martedì 26 maggio 2015

L'ambiguità fra essere religiosi fascisti o antifascisti

Fra Ginepro, dopo 47 anni la verità sul sacerdote scomodo


Si terrà domenica prossima a Loano la consueta, annuale commemorazione di fra Ginepro da Pompeiana. La cerimonia, giunta ormai al suo quarantasettesimo anno di età, avrà, stando ai programmi, una cadenza semplice ed essenziale: riunione dei partecipanti alle 9 presso il convento dei frati cappuccini, alle 10 e trenta Messa al cimitero presso la tomba del frate, e conclusione con pranzo in una trattoria del centro rivierasco.
Occorre soffermarsi sul significato di questa semplice cerimonia, e sulla figura di Ginepro. 
Antonio Conio (suo nome al secolo) fu frate cappuccino, giornalista, predicatore, scrittore, poeta, cappellano militare, prigioniero di guerra, sostenitore della causa fascista, detenuto. E poi ancora anima dei perseguitati politici del dopoguerra, nuovamente scrittore, ancora e sempre sacerdote.
Circolano molte inesattezze o leggende su di lui, alcune espresse in buona, altre in cattiva fede. Vanno corrette, se non smentite. Alcuni indicano Ginepro come «cappellano delle Camicie nere», o addirittura «capomanipolo della Milizia fascista». Egli non vestì mai tale divisa, né ricoprì tale grado. In base a precisi e inoppugnabili documenti conservati presso l’Ordinariato Militare di Roma, fra Ginepro da Pompeiana fu sempre e soltanto cappellano militare del 42° Reggimento Fanteria, in Africa Orientale inquadrato con la Divisione «Cosseria», e in Albania inserito nell'organico della Divisione «Modena». Che poi all'interno della Divisione ci fosse un reparto di Camicie nere, che le sue maggiori e personali simpatie andassero a queste, che egli abbia servito Messa e impartito Sacramenti - come era nelle sue specifiche funzioni di cappellano - anche a tali reparti, non costituisce assolutamente una colpa o, soprattutto, un «arruolamento» forzato e postumo.
È stato erroneamente scritto (da destra per rafforzare la sua immagine di militante, da sinistra per screditarlo e dipingerlo come fazioso) che egli sia stato nientemeno che uno dei più ferventi collaboratori del periodico «Crociata Italica», diretto da Don Tullio Calcagno. Il periodico - finanziato dal leader fascista cremonese Farinacci, noto massone - ebbe vita nel periodo travagliato della Repubblica sociale del Nord Italia, ponendosi come promotore e catalizzatore di una chiesa nazionale, filofascista e alternativa alla Santa Sede. Don Calcagno, pur sostenendo tesi che esprimevano anche le aspettative di alcuni strati del popolo cattolico, si pose evidentemente in rotta con le gerarchie ecclesiastiche romane, assumendo posizioni filonaziste e scismatiche, tanto che Don Calcagno si prese la sua bella (e inevitabile) sospensione «a divinis». Fra Ginepro, pur essendo amico e collega della maggior parte dei redattori della testata cremonese, non vi scrisse mai, neppure una riga. Don Angelo Scarpellini, anch’egli cappellano militare e collaboratore di «Crociata Italica», ha smentito categoricamente ed in epoca non sospetta (1962) l'affiliazione di Ginepro al gruppo dei sacerdoti «scismatico-fascisti». Anzi, lo stesso ha confermato che, benché invitato a collaborare, Ginepro abbia educatamente, ma fermamente, rifiutato. A margine di questa smentita, può essere utile ricordare che il direttore Don Calcagno fu fucilato dai partigiani a Milano il 29 aprile 1945 insieme al poeta cieco Carlo Borsani, e che il gerarca cremonese Roberto Farinacci, pur essendo stato in vita anticlericale e massone, si avviò a passo deciso verso il supplizio accompagnato da due sacerdoti di Vimercate (Milano), ai quali affidò una grossa cifra da destinare agli orfani del paese.
Occorre ancora spendere due parole su alcune delle tante «leggende metropolitane» che sono state diffuse sulla figura di fra Ginepro da Pompeiana. Al momento dell’arresto da parte di partigiani comunisti genovesi della «Brigata Buranello», la stampa antifascista locale («L’Unità», «Avanti!», etc.) non perse l’occasione per denigrare pesantemente la figura del cappuccino, descrivendolo come «sporco» e «donnaiolo». Non eravamo presenti quel giorno di agosto del 1945, e non possiamo esprimerci sullo stato dell’igiene personale del frate, ma certamente possiamo affermare che i «71 nomi e indirizzi di donne» non erano altro che i recapiti di congiunti di caduti in guerra, cui fra Ginepro dedicò, per tutta la durata dell’esistenza, ogni sforzo affinché ne venisse ricordato il supremo sacrificio al servizio dello Stato. 
Qui va precisato che i comunisti della «Buranello» fecero sfoggio di un certo tatto: dei tre partigiani che lo prelevarono presso il convento genovese di San Barnaba, uno era stato militare nella «Cosseria» in Etiopia proprio con fra Ginepro, e l’altro aveva uno zio prete. L’indomani gli permisero di servire Messa nel convento di Sestri Ponente e successivamente fu accompagnato in Questura dal cappellano partigiano Don Berto Ferrari. Viaggio - gratis - sul tram e niente manette. Lo stesso Don Berto, avvicinato pochi anni or sono dallo scrivente, ricordò perfettamente il fatto, descrivendolo con precisione e correttezza. Fra Ginepro, nella sede della comunistissima «Brigata Buranello», non rinnegò le sue simpatie fasciste, né la personale amicizia con Mussolini, e si assunse fino in fondo tutte le eventuali responsabilità del suo operato durante la Rsi.
Del frate cappuccino ligure ci rimangono oggi i suoi scritti, ben 40 tra libri e opuscoli, alcuni postumi, tutti appassionanti. Restano alcune biografie, una bella statua custodita nel convento di Loano, e l’«Associazione Amici di fra Ginepro» gestita dall’infaticabile segretario genovese Carlo Viale, animatore di un sodalizio nato nel 1962 (all’indomani della morte del frate) e fondato dagli Onorevoli Ezio Maria Gray e Mitolo, dalle Medaglie d’Oro Luigi Ferraro e Giuseppe Zigiotti, da scrittori, giornalisti, sacerdoti, militari mutilati e decorati. 
Ci resta anche, e non sembri poco, l’annuale cerimonia che - testardamente - un gruppo di amici fedeli tiene ogni anno a ottobre, sulla tomba del grande cappuccino ligure.

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