giovedì 5 ottobre 2017

La tradizione Etrusca nella Roma Arcaica

Tratto da Arianna Editrice

di Domizia Lanzetta - 01/03/2010

Dionigi di Alicarnasso definì Roma Polis Tyrrenèes, ponendosi in contrasto con quanto la letteratura Latina ci tramanda, ma senza arrivare a tanto è indubbio che la tradizione Etrusca abbia ispirato notevolmente la cultura Romana , anche se i  reali rapporti intercorsi tra Roma e la nazione etrusca restano un mistero.
Scena della Fondazione di AquileiaTuttavia, volendo prendere per buono il racconto della fondazione secondo gli autori classici, questa viene canonicamente collocata  nel secolo VIII, quando cioè l’Etruria era al massimo della sua potenza ed espansione.
Non volendoci soffermare sull’aspetto strettamente archeologico del problema, dobbiamo  riconoscere che, se non proprio una Polis Tyrrenèes, Roma è stata fin dall’inizio una città influenzata in maniera notevole dalla cultura e dalle tradizioni Tuscaniche, a partire dal rito di fondazione, celebrato secondo l’Etrusca disciplina, e compresi  una quantità di oggetti  che contraddistinsero la Romanità,  quali il fascio dei littori, la toga che discende direttamente dalla tebenna degli Etruschi, il lituus, termine che contraddistingue sia lo strumento rituale degli aruspici come la tromba di guerra, nonchè un certo numero di fonemi, accolti nel  vocabolario Latino .
L’impresa dell’ardimentoso Caio Muzio Scevola nell’accampamento di Porsenna, impresa che tutti conoscono, lo fa risplendere di una luce gloriosa, ma ciò che si trascura è il seguito della vicenda: riconosciuto e portato davanti a Porsenna, il giovane dichiara che, ci sono altri trecento  Romani già pronti a fare quel che avrebbe dovuto fare lui.
In trecento erano quindi in grado di confondersi con le schiere  Etrusche senza farsi riconoscere e così giungere fino al re ed ucciderlo. Questo vuol dire che dovevano essere capaci di muoversi, vestirsi, parlare come loro, e trecento sono un bel numero!
Molti anni dopo, quando l’età dei Tarquinii era passata da molti anni, si svolse un fatto molto simile che dimostra la facilità per un Romano di essere scambiato per Etrusco.
Dedica di Aule VibennaIl fratello del console Quinto Fabio Rulliano, dovendo portare dei messaggi segreti agli Umbri Camerti, si accinse a compiere un’impresa audacissima. Travestitosi da pastore, assieme ad un servo, si avventurò nel territorio Etrusco, passando per l’impenetrabile selva dei Cimini. Era questa una foresta spaventevole, abitata da animali feroci e priva di sentieri, per cui era facile perdersi, tuttavia il maggior pericolo era costituito dal fatto di essere  riconosciuto come Romano.
Durante il percorso, si imbatterono negli abitanti del posto, per la maggior parte pastori transumanti, e furono anche costretti ad attraversare alcuni villaggi: ciò nonostante sia lui che il servo parlavano a tal punto bene la lingua dei Tyrreni che nessuno si accorse della loro provenienza e poterono così arrivare indenni a destinazione .
Tito Livio ci spiega che, a quei tempi, i Romani dell’aristocrazia conoscevano alla perfezione la lingua  Etrusca , in quanto i giovani delle classi elevate andavano a compiere i loro studi a Caere. A quel che dice l’autore Latino, non si trattava semplicemente di comprenderne la lingua, nè di sapersi solamente esprimere correttamente, ma di parlarla senza inflessioni straniere, al punto da poter essere scambiati per uno di loro.
Questo ci fa supporre che non solamente nel periodo dei loro studi a Caere ma anche in Roma e nelle loro famiglie i giovani dell’aristocrazia parlassero abitualmente la lingua degli Etruschi, probabilmente perché a Roma, tra la fine della monarchia e gli inizi della repubblica, era in atto un vero e proprio bi-linguismo.
Ma è soprattutto in campo religioso che in Roma si fa sentire la cultura Etrusca. Gli stessi autori Latini, così solerti nello scindere la tradizione Romana da quella dei Tusci, riconoscono che il rito di fondazione fu effettuato secondo l’Etrusca Disciplina e ammettono anche che gli auspici degli Auguri cadessero sotto il controllo dagli Aruspici di Tarquinia.
Etrusco era anche il concetto di sacralizzazione dei confini, e ce ne dà testimonianza un brano, giunto fino a noi e tradotto dall’Etrusco in Latino ai tempi di Cicerone: Sappi che il  mare è stato separato dal cielo quando Giove rivendicò la terra di Etruria e stabilì che le pianure e i campi fossero limitati e misurati. Conoscendo l’avarizia umana e la passione suscitata in loro dalla terra, volle che tutto fosse definito dai segni dei confini. Questi segni, quando sul finire dell’ottavo secolo verranno da qualcuno rimossi, per questo delitto sarà condannato dagli Dèi. Se sono schiavi, cadranno in servitù peggiore, se padroni, la loro casa sarà abbattuta e la loro stirpe perirà per intero. Coloro che avranno spostato i segni (dei confini) saranno colpiti dalle peggiori malattie, la terra sarà poi scossa da tempeste, i raccolti distrutti. Sappi che queste punizioni avranno luogo quando tali delitti si verificheranno.
Nella dimensione religiosa Etrusca la terra è uno specchio sul quale si proietta l’ordine divino che è in cielo, di modo che l’idea del “confine territoriale” veniva considerato un archetipo che pre-esisteva alla creazione del mondo; essendo quindi presente in cielo tra gli dèi (e tale è la concezione magico-religiosa alla base del fegato di Piacenza), ne andava salvaguardato il riflesso che è sulla terra.
Infatti, al tempo dei Tarquinii, in occasione della costruzione del tempio di Giove Capitolino, il sacello di Terminus, dio dei confini, non solo non fu rimosso ma addirittura fu inglobato in quello di Giove. E’ chiaro che qui ci si trova al cospetto della concezione cosmogonica dei Tyrreni, dove Giove vi appare come dio creatore e protettore dei ”termini”, per cui Terminus si configura come uno degli aspetti di Giove medesimo.
Confini nello spazio ma anche nel tempo, in quanto, come per i Greci,  l’idea di infinità acquisiva una connotazione negativa. Così che anche il tempo si trovava a possedere un suo confine, che si manifesta nella configurazione ciclica dei saecula.  E’ quindi probabile che da queste concezioni siano derivati i celebri Ludi Saeculares.
Si tratta di una serie di cerimonie solenni, delle quali il più profondo significato resta un enigma. Queste cadevano ogni 110 anni, la loro proclamazione sembra che fosse considerata come l’annunzio del chiudersi  di un anello di generazioni che si estendeva per la durata che gli dèi avevano previsto. In questo caso concetto cosmogonico e genealogico si congiungevano nel momento rituale che segna il chiudersi di un qualcosa che è stata e che mai più può essere, ma che  conteneva in sé lo spazio e la promessa di un nuovo ciclo di generazioni ed eventi.
Le cerimonie avevano inizio con l’apertura del mundus del Tarentum, un sacrario sotterraneo posto sulla riva sinistra del Tevere. All’interno di esso era custodito un altare di Dite e Proserpina, sul quale veniva dedicato alle Ilithie e alle Parche un sacrificio notturno. Infine durante la terza notte, a conclusione delle cerimonie, si sacrificava alla Terra Madre.
Nel corso di queste solennità, nascita e morte, passato e futuro si accomunavano nell’idea del volgere fatale dei fusi delle Parche, nella suggestione del rituale notturno, nell’oscurità del grembo della Terra Madre.
Tutto era iniziato 500 anni dopo della fondazione dell’Urbe, in un momento decisivo in cui si disputava la supremazia nel Lazio tra i Romani ed i Prischi Latini.
Nel luogo medesimo dove generazioni dopo si sarebbero celebrati i Ludi Tarentini, l’esercito di Roma era sul punto di scontrarsi con quello dei popoli Albani. A quei tempi la zona era un deserto paludoso, ricco di sorgenti calde, dalle quali si sollevavano vapori sulfurei. E proprio lì avvenne il prodigio: ai Romani che erano già pronti a dare battaglia apparve un essere imponente, vestito di una pelle scura, il quale comandò loro di sacrificare agli dèi inferi.
Ricostruzione della RegiaSubito fu scavata una fossa, entro la quale venne eretto e consacrato un altare a Proserpina e Dite. Compiuto il sacrificio, la buca fu chiusa con uno spesso strato di terra. Chiaramente si trattava di unmundus, vale a dire un sacrario sotterraneo, dedicato agli dèi Mani.
Plutarco racconta che, anche al momento della fondazione di Roma, fu aperto un mundus e che dentro di esso i compagni di Romolo vi gettarono zolle di terra e primizie che avevano portato con sè dalle loro rispettive zone di provenienza.
Tutto questo faceva parte di quel rito Etrusco di fondazione, del quale gli autori Latini parlano.
Plutarco sostiene che al mundus era dato lo stesso nome col quale si denominava l’universo, e P. Festo afferma che esso rappresentasse il mondo invisibile dei Mani, mondo che esisteva parallelamente a quello di superficie.
Origine Tyrrenica di questo tipo di sacrari? E’ probabile, poiché il fonema usato per definirlo sembra proprio derivare dalla lingua Etrusca.
Infatti,  Munth in questa lingua significa “contenitore di cose sacre”, oppure anche “ordine e mondo”. Ma il nome potrebbe anche provenire da Mun, altro vocabolo Etrusco, che vuol proprio dire “luogo sotterraneo”. Inoltre l’entità sovrumana, vestita di pelle nera, ricorda Aita, il Signore degli inferi raffigurato nella tomba dell’Orco di Tarquinia: egli è infatti rappresentato con il capo e le  spalle ricoperti da una scura pelle di lupo.
Gli Etruschi credevano che le città, i popoli e le nazioni avessero assegnati un certo numero di secoli, oltre i quali la loro gloria e capacità di espansione cessavano. Questi concetti si trovano espressi in un insieme di scritti sacri, dei quali le ultime stesure sembra risalgano al I secolo a.C.
I Romani li considerarono degni di venerazione, in quanto in essi si riassumeva parte della sapienza religiosa dei Tyrreni.
Questi scritti erano costituiti da diverse tipologie di testi: i Libri Fulgurales per l’interpretazione delle  folgori; iLibri Aruspicini sull’arte di leggere nelle viscere degli animali; i Libri Rituales per conoscere e consacrare i templi e gli altari, ma anche l’organizzazione delle Curie, delle Centurie ecc….e di tutte le altre leggi relative al diritto pubblico e a quello pontificale (sembra che sia stato proprio da questo libro che i Romani abbiamo attinto i fondamenti per le leggi delle Dodici Tavole); i Libri Fatales, che servivano a scrutare oltre il visibile e a decodificare i signa e i portenta: i Libri Acheruntici, che trattavano delle divinità infere e delle leggi che dominano l’oltre tomba. L’insieme di questi testi costituiva la letteratura sacra, conosciuta con il nome di Etrusca disciplina.
Alla fine del I sec a. C. l’Aruspice Tarquizio Prisco, della famiglia dei Tarchna di Caere, e Aulo Cecina, tradussero dall’Etrusco al Latino parecchi di questi scritti sacri. Di essi vengono particolarmente menzionati gli Ostentoria, tratti dai Libri Fatales, dai quali J. Heurgon ritiene che Virgilio abbia ricavato le nozioni su cui si basano le profezie della  IV Egloga.
Quando poi Roma si avviava a diventare la padrona del mondo, Augusto volle che questi testi fossero custoditi nel tempio di Apollo Aziaco sul Palatino. Purtroppo, sia i libri dell’Etrusca disciplina come i Libri Vegonici furono fatti distruggere da Teodosio e Onorio.
Marce Camitlas CneveQuando l’Urbe era  al culmine della potenza e l‘egemonia Etrusca era cessata da un pezzo, ancora a Tarquinia risiedeva il collegio dei 60 Aruspici, al quale, per ordine del Senato, venivano mandati sei giovani, scelti tra le famiglie più illustri d’Etruria, perchè fossero istruiti nell’antica arte  dell’Aruspicina, affinchè questa si perpetuasse e non cadesse nelle mani di gente da poco o straniera.
E molti secoli dopo, e siamo già nel IV sec d. C., Macrobio inserisce nei Saturnalia due brani presi l’uno dalla traduzione di Tarquizio Prisco degli Ostentoria e l’altra dal trattato Sui prodigi degli alberi, sempre tradotto da Tarquizio.
In alcuni di questi libri veniva rivelato che il nomen della nazione Etrusca sarebbe durato 10 secoli: tuttavia è da tener presente che il concetto di saeculum si differenzia da quello che abbiamo noi; Censorino infatti ricorda che solamente gli Etruschi erano in grado di definire l’idea del saeculum. Per essi la durata del  saeculum era costituita dalla lunghezza della vita di ogni singola generazione, di modo che venivano a determinarsi secoli lunghi e secoli brevi. Erano certi che, quando uno di questi fosse stato sul punto di concludersi, ciò sarebbe stato annunziato da signa et portenta che si sarebbero verificati sia in cielo che in terra. Si trattava di “manifestazioni” molto particolari, che solamente gli Aruspici erano in grado di riconoscere e interpretare.  
Nella Vita di Silla Plutarco descrive uno di questi prodigi, manifestatosi nell’88 a. C. per segnalare il passaggio ad una nuova età: Dal cielo si udirono venire laceranti suoni di tromba, al che la gente terrorizzata corse a nascondersi nelle case, ma gli indovini Etruschi spiegarono che quello era il segno che la nazione Etrusca stava per passare dall’ottavo al nono secolo.
Un ulteriore mutamento si verificò assai presto, infatti il nono secolo fu brevissimo, durò solamente fino al 44 a . C. In quell’anno si verificò un altro fatto straordinario: l’apparizione in cielo di un cometa. Racconta Servio che, l’Aruspice Volcazio, presente all'’assemblea che si era riunita per commentare l’avvenimento, dichiarò che la cometa era apparsa per annunziare la fine del nono secolo e l’inizio del decimo.
Aggiunse poi che per avere svelato questo segreto, che doveva restare celato nelle cose e negli avvenimenti, egli sarebbe morto prima di aver terminato di parlare. Detto questo, si abbatté al suolo privo di vita.
L’episodio ci fa capire fino a che punto, sia per gli Etruschi che per i Romani, il passaggio da un saeculum all’altro fosse un avvenimento misterioso, del quale l’uomo comune può anche non accorgersi.
Interessante è il concetto che fa coincidere il passaggio da un secolo a un altro con il mutamento della mentalità delle nuove generazioni. Nel caso ora narrato si trattava del nono secolo della nazione Etrusca, previsto nella profezia. La previsione si rivelò esatta perché realmente il I sec. a. C. coincise con l’ultimo periodo di gloria della Dodecapoli, come era stato presagito nei Libri Vegonici.
Plutarco infatti spiega che la fine di un secolo per gli Etruschi significava un mutamento di mentalità delle genti  e che i prodigi servivano ad avvertire che stava per nascere un’umanità diversa, con una maniera differente di concepire la vita.
Anche per l’Urbe era stata annunciata una durata di un certo numero di secoli, aldilà dei quali sarebbe precipitata in un inarrestabile declino. Questo significa che Roma aveva accolto la concezione dei saecula, propria alla tradizione Tyrrenica.
Ma il mondo Etrusco continuò a vivere e a perpetuarsi in Roma.
Regnante ancora Anco Marzio, Tarquinio, denominato dai posteri il Prisco, si trasferì in Roma con i suoi servi e la sua famiglia. Arrivato ai confini della città, esattamente sul mitico colle di Giano, si verificò un portento: un’aquila apparve nel cielo e con le grandi ali prese a librarsi al di sopra del futuro re, poi improvvisamente discese fino a Tarquinio e, veloce come un fulmine, afferrò il suo pilleus, lo tenne per un attimo stretto tra gli artigli, quindi glielo rimise sul capo. I presenti restarono sgomenti ed impauriti, ma  Thanaquil, moglie di Tarquinio, sorrise.
Quello suo doveva  essere il sorriso intenso e terribile di coloro che sono in grado di comprendere il linguaggio degli dèi, un sorriso che noi possiamo ancora ora contemplare sui volti delle divinità arcaiche. Perchè Thanaquil conosceva profondamente l’Etrusca Disciplina, così che era in grado di intendere il significato degli ostenta.
Ella spiegò che quello era il segno di un’incoronazione sacra: per volere degli dèi ciò che avevano messo mani mortali era stato tolto ed era poi stato rimesso da mani immortali. Ciò significava che Tarquinio sarebbe diventato re e con lui  anche l’Urbe si sarebbe avviata  a divenire signora dei popoli vicini e  lontani. Da quel momento, l’emblema dell’aquila entrò tra i simboli di Roma.
Gli studiosi sono concordi nell’attribuire al primo dei Tarquinii l’istituzione dei simboli della regalità Romana. (l’aquila, la corona, la veste di porpora, la sedia curule). Inoltre fu al tempo dei re Etruschi che il culto della Sacra Triade assurse al livello più alto della religione di stato. Con i re Tarquinii giunsero in Roma anche i Ludi Scenici ed Equestri, e per questi ultimi Tarquinio fece sistemare ed ampliare il Circo Massimo ed istituì i Ludi Maximi, che ai nostri occhi sembrano essere solamente semplici anche se grandiosi spettacoli, ma che per i Romani avevano un risvolto sacrale e magico.
Generalmente si dice che, con Servio Tullio, si esca dalla leggenda e si entri nella storia. Ciò nonostante bisogna invece ammettere che con il sesto re si rimane più che mai nella leggenda e nel mito.
Si racconta che egli fosse figlio di Ocrisia, moglie di un principe di Cornicolo, una città vicina, vinta e saccheggiata da Roma. Catturata assieme al figlio bambino, Ocrisia fu resa schiava e  accolta con il piccolo Servio nella dimora del primo re Etrusco di Roma. Secondo Pallottino il nome Servio non sarebbe un vero nome bensì un appellativo, utilizzato per indicare il suo passato stato sociale servile.
I fratelli Vubenna tentano di rapire il profeta CacuMa ciò che lascia interdetti è la sorprendente analogia esistente tra una delle versioni del leggendario concepimento di Romolo e Remo e quello di Servio.
Infatti sia per i primi che per il secondo si tratta di un concepimento avvenuto ad opera di un misterioso dio, connesso al fuoco che ardeva nella dimora del re, il quale si sarebbe manifestato a entrambe le donne, materializzandosi nella fiamma del focolare della reggia. Anche la madre di Romolo, in questa variante della leggenda, peraltro riportata da Plutarco nella vita di Romolo, sarebbe stata una schiava della famiglia reale. In entrambe le storie, il focolare e la sua sacralità sono considerati di fondamentale rilevanza. 
Romolo e Remo nella  leggenda più conosciuta nascono da una Vestale, quindi da una custode del fuoco sacro della città, mentre nell’altra versione sono figli del misterioso Nume che abita il focolare e di una schiava del re.
Nel caso di Servio Tullio, troviamo invece una figura enigmatica, Tanaquil, regina etrusca di Roma e moglie di Tarquinio Prisco ed artefice della sua ascesa al trono. Tanaquil appare quindi come una personificazione della dèa Fortuna, alla quale  Servio era  più che a qualsiasi altra divinità devoto. La presenza in ambedue i contesti di una figura femminile in qualche modo connessa con il sacro e con la regalità fa pensare ad un ulteriore apporto nella mito-storia romana del pensiero religioso etrusco.
Interessandoci al sesto re di Roma non possiamo dimenticarci di Cele e Aule Vibenna. Si tratta di due PrincipesEtruschi di origine Vulcente, ai quali Servio Tullio appare strettamente collegato.
Di questi a parlarcene in un senso o nell’altro sono vari scrittori Latini: secondo Varrone nel corso della guerra contro i Sabini, Romolo ebbe per alleati i due fratelli Vulcenti e sempre Varrone racconta che il monte Celio prese il nome da Cele Vibenna e che, fin dai tempi di Romolo, nel luogo si erano insediate famiglie che provenivano dall’Etruria, le quali, in seguito, furono obbligate a trasferirsi ai piedi del Palatino. A causa di ciò venne a costituirsi il Vicus Tuscus, del quale ancora ai giorni nostri troviamo traccia, lì dove il Foro, alle spalle della fonte di Giuturna, piega verso la base del colle.
Varrone afferma che la comunità Etrusca continuava ad esistere ancora ai suoi giorni e descrive l’effigie del dio Vertumnus, un tempo patrono della Dodecapoli e a cui gli abitanti del Vicus Tuscus tributavano grandi onori.
Ma tornando a Servio Tullio e ai fratelli Vibenna, secondo Tacito invece questi ultimi sarebbero entrati in Roma assieme a Tarquinio Prisco.
Come siano andate le cose nessuno può dirlo per certo. Tuttavia, in un discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato, Servio Tullio è identificato con un leggendario Macstarna, che con il resto dell’ esercito di Cele, evidentemente battuto dai nemici, si sarebbe ritirato in Roma e l’avrebbe occupata.
E’ possibile che ci sia stata prima una divisione e poi uno scontro tra i due fratelli e i loro eserciti, nel corso del quale Cele potrebbe essere stato ucciso. Secondo Arnobio invece fu  Aule ad essere ammazzato per mano di un servo e quindi sepolto sul Campidoglio che fu denominato così, in memoria di Aule , come il nome del Celio  avrebbe tratto  origine da quello di Cele.
A testimoniare l’origine del nome del Campidoglio si narra che, nello scavare le fondamenta del tempio di Giove Ottimo e Massimo, all’improvviso affiorò una testa d’uomo che pareva essere stata appena tagliata, al punto che il sangue sgorgava ancora dal collo. Secondo il Chronicon Vindebenense accanto alla testa c’era un’iscrizione stilata con caratteri Etruschi che diceva: “Caput Oli Regis”,vale a dire ”la testa di Re Aule”. Da allora il monte mutò nome e prese a chiamarsi “Capitolium”, cioè ”testa di Aule”.
Anche in questo caso la storia di Roma si intreccia a leggende e a fatti realmente avvenuti, ma talvolta tenuti nascosti o rivisitati dalla storiografia ufficiale.
La testimonianza della realtà della storia di Macstarna e dei fratelli Vibenna venne alla luce nel maggio del 1857 grazie ad Alessandro François, il quale rinvenne nel corso degli scavi che stava effettuando nei pressi di Vulci una tomba grandiosa, ancora del tutto intatta, della quale era titolare un certo Vel Saties, evidentemente uno dei maggiorenti della città di Vulci nel IV secolo a. C.
In questa, tra le molteplici cose preziose e gli splendidi affreschi, se ne trovò uno che evocava il momento finale di una battaglia, avvenuta un paio di secoli prima. Vi sono effigiati una moltitudine di personaggi, tra i quali Macstarna, che si accinge a liberare dai ceppi Cele Vibenna. In un’altra scena è ritratto un personaggio, il cui nome è Cneve Tarχunies Rumaχ, nel momento in cui viene ucciso o catturato da un tal Marce Camitlnas. Secondo alcuni Cneve Tarχunies potrebbe essere lo stesso Tarquinio Prisco.
Nella storia ufficiale, narrata da Tito Livio, si sa che il primo dei Tarquini fu assassinato da sicari mandati nella reggia dai figli di Anco Marzio. Sempre nella storia ufficiale l’avvenimento permise a Servio Tullio, aiutato da Tanaquil, di impossessarsi del potere e diventare re di Roma. Nella storia tramandataci, quindi, l’avvento al trono di Servio, a parte l’assassinio di Tarquinio e grazie alla sagacia della regina, non si collegò a nessun disordine e stravolgimento. 
Invece ciò che a tratti sembra emergere dalle notizie sparse qua e là nei documenti ed alla luce di quanto racconta l’affresco  della tomba Vulcente fa pensare che la salita al trono di Servio Tullio sia stata tutt’altro che pacifica.
Placchetta di Aras Silketena -area di S Omobono- VI secE’ probabile, infatti, che, all’epoca in cui Servio si chiamava ancora Macstarna, sia entrato nella città come luogotenente di uno dei Vibenna, quindi a capo di una banda di soldati di ventura, dopo che Tarquinio Prisco era stato sconfitto e ucciso nella battaglia celebrata nell’affresco.
Ancora più intriganti risulterebbero le analogie tra la vita di Servio Tullio e quella di Romolo. Infatti, ci si può chiedere se gli eserciti dei Vibenna fossero entrati in Roma fin dai tempi di Romolo, come afferma Varrone, oppure fossero giunti assieme a Lucio Tarquinio Prisco, come sostiene Tacito, o se tutto ciò sia accaduto al concludersi del regno di Tarquinio Prisco. Ed ancora: la loro presenza nella città era dovuta in realtà a un atto di guerra e di conquista, come sembra attestare il dipinto della tomba François?
Tutto questo potrebbe far supporre che la figura di Servio Tullio e quella di Romolo potrebbero anche essere sovrapponibili.
Infatti, non si può escludere che, impadronitosi dell’Urbe, Servio Tullio abbia proceduto ad una rifondazione della città. Ciò vorrebbe dire che le figure del primo e del sesto re di Roma si fondono e si confondono, inglobandosi entrambe in un’epopea a due facce, che  congiunge la storia con la protostoria, il reale con la leggenda, coinvolgendo due personaggi che costituiscono la sintesi di un prima e di un dopo che associa il mondo Etrusco alle memorie di Roma.
Certamente ai Tarquinii è dovuto l’avvento di moltissimi elementi culturali Tirrenici, a partire dalla sacra Triade. A conferma di ciò Vitruvio scrive che i templi a tre celle, dedicati a Giove,Giunone e Minerva, erano propri alla sfera religiosa del mondo Etrusco. Furono infatti, i re Etruschi a volere il tempio grandioso della Triade, commissionando a Vulca, il più famoso coroplasta d’Etruria, la quadriga che ornava l’acroterio e la statua  in terracotta  policroma del dio.
Tra le divinità di origine Tyrrenica spiccano gli enigmatici Dèi Consenti, che Varrone identifica con i Penati. Nigidio Figulo li divide in 4 classi: del cielo, delle acque, della terra e degli uomini. Anche se a prima vista paiono simili ai dodici dèi Olimpici della tradizione Ellenica, gli Dèi Consenti talvolta sembrano assumere connotazioni astrologiche, visto che Arnobio ci dice che essi nascono e tramontano con il sorgere e il declinare del sole.
Inoltre va osservato il loro stretto rapporto con Tinia, lo Iuppiter Etrusco, la cui potenza si riassume nella forza delle sue tre folgori. Egli poteva servirsi della prima a suo piacimento, quando voleva annunziare eventi fausti; della seconda, foriera di catastrofi, solamente dopo essersi consultato con i dodici Dèi Consenti, ossia con i Penati, i quali si presentano quindi con una valenza oscura e minacciosa, quasi fossero i custodi di eventi ferali. Il terzo fulmine, il più terribile, a Iuppiter -Tinia era concesso di scagliarlo solamente dopo avere interpellato certe divinità misteriose, senza nome e senza volto, conosciute solamente con la generica denominazione di “Dèi Involuti o Velati”. Con quest’ultima folgore Iuppiter annunziava un cambiamento totale nella vita dei popoli e dei territori.
Sempre dal mondo Etrusco sembra che a Roma sia derivato il culto dei Mani, la cui denominazione è presa di peso dalla lingua Tirrenica, in quanto Mani vuol proprio dire “defunti” e manin è il verbo che usavano gli Etruschi per indicare le offerte ai trapassati.
Anche il munus veniva dal mondo etrusco: munus vuol dire dono o forse ancor più offerta, era in realtà un sacrificio cruento offerto ai Mani. Famosi restarono i munera che Curione il giovane dedicò nel Foro ai Mani del padre morto da poco.
Che questo fosse un rituale di origine Etrusca è confermato anche dal vocabolo con il quale era chiamato l’impresario degli spettacoli: Lanista, forse dal verbo lein, che vuol dire “morire”.
Pallottino era convinto che la raffigurazione più antica di un munus sia presente nella tomba degli Auguri a Tarquinia. Si tratta di una scena rappresentata sul lato sinistro del sepolcro, in linea con altre immagini di giochi funebriun uomo seminudo, con la testa chiusa in un sacco, è assalito da un cane feroce. L’animale è tenuto al guinzaglio da un personaggio strano, di corporatura atletica e con il volto coperto da una maschera. L’uomo assalito tenta di difendersi, servendosi di una clava, ma il cane lo azzanna di fronte mentre l’essere mascherato avanza alle sue spalle. In alto a sinistra è scritto quello che è forse il nome o l’appellativo dell’inquietante personaggio: Phersu. I glottologi ritengono che da questo termine derivi la parola Latina persona, tratto daPhersu-na, cioè “che appartiene (alla maschera chiamata) Phersu”.
In questo antichissimo munus si può forse scorgere il prototipo di una venazione, nella quale viene adombrato un tenebroso simbolismo di carattere religiosol’uomo combatte alla cieca contro la belva, che gli balza di fronte e che è aizzata da una oscura entità che si muove silenziosamente alle sue spalle e della quale il volto resta sconosciuto e celato, quasi fosse la personificazione del  destino che può anche essere vinto, a patto che  si sia in grado  di flectere i fati.
In ogni caso il Phersu, che si trova riprodotto anche in altre tombe nelle quali è rappresentato nell’atto di fuggire o di danzare, resta e resterà, forse ancora per molto tempo, uno degli enigmi dei Rasna.

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