parlamentare con alcuni minatori, venne catturato e orrendamente torturato. Molti “occhi bianchi” negli anni a venire conosceranno la vendetta di questo capo Apache. Simile fu la storia di un altro capo degli Apache, Go-Ya-Thle, passato alla storia con il nome di Geronimo, che, durante un massacro compiuto da soldati messicani, perse l’intera famiglia. Lo stesso dicasi per Cochise (il suo vero nome era She-ka-she),che ebbe il padre e quattro fratelli uccisi a tradimento dai messicani.
Nonostante questo episodio del suo passato, Cochise dapprima fu favorevole all’arrivo degli statunitensi,ma cambiò radicalmente opinione quando venne accusato ingiustamente di un rapimento e si cercò di arrestarlo. Egli riuscì tuttavia a fuggire nonostante fosse stato ferito da tre proiettili e giurò di vendicarsi. Dopo molti altri anni di aspre battaglie, Mangas Colorado, nel 1863 decise si firmare una pace con il nemico. Gli americani non si smentirono, e dopo aver dato il proprio consenso, invitarono Mangas a Fort MacLane. Tuttavia appena il capo si presentò venne immediatamente arrestato,accusato di vari crimini e fatto prigioniero. La notte stessa, venne uccise con un pretesto da una sentinella e il suo cadavero orrendamente brutalizzato. Cochise e Geronimo presero il suo posto lanciando continui attacchi agli insediamenti dei coloni. La reazione del governo degli Stati Uniti fu durissima e venne pianificata una campagna di sterminio vera e propria con l’ordine di annientare tutti gli Indiani che venissero trovati. Nel 1869 il generale Ord, incaricato delle operazione nell’“Apacheria”, scrisse: “Ho incoraggiato le truppe a catturare e sterminare gli Apache con tutti i mezzi e a cacciarli come bestie feroci. Tutto ciò,essi l’hanno fatto con vigore instancabile. Dal mio ultimo rapporto, più di 200 di loro sono stati uccisi,generalmente da distaccamenti che avevano seguito le loro tracce per giorni o per settimane nei loro rifugi di montagna,nella neve,tra gole e precipizi”. Mentre questi eventi sanguinosi mettevano progressivamente fine alla fiera nazione degli Apache, a Sud Ovest un dramma ancor più brutale si andava consumando. Gli Indiani che vivevano in California, dopo aver subito lo schiavismo e i soprusi dei conquistatori spagnoli, conobbero un ancor più crudele destino sotto il dominio statunitense. I fatti precipitarono quando nel 1848, quando in California venne scoperto l’oro: questo fatto portò sulle terre indiane ben 250.000 coloni nel giro di quattro anni. Per avere un’idea di cosa costò questa scoperta ai nativi californiani basti dire che erano circa 150.000 prima dell’arrivo dei colonizzatori: nel 1884 erano rimasti in 12.000, confinati in microscopiche riserve in cui imperversavano la fame e le malattie. Per non lasciare niente di intentato, i coloni americani vendevano di proposito bevande alcoliche a bassissimo costo con il preciso scopo di estinguerli definitivamente.

CONTINUA…

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