mercoledì 15 maggio 2013

Alla ricerca di un centro ..... permanente

G.I. Gurdjieff: Incontro con un uomo straordinario di Walter Catalano - 23/05/2008 Fonte: storiadellereligioni.info “Vi lascio in un bel casino!” (ultime parole attribuite a Gurdjieff in punto di morte) Nell’agosto del 1944 un vecchio signore dall’aspetto vagamente orientale uscì dal suo appartamento al numero 6 di Rue des Colonels-Renard ed attraversò le vie concitate di una Parigi in cui gli occupanti tedeschi si preparavano a fare i bagagli. Era diretto alla camera d’ospedale dove un giovane di poco più di trent’anni stava morendo per le conseguenze dell’ infezione ad una ferita procuratagli da un bombardamento americano. Il giovane si chiamava Luc Dietrich, aveva scritto due romanzi (1) ed era indubbiamente un allievo molto dotato; il vecchio signore si chiamava Georgi Ivanovitch Gurdjieff e sotto molti aspetti lo si sarebbe potuto dire un maestro. Maestro e allievo si guardarono senza parlare: non c’era molto da dire. Poi il maestro depose nelle mani tremanti dell’agonizzante il dono che aveva portato con sé: un’arancia. Molti uomini intelligenti, come lo scrittore, utopista e filosofo Lanza Del Vasto, amico di Dietrich, che si autoinvestì del ruolo di testimone dell’incontro, volendo troppo capire non compresero un gesto semplice e riferirono scandalizzati dell’atteggiamento meschino ed insensibile che quel gesto esprimeva. In realtà un gesto è uno specchio: sugli specchi Gurdjieff aveva costruito il suo apostolato. “Per via della sua reputazione - ha scritto Fritz Peters(2) - le persone raramente venivano a contatto con un individuo chiamato Gurdjieff; esse incontravano piuttosto, l’immagine che si erano precedentemente create nella loro mente”. E perché questa immagine infrangesse sempre e comunque le aspettative più ovvie, perché l’incauto postulante non si trovasse di fronte un cliché ma un essere autentico, capace di dare o di togliere ma soprattutto di disseminare conoscenza, Gurdjieff fu costretto ad indossare spesso una maschera di apparente fraudolenza per percorrere una via aspra e difficile, quella che i sufi chiamano la “via di malamat”: la via del biasimo. “Per esempio - testimonia Henri Tracol(3) - non ha mai esitato a far sorgere dubbi su sé stesso con il tipo di linguaggio che usava, con le sue contraddizioni calcolate e col suo comportamento, ad un punto tale che la gente intorno a lui, in particolare chi aveva la tendenza ad idolatrarlo ciecamente, fosse finalmente costretta ad aprire gli occhi sul caos delle sue reazioni”. Da qui la necessità di confondere le acque, di camuffarsi, di barare su tutto quello che riguardava la sua identità personale: quasi a ricordare che quel che davvero contava non era la sua persona, ma l’insegnamento di cui era portatore. Dice un motto zen: se qualcuno vi indica la luna dovete guardare la luna, non il dito puntato ad indicarla. Nato nel Caucaso in una data imprecisata, compresa fra il 1866 ed il 1877(3bbis), e morto a Parigi nel 1949, quest’uomo inafferrabile e multiforme potrebbe puntualmente venire incluso nella compagnia, ormai piuttosto affollata, dei maestri giunti in Occidente per rivelare insegnamenti perduti o per ricondurre un’élite di seguaci sulla via della Tradizione; ma l’implicazione, per quanto non impropria, risulterebbe insufficiente. Fin troppi pretesi esegeti hanno cercato di classificare le idee di questo Dioniso dal volto di Taras Bulba e di inserirlo in qualche categoria: emissario dei sufi in Occidente; esoterista cristiano; buddista tantrico sotto mentite spoglie; da parte sua egli si definì solo un “maestro di danza”. Fin dagli anni ‘20, quando costituì nel castello del Prieuré di Avon a Fontainbleu l’“Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo”, fece largo uso della provocazione e dello scandalo come strumento di risveglio interiore (con metodi non dissimili da quelli di certi maestri zen o dei sufi della cosiddetta malamattya) incantando le avanguardie e quell’intellighentsia che proponeva l’ “epatér le burgeois” come primo passo verso un possibile altrove. Per gli stessi motivi naturalmente, il mistagogo caucasico, fu temuto o spregiato da chi, in un modo o nell’altro, restava nel novero dei bempensanti(3bbbis). Gurdjieff elaborò un sistema di crescita e sviluppo interiore che nasceva dalla compassione per la condizione umana e dall’esigenza di contribuire ad alleviarne le sofferenze. E proprio nell’“uso” costruttivo e consapevole dell’inevitabile sofferenza, egli individuò il nutrimento che avrebbe potuto restituire l’uomo alla sua dignità: “il più piccolo scopo per un uomo è quello di non morire come un cane” diceva spesso. Henry Miller lo definì “un incrocio fra uno gnostico ed un dadaista”. Frank Lloyd Wright lo commemorò, parafrasando l’antitesi di Kipling, come l’uomo nel cui pensiero “l’Occidente incontra veramente l’Oriente”. André Breton avrebbe voluto includere nell’ultima edizione della sua “Antologia dello Humour Nero” il primo capitolo de “I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote”, opera monumentale e rabelaisiana in cui Gurdjieff si proponeva di “Estirpare dal pensiero e dal sentimento del lettore... le credenze e le opinioni... riguardanti tutto ciò che esiste al mondo(3bis)”. In realtà, il baffuto ierofante, non cercò mai di compiacere artisti ed intellettuali che, di solito, apostrofava con l’appellativo di “vagabondi” e considerava inadatti a qualsiasi forma di disciplina interiore. Eppure, fra i suoi seguaci più fedeli, i vagabondi furono in maggioranza: basti ricordare, fra i molti, la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield; Alfred Richard Orage, alfiere delle avanguardie storiche, del corporativismo e del credito sociale in Inghilterra; René Daumal, reduce dalle sperimentazioni patafisiche e parasurrealiste del “Grand Jeu” e studioso di sanscrito. Proprio Daumal scriverà le pagine più belle e illuminanti su questo insegnamento: dall’alpinismo trascendentale del “Monte Analogo”, al fulminante poema in prosa “La Guerra Santa”, alla rievocazione visionaria dell’agapè alcolica gurdjieffiana di “La Gran Bevuta. Attraverso Daumal, Antonin Artaud concepirà l’utopia del Teatro della Crudeltà. Dai Movimenti Sacri in cui sensazione, sentimento e pensiero si equilibrano - le danze dervisce di Gurdjieff che tanto scalpore fecero a Parigi ed a New York nel 1924 - al tentativo di riappropriazione del sacro da parte di certe avanguardie teatrali che non dimenticarono mai la lezione del “maestro di danza”. Attraverso Artaud, fino a Jerzy Grotowsky, a Peter Brook, ad Alejandro Jodorowsky(3tris). In altri ambienti meno flamboyants di quelli artistici, l’insegnamento di Gurdjieff ha ricevuto forse un’accoglienza più tiepida: per esempio, il cattolico e gandhiano Lanza del Vasto, riconobbe il valore del metodo ma non quello dell’uomo; René Guénon che lo detestava, lo incluse, in compagnia di Aleister Crowley, Giuliano Kremmerz e Schwaller de Lubicz, nel numero dei più pericolosi esponenti della controiniziazione; al contrario, per le ben note differenze di prospettiva fra i due pensatori tradizionalisti, Julius Evola lo citò in termini sostanzialmente positivi in “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”, in “Cavalcare la tigre” ed in un articolo specifico degli ultimi anni(3quatris). Chiunque sia stato quindi questo personaggio certamente straordinario - autore di libri senza essere scrittore, di musiche senza essere musicista, ‘maestro di danza’ per vocazione, cuoco raffinato, attore situazionista se mai ve ne fu uno, esseno, tantrista, sufi - poco importa in fondo. Esiste un insegnamento, preciso e raggiungibile, e questo è un dato di fatto. “Gli uomini non sono uomini”, dice in sostanza Gurdjieff, e quando si riferisce all’uomo “così com’è” mette sempre la parola fra virgolette. Il problema essenziale si riduce a questo: uscire dalle virgolette. Il primo ostacolo, quello fondamentale, è la nostra stessa illusione: illusione di essere, di avere un io unico, di poter fare. “Tutto accade. Tutto ciò che sopravviene nella vita di un uomo, tutto ciò che si fa attraverso di lui, tutto ciò che viene da lui, tutto questo accade...L’uomo è una macchina. Tutto quello che fa, tutte le sue azioni, le sue parole, pensieri, sentimenti, convinzioni, opinioni, abitudini, sono i risultati di influenze esteriori... movimenti popolari, guerre, rivoluzioni, cambiamenti di governi, tutto accade... L’uomo non ama, non desidera, non odia - tutto accade.(4)” Per poter fare bisogna prima essere e per poter essere bisogna prima aver preso coscienza della propria fondamentale inesistenza. La dichiarazione può suonare sostanzialmente scandalosa ad un orecchio occidentale, ed ecco sollevarsi comode accuse, da parte di molti, a denunciare una dottrina inumana e crudele, laddove si dovrebbe parlare piuttosto di “obbiettiva imparzialità”. In Gurdjieff il concetto di benevolenza e di misericordia non si associa con quello di dolcezza: qualcuno giustamente lo disse “uomo di spietata compassione”. Un altro uomo venuto a portare non la pace, ma una spada. D’altronde l’unica cosa simile ad una definizione che Gurdjieff abbia mai dato di sè, oltre a “maestro di danza”, è stata quella di “esoterista cristiano”; ma prontamente aggiungeva: ”Il Cristianesimo dice esattamente questo, amare tutti gli uomini. Impossibile. Allo stesso tempo è assolutamente vero che è necessario amare. Ma prima bisogna essere, solo dopo si può amare. Sfortunatamente, col passare del tempo, i moderni Cristiani hanno adottato la seconda metà, amare, ed hanno perso di vista la prima, la religione che avrebbe dovuto precederla. Sarebbe stupido da parte di Dio chiedere all’uomo ciò che questi non può dare(5).” La nostra vita, così com’è, è solo reazione meccanica a stimoli esterni: quello che chiamiamo io è un groviglio confuso di piccoli io in perenne conflitto fra loro. Non c’è unità in noi: “l’uomo è plurale. Il nome dell’uomo è legione(6)”. Da qui la necessità di costruirsi un Centro di Gravità, o Centro Magnetico, costituito dall’Insegnamento, intorno al quale agglutinare un certo numero di io e procedere dalla molteplicità verso l’unità. La via è data dallo sforzo cosciente e dalla sofferenza volontaria. Lo sforzo cosciente è attenzione, presenza, ricordo di sé; la sofferenza volontaria è invece l’abbandono delle proprie certezze, delle proprie opinioni, della propria affermazione meccanica di sé stessi, del desiderio di rassicurazione, del conforto intellettuale del proprio senso di sé con le sue pretese di importanza e di onniscienza. Lo sforzo consiste anche nello smascheramento delle emozioni negative - ansia, rabbia, autocommiserazione, vanità, amor proprio, ecc. - dell’ “immaginazione”, cioè il credersi ciò che non si è, e dell’ “identificazione”, concetto non dissimile da quello che i Buddhisti chiamano “attaccament”’. I fini di questo sforzo non sono morali o moralistici: si può parlare con freddezza ed efficacia di controllo della dispersione energetica nel contesto generale della “macchina” umana. Viene dichiarata interiormente quella che René Daumal chiama la Guerra Santa: la nostra “essenza” - ciò che è innato e ‘naturale’ in noi - cresce nutrendosi della “personalità” - ciò che è indotto, acquisito dall’esterno - che normalmente la soffoca. In questa guerra - e non si può non pensare a Krishna ritto sul cocchio accanto ad Arjuna - sono abbattute spietatamente tutte le illusioni: prima fra queste, l’assai poco utile convinzione di avere “in dono” un’anima. Niente è in dono, tutto si paga: se una tale possibilità esiste, anche questa va pagata ed il prezzo è alto. ”Se in un uomo vi è qualcosa capace di resistere alle influenze esteriori, allora proprio questo qualcosa potrà resistere anche alla morte del corpo fisico.... Se in un uomo vi è qualche cosa, questo qualcosa può sopravvivere; ma se non vi è niente, allora niente può sopravvivere.(7) ” La condizione umana reale e consapevole è il riconoscimento di quello che Gurdjieff chiama “l’orrore della situazione”, ma la maggioranza degli uomini preferisce essere blandita e proseguire indisturbata il suo sonno. Frasi come “beato chi ha un’anima, beato chi non l’ha, ma sventura e dolore a chi ne ha solo l’embrione(8)” raggelano i facili entusiasmi degli apologeti del New Age, disturbano i dispensatori di balsami consolatori ed i confezionatori di manuali su “come ottenere l’Illuminazione in 20 lezioni”. Così come suona sgradevole al sentimentalismo del tipico uomo religioso, il concetto che “Per essere capaci di aiutare gli altri, occorre innanzi tutto imparare ad aiutare sé stessi... Quando un uomo si vede realmente quale è, non gli viene in mente di aiutare gli altri - si vergognerebbe di questo pensiero... ...Soltanto un egoista cosciente può aiutare gli altri(9).” Né il sentimentalismo, né il moralismo appartengono all’insegnamento: “Ciò che è necessario è la coscienza. Noi non insegniamo la morale. Insegniamo come si può trovare la coscienza. Alla gente non piace sentirselo dire. Dicono che non abbiamo amore, solo perché non incoraggiamo la debolezza e l’ ipocrisia ma, al contrario, rimuoviamo tutte le maschere. Chi desidera la verità non parlerà mai di amore o di cristianesimo, perché sa quanto ne è lontano(10).” La via di Gurdjieff è una via religiosa nel senso più propriamente etimologico del termine: re-ligare, cioè riconnettersi, ricollegarsi. Negli ambienti gurdjieffiani l’applicazione dell’insegnamento viene chiamata “il Lavoro”. La scelta del nome chiarisce la natura del processo che si vuole mettere in atto. Ouspensky, il divulgatore più noto delle idee di Gurdjieff, chiama questo percorso “Quarta Via”, contrapposta alla via del “fakiro”, che lavora solo sul corpo; del “monaco”, che lavora solo sulle emozioni; e dello “yogi”, che lavora solo sulla mente. Queste vie sbilanciate possono produrre solo “stupidi santi” (che sono in grado di fare tutto ma non sanno cosa fare) o “deboli yogi” (che sanno cosa fare ma non possono farlo). La Quarta Via invece è la “Via dell’Uomo Astuto”, quella che equilibra il lavoro delle prime tre, sviluppando armonicamente tutti gli aspetti dell’essere e permettendo al praticante di non abbandonare la sua vita ordinaria per rinchiudersi in un monastero, ma , come dicono i sufi, di “essere nel mondo ma non del mondo”. Negli scritti di Gurdjieff in realtà non viene mai menzionata una Quarta Via, si parla piuttosto, nei “Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote”, di antiche vie basate su “fede”,”speranza” e “amore”, impulsi di origine divina ma ormai talmente distorti e sviliti dall’uomo attuale, da essere inservibili. L’immaginario profeta Ashiata Shiemash scopre una nuova via basata sulla “coscienza morale obbiettiva”, anch’essa di origine divina ma così rara nel mondo da essersi preservata incorrotta ed essere quindi ancora ‘attiva’: tale coscienza è divenuta inconscia e deve quindi essere risvegliata. L’uomo è un essere tricentrico o “tricerebrale”; i tre centri o “cervelli” devono funzionare in modo armonico e non sbilanciato come di norma. Stomaco (e tutto quel che si trova al di sotto di questo), cuore e testa o, se si preferisce, corpo, emozioni e intelletto, devono equilibrare le loro funzioni e non interferire fra loro. Non bisogna quindi sacrificare o mortificare nessuna delle parti dell’uomo, ma bilanciarle e restituirle alla sfera appropriata: “Meriterà il nome di uomo e potrà contare su ciò che è stato preparato per lui dall’Alto, solo colui che avrà saputo acquisire i dati necessari per conservare indenni sia il lupo sia l’agnello che gli sono stati affidati(11).” Se tipi diversi di uomini, guidati solo da uno dei loro centri - l’intellettuale, l’emozionale, il sensitivo-motore - sono imprigionati in uno schema prestabilito, il quarto tipo di uomo, che ha equilibrato i tre centri, può cominciare ad assaporare i primi barlumi di libertà. Un’idea fondamentale collegata con questa è la differenza fra conoscenza e comprensione: la prima è fondata su un solo centro, abitualmente il centro intellettuale; la seconda è tricentrica, passa cioè per tutte le facoltà. Ciò che è compreso, cioè contemporaneamente capito, sentito e percepito, ci appartiene davvero; la semplice conoscenza è invece del tutto strumentale e aleatoria. Da qui la scarsa considerazione di Gurdjieff per l’uso puramente intellettuale, teorico delle idee dell’Insegnamento: senza la comprensione e quindi la pratica, non si può che fraintendere. Per tentare di controllare la macchina però, bisogna prima studiarne il funzionamento. Tutto comincia da un’osservazione “obbiettivamente imparziale” di sé stessi. Per usare le parole di Margaret Anderson: “I primi passi verso la libertà sono l’autosservazione ed il ‘conosci te stesso’. Il sistema di Gurdjieff inizia con l’osservazione scientifica neutrale di se stessi - con l’esame del proprio corpo in modo scientifico: inizialmente, basandosi sul centro fisico; più tardi, facendo osservazioni sul centro mentale e sul centro emotivo. ...il corpo è l’unico strumento col quale lavorare. Fatene un buono strumento. Non tollerate che sia esso a controllarvi. ...I nostri corpi sono dei ‘fertilizzanti’ per l’anima.(12)” Come in ogni disciplina tradizionale, anche nell’insegnamento di Gurdjieff, l’idea di base è quella dell’identità fra il micro ed il macrocosmo: l’uomo è l’immagine dell’universo e segue le stesse leggi. Alla complessa psicologia, la sola aperta alle nostre possibilità esplorative, che abbiamo appena tratteggiato, si connette una ancor più complessa cosmologia. Uno storico delle religioni, in termini tecnici, la etichetterebbe probabilmente come “emanazionista” e “gnostica”. A fondamento della manifestazione vi sono due leggi cosmiche universali: la Legge del Tre (Triade) e la legge del Sette (Ottava). La prima legge postula come ogni fenomeno risulti dall’incontro di tre differenti forze: il pensiero scientifico osserva invece solo la presenza di due forze (positivo e negativo magnetici; cellula maschio e femmina, ecc.), ma è ignaro della terza. Gurdjieff chiama queste forze: 1) Santa-Affermazione 2)Santa-Negazione 3)Santa-Riconciliazione oppure 1) forza attiva o positiva 2) forza passiva o negativa 3) forza neutralizzante Le tre forze sono osservabili all’esterno ed all’interno di noi, ma non è affatto facile riconoscerle, specialmente la terza forza. In termini più ordinari si potrebbe parlare anche di impulso, resistenza e conciliazione. Le triadi si succedono in ‘catene’ in cui “il maggiore si fonde con il minore per realizzare il medio e così diviene o maggiore per il precedente minore o minore per il successivo maggiore(13)”. Inutile dilungarsi sulle analogie con altre tradizioni: la Trinità cristiana di Padre, Figlio e Spirito Santo in cui, non a caso, quest’ultimo è il Paraclito, l’intercessore; la Trimurti indù di Brahma, Shiva e Vishnu; i tre Gunas del Sankhya, Rajas il principio dinamico, Tamas il principio statico e Sattva l’equilibrio; il Sale, Zolfo e Mercurio dell’Alchimia ; lo Yin e lo Yang unificati nel Tao; i Tre Triangoli della Quabbalah; ecc. La legge del Sette, invece, fornisce la sistematizzazione del corso dei movimenti di una forza nello svolgere il processo di completamento di un qualsiasi fenomeno: lo sviluppo della frequenza delle vibrazioni, ascendente o discendente, della forza passa attraverso sette gradi, fasi o “note” disposte lungo una scala armonica, con due prevedibili punti di stallo (proprio dove mancano i semitoni tra mi-fa si-do nella scala maggiore mi, re, do, si, la, sol, fa, mi). Questa legge si può chiamare “legge della discontinuità delle vibrazioni”. Nell’universo tutto è vibrazione, ma in ogni scala di trasmissione di queste, ci sono sempre due punti dove le vibrazioni rallentano e richiedono uno shock esterno per poter continuare nella stessa direzione. Senza shock esterno il percorso deraglia e cambia traiettoria: questo accade all’inizio (mi-fa) ed alla fine (si-do) dell’ottava. In tal modo si spiegano, per esempio, il rilassamento dello sforzo e le deviazioni dallo scopo originale in ogni impresa umana: una stessa perversa transizione porta dal Sermone della Montagna all’Inquisizione o dalla ‘libertà, fratellanza ed uguaglianza’ rivoluzionarie a Napoleone e a Stalin. Se “ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, anche questa legge si applica sia all’esterno che all’interno di noi: sul piano cosmico l’ottava discendente del cosiddetto “Raggio di Creazione”, che dall’Assoluto porta allo sviluppo progressivo dei mondi, colma il primo intervallo do-si con il ‘Fiat’ divino ed il secondo fa-mi con la funzione della vita organica sulla Terra, vero e proprio organo di percezione del pianeta(14); analogamente sul piano della realizzazione umana, l’ottava ascendente che porta l’uomo dal sonno meccanico all’essere reale, colma i due intervalli con lo sforzo consapevole e la sofferenza volontaria proposti dal Lavoro. Nello spazio compreso fra queste due ottave è racchiuso il destino dell’uomo: essere una pedina nell’ottava discendente, svolgere passivamente il proprio ruolo di trasformatore di energia, con tutte le creature viventi, e venire riassorbito a suo tempo nel substrato indifferenziato come parte dell’ecologia cosmica; oppure entrare di forza nell’ottava ascendente, partecipare di un compito più alto, essere attivo. “Nell’universo tutto è materiale e per questo motivo la Grande Conoscenza è più materialista del materialismo....(14bis)”. In questo modo il cerchio si chiude, niente è casuale in questo sistema in cui ognuno può scegliere se seguire la corrente generale, manifestando un’esistenza semiconscia e generando un grado di energie rudimentali che vengono usate dal cosmo ad un solo livello; o invece cercare di “essere”, di evolversi consapevolmente, e, applicando il principio alchemico della separazione dello spesso dal sottile, muoversi verso la capacità di ricevere e generare energie più raffinate, svolgendo un servizio più alto per le forze della creazione. In entrambi i casi niente viene sprecato: tutto in natura è “cibo” per qualcosa; tutto viene utilizzato. L’azione universale e coordinata delle due leggi è esemplificata dal simbolo dell’Enneagramma: un cerchio che include un triangolo equilatero intrecciato con un’altra figura a sei lati. Dei nove lati che lo compongono, sei sono ottenuti da 1 diviso per 7 (che produce un numero infinito in cui non compare mai il 3, il 6 e il 9), gli altri da 1 diviso per 3 (che produce una serie infinita di 3, di 6 e di 9). I punti in cui i lati toccano il cerchio sono numerati da uno a nove. Il cerchio simbolizza lo zero, il serpente ermetico che si morde la coda: in realtà non si tratta di un cerchio ma di una spirale, perché il simbolo non è statico ma dinamico. L’Enneagramma rappresenta ogni processo che si mantiene da solo per autorinnovamento: per esempio la vita. Per questo, secondo Gurdjieff, è “il moto perpetuo ed anche la pietra filosofale degli alchimisti(14tris)”. Tutto questo una volta detto lo si può anche dimenticare: si tratta adesso di riscoprirlo, non perché ci viene spiegato o lo leggiamo da qualche parte, ma perché lo verifichiamo con la nostra esperienza. L’insegnamento in realtà è soltanto pratico e viene trasmesso esclusivamente per via orale o tramite esempi diretti che evitano anche la parola. Tutto ciò che Gurdjieff ha scritto è terribilmente preciso, ma così analogico che solo la personale comprensione, nata dall’esperienza, può condurre il cercatore al cuore dell’insegnamento. Chi si limita ai libri otterrà ben poco. “Se non sei dotato di uno spirito critico, la tua presenza qui è inutile(15)”, in altre parole dobbiamo trovare il modo di esercitare il nostro buon senso nell’attrito effettivo con la vita e non riferendoci a schemi e concetti astratti. Per quanto abbia spesso interpretato con divertimento e con innegabile immedesimazione, specialmente nel suo iniziale periodo russo, il ruolo del ‘mago’ e dello ‘sciamano’, Gurdjieff ha sempre manifestato una certa annoiata diffidenza verso gli occultisti e “gli iniziati di nuova emissione”, come li apostrofava beffardamente; la ‘magia’ non gli interessava: il vero problema è svegliarsi, non rendere più confortevole il sonno. La sua posizione ricorda piuttosto lo spoglio rigore e la ruvida purezza di certi insegnamenti zen. A questo proposito Fritz Peters ricorda: ”Molti anni fa, Aleister Crowley, che si era fatto un nome in Inghilterra come “mago” e che si vantava, tra le altre cose, di aver appeso per i pollici la moglie gravida nel tentativo di generare un essere mostruoso, si presentò a Fontainebleau senza essere invitato. Crowley era visibilmente convinto che Gurdjieff fosse un “mago nero” e lo scopo manifesto della sua visita era di sfidarlo in una specie di duello di magia. L’incontro si rivelò una delusione poiché Gurdjieff, sebbene non negasse di conoscere certi poteri che potevano essere definiti “magici”, si rifiutò di fare qualsiasi dimostrazione. A sua volta, anche il signor Crowley si rifiutò di “rivelare” i suoi poteri; perciò, con grande disappunto dei presenti, non si poté assistere a nessuna impresa soprannaturale. Per giunta, il signor Crowley se ne andò con l’impressione che Gurdjieff fosse un ciarlatano o uno stregone di mezza tacca.(16)” Non si cerca quindi niente di arcano, ma piuttosto una diversa attenzione per ciò che, ad uno sguardo superficiale, può apparire banale: “Io insegno che quando piove i marciapiedi si bagnano”, ripeteva sempre il maestro e, con la stessa tipica ironia, “Ho dell’ottimo cuoio da vendere a quelli che vogliono farsi delle scarpe”. Per di più, secondo Gurdjieff, la ricerca individuale non era fruttuosa. Il marchio distintivo del suo metodo fu ‘il gruppo’: “Un uomo da solo non può fare nulla... Siete in prigione. tutto quello che desiderate, se siete intelligenti, è fuggire. Ma come fuggire? E’ necessario scavare un tunnel sotto il muro, ma un uomo da solo non può fare nulla; supponiamo però che ci siano dieci o venti uomini: se lavorano a turno e si coprono a vicenda, possono completare il tunnel e scappare(17)”. Per questo il Lavoro si è tramandato attraverso gruppi di allievi che, dalla sintonia e dal coflitto delle proprie diverse personalità, hanno saputo trarre la linfa per far crescere il loro singolo ramo di uno stesso albero. I gruppi, nella tradizione “ortodossa”, che deriva immutata direttamente dagli appuntamenti di Rue des Colonels-Renard, si ritrovano con periodicità regolare. Il conduttore del gruppo assegna gli esercizi interiori della settimana, i membri possono fare domande o riferire sulle loro esperienze dei giorni precedenti e vengono letti e commentati brani dei testi più importanti di Gurdjieff o dei suoi allievi diretti(18). Generalmente l’incontro inizia con un breve momento di silenzio, chiamato “rappel”, cioè richiamo a sé stessi, che è la ripetizione collettiva della “meditazione seduta” (svolta con posizione e modalità pressoché analoghe alla classica seduta di Zazen) che ogni membro del gruppo pratica individualmente ogni mattina. Altre attività possono essere costituite dallo studio dei Movimenti o Danze Sacre, dall’ascolto delle composizioni musicali di Gurdjieff e dal lavoro manuale silenzioso, di solito secondo discipline artigianali classiche, come la tessitura, la ceramica, la falegnameria, il giardinaggio, ecc. Alcuni rituali troppo strettamente legati alla figura del maestro, come il “Brindisi agli Idioti”, tenuto durante le riunioni conviviali, con abbondanti libagioni alcoliche, sono stati del tutto abbandonati dopo la morte di Gurdjieff(19). Per tradizione “ortodossa” intendiamo quella trasmessa dallo stesso Gurdjieff ai suoi allievi, riunitisi, dopo la sua morte, sotto la direzione organizzativa di Madame Jeanne de Salzmann, nella “Fondazione Gurdjieff”, che ha le sue sedi principali a Parigi, Londra e New York. Solo questa linea assicura la fedeltà all’insegnamento originario. Le altre, dai seguaci di Ouspensky dopo il suo allontanamento dal maestro, ai fin troppo numerosi gruppuscoli, gurdjieffiani di nome ma non di fatto, hanno distorto le idee in modo sempre più grave, giungendo talvolta a creare dei veri e propri “culti” sul tipo di Scientology, pericolosi per la salute e per il portafoglio dell’incauto cercatore. Come avvertimento possiamo solo dire che, se si cerca un contatto con un gruppo serio, l’unico modo di entrare è conoscere qualcuno che è già dentro. Nessun gruppo veramente esoterico metterebbe inserzioni sui giornali o segnalibri, stampati in carta molto raffinata, dentro le edizioni gurdjieffiane in commercio. Si pensi sempre a questo dettaglio non secondario, e si ricordi il consiglio degli antichi: caveat emptor! Per concludere questa breve e necessariamente incompleta introduzione, torniamo alla stessa immagine con cui abbiamo aperto: torniamo alla stanza in cui agonizza Luc Dietrich, in cui due uomini si guardano negli occhi. Se cerchiamo miracoli forse possiamo trovarli a Lourdes, ma non qui. Niente miracoli. Solo una semplice presenza: qualcuno che in silenzio entra nella nostra camera ed in silenzio ci porge un’arancia. Note 1) Luc Dietrich (1913-1944), scrittore, poeta, fotografo, amico intimo di René Daumal e di Lanza del Vasto. Dal 1938 partecipò ai gruppi organizzati da Jeanne de Salzmann per conto di Gurdjieff. I suoi due romanzi pubblicati sono: Le Bonheur des tristes e L’Apprentissage de la Ville. La famosa foto che ritrae Daumal emaciato e barbuto, pochi giorni prima della morte, fu scattata da lui. Dietrich restò così sconvolto dalla scomparsa dell’amico che abbandonò tutto e si ritirò in Normandia a studiare il comportamento dei pazzi in un manicomio. Il villaggio in cui risiedeva fu bombardato dagli Alleati durante lo sbarco. La ferita alla testa riportata da Luc produsse un ascesso cerebrale che lo condusse alla morte dopo tre giorni di agonia. 2) Fritz Peters, La mia fanciullezza con Gurdjieff, Milano, SE, 1992, pag. 200 3) Henri Tracol, The Taste for Things That Are True, Shaftesbury, Element Books Limited, 1994, pag.113. 3bbis) Sebbene esistano un passaporto ed un’autobiografia, il primo (che reca l’anno di nascita 1877) è quasi sicuramente falso, la seconda - Incontri con uomini straordinari, Milano, Adelphi, 1977 – è troppo vera e perfetta in senso allegorico, simbolico e mitico per esserlo anche in quello banalmente storico. I biografi principali di Gurdjieff concordano sostanzialmente nel ritenere il 1866 l’anno più probabile della sua nascita. Il luogo invece è certo Alexandropol, per i turchi Gumru, città di confine contesa fra i due imperi e, a secondo della data, ancora appartenente a quello Ottomano o già a quello Russo. Il nome Gurdjieff è la versione russa del greco Georgiades, in armeno Gurdjian. La somiglianza del cognome con quello del Lama Agwhan Dorjieff, precettore del tredicesimo Dalai Lama, e la dubbia testimonianza di un avventuriero che aveva combattuto con gli inglesi nella guerra anglo-tibetana, fu la causa di una persistente leggenda che identificherebbe i due personaggi. Il testimone, certo Nadir Khan, incontrò Gurdjieff a New York negli anni ’20 e lo scambiò per Dorjieff: i due parlarono per un po’ in tagico ricordando vecchie battaglie su fronti opposti. “Siete davvero Dorjieff ?”- chiese Nadir Khan. Gurdjieff gli stizzò l’occhio. In realtà, come attestato, fra gli altri, da Alexandra David-Neel che lo conobbe, Dorjieff aveva almeno vent’anni più del suo presunto alter ego ed era un mongolo buriato: i tratti somatici di Gurdjieff erano invece decisamente caucasici. Più sensata l’ipotesi di James Webb che identifica Gurdjieff con un collaboratore di Dorjieff, Ushe Narzunoff, coetaneo di Gurdjieff e che scompare senza lasciare traccia dal panorama storico, più o meno negli stessi anni in cui questi fa le sue prime apparizioni a Mosca. Narzunoff avrebbe avuto una moglie tibetana e due figli, uno dei quali divenuto abate in un monastero buddista. Secondo numerose testimonianze anche Gurdjieff avrebbe ricordato spesso, nei suoi anni tardi, la moglie lasciata in Tibet e i due figli, uno dei quali monaco. Cfr. James Moore, G.I. Gurdjieff: Anatomia di un mito, Vicenza, Il Punto d’Incontro, 1993, pagg. 385 e seg.; James Webb, The Harmonious Circle: The Lives and Work of G.I. Gurdjieff, P.D. Ouspensky and Their Followers, Boston, Shambhala, 1987, pagg. 25 e seg. riguardo alla data di nascita; pagg. 59-73, riguardo al caso Dorjieff/Narzunoff. 3bbbis) A questo proposito molti sono gli aspetti ambigui o apertamente denigratori evidenziati da certi autori. In particolare Louis Pauwels, reduce da una bruciante esperienza personale nei gruppi gurdjieffiani, ha cercato di screditare il mistagogo caucasico in vari scritti salvo più tardi “pentirsi” e fare marcia indietro. Se il suo libro Monsieur Gurdjieff, Roma, Mediterranee, 1972, costituisce una miscellanea di testimonianze pro e soprattutto contro Gurdjieff, tendenziosa ma comunque interessante; il celeberrimo Il mattino dei maghi, Milano, Mondadori, 1963, scritto in collaborazione con Jacques Bergier, cade nella faciloneria e nella pura affabulazione: da quel testo nascono le fantasie riguardanti i pretesi contatti fra Gurdjieff ed il nazismo. Dal momento che il “maestro di danza” visse sia l’occupazione che la liberazione di Parigi, se avesse avuto anche solo qualche responsabilità minore, o gli fosse stato attribuito concretamente il minimo sospetto di collaborazionismo, difficilmente sarebbe sfuggito alla vendetta dei liberatori che non ebbero certo la mano leggera in quei giorni. La sua unica conseguenza giudiziaria dopo la l’arrivo degli Alleati, fu un fermo di pochi giorni per ‘traffico di valuta estera’, reato candidamente confessato dallo stesso Gurdjieff a Fritz Peters con queste parole: “A me non interessa chi vince la guerra. Non ho patriottismo nè grandi ideali di pace. Gli americani, con gli ideali, uccidono milioni di tedeschi; i tedeschi, con gli ideali, uccidono inglesi, francesi, russi...Tutti hanno ideali...tutti uccidono. Io ho un solo scopo: l’esistenza per me stesso, per gli allievi e per la mia famiglia - anche questa grande famiglia...Perciò...tratto con i tedeschi, con i gendarmi, con tutti questi esemplari pieni di ideali che fanno ‘mercato nero’. Risultato: mangio bene...e posso aiutare anche tante persone”. Da: Fritz Peters, I miei anni con Gurdjieff, Milano, Adea, 1994, pag. 90. Un'altra maldicenza ricorrente, questa volta meno fumosa, è quella che riguarda i costumi sessuali di Gurdjieff. In generale i gurdjieffiani preferiscono sorvolare sulla natura esplicitamente tantrica delle relazioni avute dal maestro almeno con alcune delle sue allieve. E’ raro che, sull’argomento, si raggiunga l’obbiettività di John Bennett, unico memorialista gurdjieffiano ad ammettere: “Certe volte conduceva una vita rigorosa, pressochè ascetica, senza avere alcun rapporto con le donne. Altre volte, sembrava che la sua vita sessuale si sfrenasse e bisogna dire che i suoi periodi di scatenamento erano più frequenti di quelli ascetici....Non poche donne sue allieve gli partorirono dei bambini...”. Da: John G. Bennett, Gurdjieff: Un nuovo mondo , Roma, Ubaldini, 1996, pag. 237-238. 3bis) Georges Gurdjieff, I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote, Milano, L’Ottava, 1988, vol. I, pag. 2. 3tris) Su queste relazioni si può leggere il libro di Franco Ruffini, I teatri di Artaud: Crudeltà, corpo-mente, Bologna, Il Mulino, 1996. 3quatrisIl Signor Gurdjieff, incluso in Julius Evola, Ultimi Scritti, Napoli, Controcorrente, 1977. Le altre citazioni di Evola sono rispettivamente in: Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Roma, Mediterranee, 1971, pag. 190 e seg. - 196 e seg.; Julius Evola, Cavalcare la tigre Milano, Vanni Scheiwiller, 1971, pag. 62. Sul giudizio di Lanza del Vasto su Gurdjieff, cfr. Lanza del Vasto, L’arca aveva una vigna per vela, Milano, Jaca Book, 1980, pag. 40-46. Per quanto riguarda René Guénon, la sua famosa dichiarazione di “sfuggire Gurdjieff come la peste” è riportata in Webb, The Harmonious Circle, cit., pag. 467. Inoltre in Moore, Gurdjieff: Anatomia di un mito, cit. pag. 228, “quest’uomo di origine greca non è un puro e semplice ciarlatano, ma questo lo rende ancora più pericoloso…”. In seguito pare che Guénon abbia accettato di incontrare Jeanne de Salzmann, l’erede di Gurdjieff, che era appositamente venuta al Cairo, dove il pensatore tradizionalista viveva, per incontrarlo. Secondo la testimonianza di Jack, il fratello di René Daumal, Guénon avrebbe rettificato in parte la sua opinione negativa, mantenendo però varie riserve fra cui l’accusa a Gurdjieff di “non dare adeguato spazio alla celebrazione di rituali religiosi e sacramenti per la purificazione e la disposizione dell’anima”: cfr. Kathleen Ferrick Rosenblatt, René Daumal: The Life and Work of a Mystic Guide, New York, State University of New York Press, 1999, pag. 138-139. L’avversione di Guénon per Gurdjieff resta comunque un fatto inspiegato e singolare, dal momento che anche le idee del caucasico, per quanto formulate in termini “scandalosi”, anticonformisti ed eterodossi, potrebbero tranquillamente venire accostate ad una visione del mondo “tradizionalista” che avversava l’occultismo e le correnti moderne verso il “sovrasensibile”. A questo proposito cfr. Bennett, cit., pag. 65: “Invariabilmente accenna all’antroposofia in termini irriguardosi, come fosse un’aberrazione del medesimo livello della teosofia e dello spiritismo”. 4) Piotr Demianovic Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Roma, Astrolabio, 1976, pag. 27 e segg. 5) Jacob Needleman, Lost Christianity, New York, Doubelday, 1980, pag.169. 6) Ouspensky, cit., pag. 69. 7) Ouspensky, cit., pag. 39. 8) Aforisma n. 29 in: G.I. Gurdjieff, Vedute sul mondo reale: Gurdjieff parla ai suoi allievi, Milano, L’Ottava, 1985, pag. 262. 9) Ouspensky, cit., pag. 116. 10) Ouspensky, cit., pag.175 11) Georges Ivanovic Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, cit., pag. 30 12) Margaret Anderson, L’inconoscibile Gurdjieff, Roma, Gremese, 1989, pag. 39. 13) Georges Ivanovic Gurdjieff, I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote, cit. , vol. II, pag. 192 e seg. 14) In questo senso si può dire che Gurdjieff anticipa, con la sua formulazione “La vita organica forma qualcosa di simile ad una pellicola sensibile che ricopre tutto il globo della terra…” e con la sua idea di Trogoautoegocratic (qualcosa di simile a “mangiando me stesso, mi mantengo”), il concetto di Biosfera enunciato dal geochimico russo Vernadsky ed ormai abusato negli ambienti ecologisti insieme a quello di Gaia elaborato da Lovelock. 14bis) Georges Ivanovic Gurdjieff, Bagliori di Verità in Vedute sul Mondo Reale: Gurdjieff parla ai suoi allievi, cit., pag. 31 e seg. 14tris) Ouspensky, cit., pag. 327. Attualmente l’Enneagramma gode di una certa fama negli ambienti new age e perfino in quelli cattolici, come schema di riferimento psicologico e fisiognomico per il riconoscimento dei nove tipi umani di base. Questa semplificazione è stata elaborata, in anni abbastanza recenti, soprattutto da Oscar Ichazo e Claudio Naranjo, personaggi che poco hanno a che vedere con l’autentico insegnamento di Gurdieff. Per quanto non del tutto priva di qualche interesse, questa formulazione resta assai lontana dalla complessità del simbolo utilizzato correttamente. A questo proposito si rimanda più avanti al saggio specifico Enneagramma: la ricettazione di un simbolo. 15) Gurdjieff, Aforismi in Vedute sul Mondo Reale, cit., pag. 262. 16) Fritz Peters, I miei anni con Gurdjieff, Milano, Adea, 1994, pag. 67. Sulla questione dell’incontro, o degli incontri, fra Gurdjieff ed il mago inglese Aleister Crowley (1875-1947), esistono almeno tre versioni diverse. Crowley, da poco espulso dall’Italia, dove aveva costituito a Cefalù, l’Abbazia di Thelema, in cui praticava i suoi riti di magia sessuale, dopo un periodo passato in Tunisia giunge a Parigi, cercando di riassestare le sue finanze e di disintossicarsi dall’eroina. Visita il Prieuré, la cui fama è giunta fino a lui, probabilmente due volte, ma solo la seconda Gurdjieff è presente. www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_artico

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