lunedì 19 giugno 2017

La basilica di Sant'angelo in Formis costruita sopra il grande santuario pagano dedicato a Diana Tifatina


Il Tempio di Diana Tifatina che sopravvive sotto la basilica: era tra i santuari pagani più importanti del mondo antico


La Basilica di Sant’Angelo in Formis è un gioiello campano unico, non solo per il ciclo di affreschi che conserva tutt’oggi ma anche per le sopravvivenze archeologiche che essa custodisce.
Sotto la struttura benedettina sopravvive il tempio pagano di Diana Tifatina, che sorgeva alle pendici del monte Tifata, un’altura di circa 600 metri sul livello del mare che domina da vicino l’antica Capua e la via Appia.
Oggi il monte appare totalmente diverso da come doveva essere in antichità, è devastato dalle cave e dal disordine urbanistico contemporaneo, invece in epoca romana il Tifata era ricco di boschi di querce, ruscelli, animali selvatici e anche campi coltivati dove nel bel mezzo troneggiava un tempio, tra i più famosi della Campania, dedicato proprio alla dea della caccia affiancato da un altro tempio, invece posizionato sulla vetta del monte, dedicato a Giove Tifatino.

Ricostruzione della pianta del tempio di Diana (foto da S. Quilici Gigli)
Il tempio fu costruito nel IV secolo a.C., anche se la scoperta di alcune terrecotte architettoniche fa presagire l’esistenza di un tempio o comunque di un luogo di culto, già nel VI secolo, alle falde del Tifata. Ad Alfonso De Franciscis e ai suoi studi si deve il riconoscimento delle evidenze archeologiche del tempio antico poi inglobato nella basilica benedettina. Di questo edificio si conserva il podio, eretto tra la fine del IV secolo e gli inizi del III secolo a.C., costituito da grandi blocchi di tufo grigio e alto oltre due metri, che oggi è scarsamente visibile attraverso un’asola coperta da vetri, sul fianco destro della Basilica.
Il tempio era a pianta rettangolare, con cella addossata al muro di fondo, pareti laterali chiuse e colonne sulla fronte e sui lati, che in termini tecnici descrive un tempio periptero sine postico ed esastilo (con 6 colonne davanti). La decorazione era affidata a lastre di terracotta con gocciolatoi a testa di leone affiancate da palmette.


L’edificio era collocato vicino al lato a monte di una terrazza, il cui muraglione di contenimento a valle fu celebrato in un’iscrizione, incisa su tre lastre di calcare, conservata oggi nel Museo Campano di Capua: “Servio Fulvio Flacco (console del 135 a. C. n.d.r.), figlio di Quinto, mentre era console appaltò i lavori per la costruzione del muro, con i proventi del bottino di guerra”. L’epigrafe, costituita da lettere alte ben 17 centimetri, testimonia la realizzazione di un’imponente scenografia monumentale in opus incertum, sulla fronte del santuario.
In seguito all’intervento di Fulvio Flacco ne vennero fatti altri: possono essere letti osservando la pavimentazione attuale della Basilica. Quest’ultima riprende il perimetro del tempio ed incorpora buona parte del pavimento dell’edificio antico (in foto). Nel centro della chiesa e davanti l’altare si conserva un pavimento in opus tessellatum (a mosaico, con tessere bianche), mentre la navata centrale e le laterali conservano un pavimento in opus scutulatum (marmi policromi o bianchi, tagliati a tessere e accostati in questo caso “a canestro”). Il resto della chiesa è composto da parti di pavimento medioevale, lastre di marmo bianco e battuto cementizio. La differenza tra i due tipi di mosaico quello fine e quello a canestro è sottolineato da una striscia di circa 90 centimetri che costituisce in negativo l’impronta della cella del tempio. Dunque una pavimentazione più fine ed accurata riservata alla zona della cella, che doveva accogliere la divinità (oggi zona dell’altare), ed una parte più resistente per lo spazio esterno che era aperta ai fedeli.


Questi lavori di rifacimento della pavimentazione sono documentati epigraficamente con un’iscrizione a mosaico, posizionata oggi nella navata centrale della basilica a poca distanza dall’ingresso. Scopritore fu proprio Alfonso De Franciscis che ne diede una prima lettura ed interpretazione: occupava un campo di oltre 5 metri, in tessere nere e presentava un elenco di magistrati (“Tituli Magistrorum Campanorum“) che effettuarono i lavori, chiudendosi con la data consolare indicata dalla coppia di consoli del 108 a.C. Ser. Sulpicius Galba e M. Aurelius Scaurus. I lavori, come si legge dall’iscrizione, consistettero nel rifacimento del tempio e nella messa in opera di colonne e nel rifacimento dello stesso pavimento, spesa con ogni probabilità tratta dalla stipe votiva di Diana o dal bottino di guerra.

Un altro intervento al Santuario fu applicato nel 99 a.C., con la costruzione di una grande sostruzione, di una cucina (per i pasti rituali, per il ristoro dei fedeli e per i banchetti sacri), di un portico, di statue di Castore e Polluce (i gemelli figli di Giove) e tutta una serie di edifici volti ad offrire servizi al culto e ai fedeli.



Da recenti studi sappiamo che è stato riconosciuto il temenos (recinto del santuario) nel lato occidentale costituito da un muraglione in opus reticulatum e latericium con mensole per reggere il porticato (in foto); il lato orientale dove era posizionata l’iscrizione di Fulvio Flacco (nella parte davanti della terrazza), il lato meridionale in opera laterizia (dove si accede oggi all’area della Basilica) e il lato settentrionale, che corrisponde forse al dislivello del terreno, nella zona dove sorse in epoca medioevale un convento benedettino.


Ma cosa si venerava nel Santuario alle falde del Tifata? Il tempio era dedicato a Diana, divinità romana derivante dall’Artemide greca, ma che nell’Italia centro meridionale assumeva un’accezione del tutto indipendente. La Diana venerata nel tempio capuano è raffigurata secondo l’iconografia classica, cacciatrice, munita di arco e frecce, con una torcia nella destra. Così appariva, infatti, in un affresco trovato nei pressi del tempio. In una zona come quella del tifata, ricca di boschi e ruscelli il culto della dea boschiva poteva trovare il suo luogo ideale. Ma non era raro che in un Santuario venissero venerate più divinità e questo è quello che probabilmente accadeva a Sant’Angelo. Sono state trovate iscrizioni votive dedicate ad altre divinità e a fine ‘800 una stipe votiva con statuine ex – voto di Attis, il servitore eunuco della dea Cibele.
La leggenda della Cerva bianca. La storia del tempio di Diana Tifatina è strettamente collegata con quella di Capua. La conferma la si trova anche nella tradizione, raccontata da Silio Italico, che collega la fondazione di Capua all’apparizione di una cerva bianca bellissima, ancella della dea della caccia e donata ai capuani da Capys, mitico fondatore della città. Quando i romani assediarono Capua (211 a. C.) la bestia fuggì nel campo dei nemici che la sacrificarono a Diana per propiziarsi la vittoria. La leggenda attribuisce mille anni alla cerva e dimostra quindi l’antichità di quel culto alle pendici del Tifata.
Nella storia dei culti della Campania antica il tempio di Diana Tifatina ha costituito per gli studiosi ed eruditi di antichità classica un capitolo di importanza ed interesse enorme, non solo per le evidenze archeologiche ed epigrafiche ma anche per il ruolo dominante che ebbe quel santuario in età preromana e romana. Inoltre risulta essere un esempio più unico che raro, dove l’eredità cattolica si fonde con il suo passato pagano.

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