venerdì 11 marzo 2016

Il nome segreto, l'essenza di ROMA


AUTORE Marcello De Martino TITOLO L’identità segreta della divinità tutelare di Roma – un riesame dell’affaire Sorano. Settimo Sigillo, Roma 2011.
Marcello De Martino ha tentato nel libro, notevole per l’apparato erudito e le note, di ricostruire con tutto il materiale storico disponibile, la vicenda che riguardò nell’antica Roma il tribuno della plebe Valerio Sorano. Costui sarebbe stato crocifisso per avere rivelato il nome segreto di Roma o il nome dell’entità tutelare dell’Urbe, il chè poi sarebbe lo stesso per alcuni, anche se l’autore lo nega recisamente. Una questione paragonabile a quella conciliare tridentina del “sesso degli angeli” che puzza un pò di artificiosità perché De Martino parte da un presupposto apodittico (a differenza della sua trattazione, ammirevole per capacità documentaria) che mina dalle fondamenta il suo stesso edificio ricostruttivo.
Questo presupposto è il prendere per buono il fatto che veramente un certo Valerio Sorano fu crocifisso per avere violato uno dei due segreti. De Martino ha dimostrato di poter svolgere un lavoro investigativo su questo presupposto ma non si è accorto che lo stesso procedimento gli si può rivoltare contro. Infatti proprio dalla sua fonte principale, Plutarco, si può inferire che la notizia è una pura invenzione propalata nell’antichità per dare lustro a delle presunte origini sacrali della romanità.
Plutarco infatti riferisce che alcuni “collegano forse questo divieto a una superstizione, raccontando che Valerio Sorano fece una brutta fine per averlo detto”, cioè già in antico si sospettava che si trattasse di una credenza fasulla. Del resto dicerie analoghe circolavano già sull’arrivo dei Troiani nel Lazio, diffuse ad arte dall’aristocrazia senatoria (Fabio Pittore) per dignificare un passato romano altrimenti oscuro (vedi nota di p.114). Se la condanna di Sorano fu una leggenda inventata non ha senso neanche il tentativo dell’autore di identificare Sorano nel famoso senatore erudito anziché nel tribuno della plebe. Comunque nulla toglie che un qualche Sorano venisse ucciso con questa accusa, ma solo per mascherare motivazioni più profane.
Del resto l’idea di un nume tutelare o di un nome segreto può venire in mente solo a posteriori per una città che si suppone edificata ex abrupto, ma in realtà Roma fu un work in progress (nella nota di pagina 114 l’autore afferma che anche il nume tutelare di Roma fu il risultato di «processo teologico in fieri»). Ciò spiega perché, secondo una testimonianza di Macrobio, molti furono coloro che si esercitarono nella scoperta di un qualche nome o contenuto arcano per Roma (De Martino parla a sua volta del Pervigilium Veneris), e non vennero uccisi, anche se l’autore ritiene che ciò non avvenne, a differenza di Sorano, per il fatto che non avevano scoperto davvero l’arcano… Tutto ciò non toglie che possa esserci una divinità o un nome occulto legittimamente valido per l’Urbe (così come c’era quello occulto di Bona Dea per le donne romane), a patto di considerare la cosa da un punto di vista molto più contingente e datato. Un esame criticamente scrupoloso dei pignora imperii, per esempio, andrebbe nella stessa direzione, mettendo al riparo il lettore da quella romana fabulositas in cui credette un Marco Baistrocchi.
Lo stesso De Martino sembra del resto assai critico nei confronti di questa fabulositas, almeno quella dei moderni epigoni: «Ci si riferisce a circoli e associazioni di ispirazione neopagana (chiamata dagli addetti ‘Via romana agli dèi’), come il Centro Studi Tradizionali ‘AMOR ROMA’ – dalla denominazione molto eloquente, ci sembra –, fino al 2009 emanazione del Movimento Tradizionale Romano, il quale, peraltro, ha come organo ufficiale la rivista ‘La Cittadella’…» (n. 297 p.178. Si vedano più avanti altre lucide critiche a Loris Viola, Guido De Giorgio e Colonna di Cesarò). Questi moderni epigoni ritengono che il nome arcano di Roma sia il suo contrario, Amor, connesso al fatto che la divinità tutelare della romanità fu la madre di Enea, Venere, dea dell’Amore. Ora, da un punto di vista non assoluto ma contingente, è innegabile storicamente che Venere sia davvero il nume tutelare di Roma (anche se De Martino ci fa intuire non con il suo nome generico ma con una sua epiclesi); purtroppo, c’è stata già da tempo una “inversione dei simboli”, e Amor non può certamente essere il nome arcano a meno di non volere riconoscere una continuità del simbolo al di là del simbolo stesso, poiché Amor ben si attaglia con quel messaggio cristiano di quella Chiesa che di Roma ha usurpato i simboli e le dignità (lo ammette anche l’autore nella nota di p. 177). Proseguendo su questa scia, si dovrebbe anche considerare il terzo nome arcano, Omar, che ci fa paventare non troppo distante nel tempo un futuro molto particolare… Ha quindi ragione De Martino quando scrive (p.182) che «in realtà, questo tipo di esegesi appare più affine alle speculazioni misticheggianti della cabala ebraica, giacché mostra una metodologia d’indagine che dovrebbe esser aliena agli studi d’antichistica, non avendo, infatti, nulla a che fare con una stretta analisi dei dati documentali che sia ispirata ai dettami della filologia e della ricerca storica». Il nostro autore si dichiara convinto che il nome occulto di Roma è rimasto tale e che l’unico che potrebbe averlo decifrato potrebbe essere stato, per i motivi che il lettore troverà al termine del suo libro, il grammatico Verrio Flacco e non Valerio Sorano.
Si può comunque prescindere dal fatto della storicità della condanna di Valerio Sorano, poiché ciò non è l’essenziale del libro di De Martino. Quello che conta è che l’autore sembra abbia davvero fatto centro, con ottimi argomenti di grosso calibro, per quel che riguarda l’identità del nume tutelare di Roma (Genius Urbis Romae) e cioè una poco pubblicizzata divinità androgina, bisessuata, una Venere o Fortuna con la barba o calva, cosa che certamente i Tradizionali Romani di oggi non possono sopportare, stante il fatto che tale tipo di divinità non è indoeuropea e risente di quel tipo di razza dello spirito o dell’anima che tanto Evola stigmatizzò con virulenza, ma che già Samson Eitrem e Angelo Brelich avevano intravisto. Forse i Tradizionali Romani vedranno come una offesa sanguinosa l’affermazione di De Martino (p.93) che «la statua del Genius Urbis Romae fosse quella della Venus calva/Fortuna barbata», ma la mole di dati portati a favore di questa correlazione è davvero impressionante e il libro merita per ciò stesso una attenta ancorché faticosa lettura.


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