mercoledì 8 maggio 2013
Nel ricordo di Mazzini e della Repubblica ROMANA
9 FEBBRAIO:
RICORDIAMO LE DUE REPUBBLICHE DELL’AQUILA E DEL FASCIO ROMANI
Oggi, 9 febbraio, ricorre l’anniversario della proclamazione della Repubblica Romana del 1849, con la contestuale dichiarazione della fine del potere temporale dei papi. Quest’anno, 2005, ricorre anche il 2° centenario della nascita di Giuseppe Mazzini, che di quella Repubblica fu il principale ispiratore.
Contro la ciampizzazione della storia patria, tesa alla trasformazione del passato in giustificazione di un solo possibile presente - quello di una “repubblica antifascista nata dalla resistenza” vocata all’unione in una Europa di liberal-democrazie guidata da oligarchie tecnocratiche e finanziarie - intendiamo evocare e commemorare un’altra storia, che è quella dell’ideale di una grande Italia romana guida morale delle nazioni, i cui valori fondamentali sono lo Stato come bene comune della totalità organica del popolo, lo spirito legionario non disgiunto dall’humanitas come etica fondamentale, il lavoro come valore contrapposto alla supremazia dell’oro (Ezra Pound scriverà in “Carta da visita”: “I Rothschild finanziavano le armate contro la Repubblica Romana. Naturalmente”).
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9 FEBBRAIO 1849.
Il 5 febbraio del ’49 si era radunata in Campidoglio l’Assemblea nazionale, presenti i labari delle varie province d’Italia. Il 9 febbraio, dichiarato decaduto il potere temporale dei papi, nasceva ufficialmente la Repubblica Romana, poi guidata dal triumvirato composto da Mazzini, Armellini e Saffi. Il 12 febbraio l’Assemblea Costituente decretava che la bandiera “sarà l’Italiana tricolore, coll’Aquila Romana sull’asta”.
Ma la memoria dell’antica Roma va oltre. Il gesuita padre Bresciani racconta inorridito de “l’atto esecrando di rinnegar Gesù Cristo e invocare a Nume di Roma, QUIRINO, rizzato sopra un piedestallo nel grande salone del Senato, assistenti al nefando sacrificio non pochi deputati dell’Assemblea Costituente”.
Tra costoro, Garibaldi, il quale rievocando la proclamazione della Repubblica Romana nelle sue Memorie scriveva: “Lì, liberamente, nell’aula stessa ove si adunavano i vecchi tribuni della Roma dei Grandi, eravamo adunati noi, non indegni forse degli antichi padri nostri, se presieduti dal Genio, ch’essi ebbero la fortuna di conoscere, e di acclamare sommo! […] Domani dal Campidoglio, nel Foro sarà acclamata la Repubblica, dal popolo soffrente per tanti secoli, ma che non dimenticò esser egli il discendente del grandissimo popolo!”
Inizia allora il più glorioso episodio di tutto il nostro Risorgimento. Avendo fatto appello il papa alle potenze cattoliche contro i restaurati fasci repubblicani, si pronunciano per l’intervento armato contro Roma l’Austria, la Spagna, Napoli e la Francia repubblicana, alla quale ultima spetterà lo sforzo militare maggiore, col corpo di spedizione del generale Oudinot sbarcato il 25 aprile (!) a Civitavecchia con i suoi venti cannoni onde restituire il titolo di “figlia prediletta della Chiesa” alla Francia del futuro Napoleone III, rinnovante l’astio antilongobardo di Carlo Magno e il livore antighibellino di Carlo d’Angiò. La Repubblica Romana viene difesa con coraggio senza pari da volontari accorsi da ogni parte d’Italia, avendo tra i suoi combattenti destinati a successive imprese figure come Garibaldi e Pisacane, tra i suoi morti con onore splendidi patrioti come Goffredo Mameli e Luciano Manara, il quale tenne coi suoi volontari lombardi villa Spada fino all’estremo limite della lotta al coltello. La testimonianza etica e guerriera fu straordinaria, e anche la fine della Repubblica fu degna della migliore tradizione romana. Il 4 luglio del ’49, mentre i “gallo-frati del cardinale Oudinot” si fanno strada tra gli ultimi resistenti in armi, dal Campidoglio l’Assemblea promulga, velocemente ma con composta pacatezza senatoriale, la costituzione repubblicana. Gli Italiani, uniti sotto i sacri segni dell’Aquila romana e del Fascio littorio, emblemi ufficiali della Repubblica, avevano dato vita a quello che lo storico inglese G. M. Trevelyan avrebbe chiamato “uno dei grandi spettacoli della storia”, confutando in Roma, così come a Venezia, il detto “Gli Italiani non si battono” a cui Oudinot aveva creduto con gallica leggerezza, presentandosi nel Lazio con 5.000 uomini che poi, dovendo fare i conti con l’accanimento guerriero degli Italiani, dovettero diventare 30.000, contro i 10.000 difensori dell’Urbe. Questi ultimi erano gli uomini che Donoso Cortés, ideologo della controrivoluzione cattolica, chiamò “drappelli di cannibali”. Ma Garibaldi, scrivendo ad Anita, aveva potuto dirle con giustizia: “Noi combattiamo sul Gianicolo, e questo popolo è degno della passata grandezza [...] Un’ora della nostra vita in Roma vale un secolo di vita! Felice mia madre d’avermi partorito in un’epoca così bella per l’Italia”.
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9 febbraio 1944.
9 febbraio 1944, anniversario della Repubblica Romana del 1849, per volontà di Mussolini proprio in questo giorno le nuove truppe della Repubblica Sociale Italiana pronunciano il loro solenne giuramento, con la formula: “Giuro di servire e difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. Lo giuro dinanzi a Dio e ai Caduti per l’unità, l’indipendenza e l’avvenire della Patria”.
Mussolini, fin dalla proclamazione della Repubblica da Radio Monaco (17 settembre 1943) aveva voluto esplicitamente, nell'instaurare uno Stato che “sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola”, ricollegarsi alla “corrente repubblicana, che ebbe il suo puro e grande apostolo in Giuseppe Mazzini”. Così, allorché il ministro dell’Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini presenta a Mussolini la sua proposta di una Carta costituzionale, Mussolini gliela rinvia con le sue annotazioni e correzioni, accompagnandola al testo della costituzione mazziniana della Repubblica Romana. I punti 4 e 5 del capo I della bozza di Costituzione della RSI recitano: “La capitale della Repubblica Sociale Italiana è Roma”; “La bandiera nazionale è quella tricolore: verde, bianca, rossa, col fascio repubblicano sulla punta dell’asta”.
Da allora il richiamo a Mazzini e alla Repubblica del ’49 sarà costante nei manifesti della RSI, che al Genovese dedicherà pure un francobollo. Di Mazzini non sarà rivalutato solo il pensiero nazionale ma anche quello europeista. Alla Divisione San Marco, rientrata in Italia dopo l’addestramento in Germania, viene indirizzato un appello (“Soldato medita e ricorda!”) che dice: “I nostri nemici hanno tutto l’interesse a non volere che tutta l’Europa diventi un solo blocco, cioè imbattibile. Tu sei un guerriero della nuova Europa, quella che il sangue degli europei caduti insieme sui campi di battaglia ha ormai cementato, avverando così la profezia di Giuseppe Mazzini”. Pavolini, al Congresso di Verona del ’43, così aveva disegnato l’aspirazione del Fascismo a una nuova Europa anticapitalista e antimarxista: “[…] noi siamo – perché questa è sempre stata la nostra aspirazione – per una comunità di nazioni europee, possibilmente per una unità federale di nazioni europee”. Ad un nuovo Fascismo, che tenesse conto de “la libera espressione della volontà del popolo” richiamandosi ancora al magistero di Mazzini, fece appello, sempre al Congresso di Verona, una delle figure più carismatiche della nuova Italia guerriera, quella di Fulvio Balisti, il mitico Comandante del Battaglione Giovani Fascisti a Bir el Gobi, Medaglia d’Argento, già volontario nella Grande Guerra e legionario a Fiume.
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IL “NOSTRO” MAZZINI:
Malvida von Meysenburg:
“Nietzsche diceva che, fra tutte le belle vite, egli invidiava specialmente la vita di Mazzini: quella concentrazione assoluta in una sola idea, che diviene per così dire una fiamma, in cui si consuma tutta l’individualità. Il poeta si libera della potenza d’azione, che è in lui, incarnandola nei suoi personaggi: trasporta l’azione e la sofferenza fuori di se stesso. Mazzini invece si obiettivava nella sua vita stessa, che era la messa in azione ininterrotta della più nobile individualità. Era lui stesso il personaggio tragico, che accetta il più duro dolore per compiere l’atto ideale”.
Arturo Reghini:
“Quali profonde radici avesse nell’animo di Giuseppe Mazzini la fede nell’idea imperiale, sa chiunque abbia una qualche famigliarità cogli scritti del veggente genovese. Anche egli, come Virgilio e come Dante, che amò, studio e comprese più di tanti illustri professori, diceva essere l’Italia destinata da Dio a dominare sopra le genti, a dare al mondo da Roma la luce di una terza civiltà”.
Berto Ricci:
“Mazzini [...] resta con Garibaldi il capo del Risorgimento e il fondatore della patria [...] il grande repubblicano fu imperialista assai più, assai meglio, d’ogni bertuccia moderata; e in tempi d’abiezione nazionale, quando questo popolo era davvero l’ultimo dei popoli, quando in un’Europa già sveglia e intraprendente tutta la nostra industria era qualche filanda in Lombardia, e sarebbe stato assurdo il solo pensare che questa colonia potesse dedurre colonie e le plebi meridionali campavano e crepavano nella più spaventosa miseria, nella pretesca ferocia dei massacratori di Sapri, nel cattolicesimo feudale caro a certi letterati d’oggi che vivon di rimembranze, egli già vedeva l’Italia educatrice marziale dei suoi giovani, arbitra del suo mare, prima nell’opere di pace [...], splendida di autorità morale sulle nazioni”.
Giovanni Gentile:
“E venne il Fascismo, che ci fa riudire la voce di Mazzini nel suo accento più profondo. La stessa concezione spiritualistica del mondo; lo stesso carattere religioso; la stessa avversione all’individualismo; lo stesso concetto dello Stato e della nazione, unità fondamentale e sostanza dei cittadini; lo stesso postulato di un modo totalitario d’intendere la vita umana; la stessa diffidenza verso il liberalismo meccanico della classica economia astratta; e quindi il principio della riorganizzazione delle forze economiche in un corpo che l’atomismo delle leggi economiche assoggetti alla concreta forma dello Stato etico, come dire alla stessa coscienza dell’uomo. Mazzini perciò oggi è con noi; e l’Italia, finalmente, gli rende giustizia e saluta in lui il suo profeta”.
G. B. Tilak:
“Mazzini è il Kavi (il poeta) col potere della visione”.
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Quanto sopra scritto non va a significare che i nostri ideali siano da dirsi “mazziniani” e/o “mussoliniani”. Nel mentre abbiamo voluto provocatoriamente rammentare una dimensione del mazzinianesimo e dell’eredità mazziniana che non troverà alcun posto nelle celebrazioni ufficiali, vuoi governative vuoi massoniche, abbiamo altresì inteso rendere solo un doveroso omaggio a quelle personalità e a quei momenti della storia italiana in cui, pur tra mille contraddizioni legate ai limiti che un’epoca come quella contemporanea imponeva e impone anche ai migliori nella comprensione e nell’attuazione di certe realtà, si è coraggiosamente affacciata l’idea di rievocare il Nome e i Simboli di Roma, traendone linfa per il ritorno a virtù politiche, etiche e guerriere all’altezza di quel Nome e di quei Simboli, la cui origine non ha nulla a che vedere con le moderne ideologie politiche, ponendosi entro la sfera perenne del Sacro, sfera da cui però muovono anche la memoria profonda e i superiori caratteri di una stirpe, destinati a destarsi in certi punti fatali della storia.
Sandro Consolato
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