sabato 2 maggio 2015

Placido Procesi Medico di Evola e di Zolla

Nel 1959, ricordo bene l’anno, feci dopocena un emozionante incontro in una incantata piazza Navona, splendido gioiello di una Roma non ancora consegnata in modo stupido ed irrefrenabile, per non dire peggio, ai barbari che già incombevano. Mi presentai all’incontro con un caro compagno di Liceo, col quale ero rimasto in contatto anche se iscritto ad una facoltà universitaria diversa dalla sua. Scopo comune era fare la conoscenza di un riservato cenacolo di studiosi che, a detta del mio amico, si interessava all’opera di Giuliano Kremmerz. 
Sulle prime la cosa mi parve inverosimile. Avevo soltanto da poco terminata la lettura del primo volume dell’Opera Omnia, pubblicata in tomi di grosso formato dalla Casa Editrice Universale di Roma, da me acquistato per posta dal benemerito editore Rocco di Napoli. Quel tanto che ne sapevo, infatti, mi sembrava diametralmente opposto ed inconciliabile con le mediocri prospettive riservate all’Uomo dalla imperante cultura democristiano-marxista, comodamente assisa sulle rassicuranti rovine di una nazione sconfitta ed umiliata. Ma lo Spirito, si sa, soffia dove vuole ed avrei imparato presto a far tesoro di questa massima.
Dopo le rituali presentazioni, ci trasferimmo in un palazzo patrizio ove ebbi modo di apprezzare, nel contesto della conversazione subito rivelatasi di alto livello, gli accesi ma sereni interventi di un giovane medico dalla figura prestante e simpatica, dall’eloquio diretto ed accattivante e per di più dotato di una vasta cultura orientalistica, che, tra l’altro, gli permetteva di citare Lao Tse nella lingua originale.
Venni poi a sapere che il giovane medico, Placido Procesi, si era, ancora adolescente, idealmente afferrato alla tonaca di un sacerdote cattolico cinese che studiava a Roma, ben determinato a non mollarla finché il gentile prete non gli avesse insegnato la sua difficile lingua. E così fu, come potetti constatare. Un giorno, infatti, mi risolsi per gioco a sfidarlo a tradurre i singoli ideogrammi che comparivano in un dizionario sino-inglese. Io gli sottoponevo un ideogramma dopo l’altro, avendo ben cura di nascondere con il dito la traduzione in inglese. Non ne sbagliò nemmeno una.
In seguito gli avrei consigliato di sfruttare questa sua inusuale formazione medica ed orientalistica recandosi un anno o due in Cina per fare pratica di agopuntura, una tecnica terapeutica che già praticava con successo, per collocarsi così ufficialmente ai vertici, in Europa, tra i cultori di tale disciplina. Ma egli, sia perché restio ad allontanarsi da Roma, se non per poco, sia forse perché istintivamente diffidente su quanto avrebbe potuto apprendere nella Cina di Mao, che detestava, non ne fece di niente.
Dopo il nostro primo incontro ne seguirono altri, con sempre maggiore frequenza, trasformandosi poi nelle famose riunioni del venerdì sera nel salotto della sua abitazione, nelle quali avevano luogo, con il concorso dei presenti e sotto la sua illuminata guida, delle vere e proprie tornate di studio su svariati argomenti contenuti nell’Opera Omnia del Kremmerz, che egli arricchiva con ampi riferimenti alle dottrine orientali delle quali aveva una profonda e sostanziale conoscenza. Infatti, oltre al Taoismo, di cui ho già detto, egli era bene al corrente delle dimensioni più interne e spirituali dell’Induismo, del Buddismo e della tradizione egizio-ebraico-cristiana, con particolare riferimento all’Ermetismo, che costituiva nella nostra prospettiva, una sorta di filo conduttore tra di esse.
A questo si aggiungeva il suo grande amore per la Tradizione di Roma, che egli percepiva ed interpretava in termini di continuità fra le sue varie epoche (arcaica, regia, repubblicana, imperiale e papale), respingendo l’idea di traumatiche e definitive cesure che ne avessero in qualche modo interrotto ed arrestato il fluire. Naturalmente queste sue tesi non venivano dogmaticamente esposte, ma si prestavano a dibattiti, che egli volentieri accettava. A me, ad esempio, risultava indigesto mettere sullo stesso piano Giordano Bruno ed il cardinale Bellarmino che lo aveva spedito sul rogo. Procesi, che pur non era un hegeliano, vi scopriva forse una sorta di tesi ed antitesi, delle quali intravedeva una possibile sintesi su di un piano superiore. Non so. Comunque le parti più interessanti e vitali di quegli incontri non erano le discussioni sul cosiddetto tradizionalismo, ma lo studio dei temi più specificamente iniziatici e sapienziali, che tutti eravamo d’accordo nell’investigare con impegno e dedizione. Ricordo che era solito dire che noi avevamo la fortuna di poter abbordare quegli argomenti con la guida di una “troika” di sapienti: Evola, Guénon e Kremmerz. Il primo accendeva il fuoco della ricerca spirituale, il secondo ci convinceva a ricercarne il soddisfacimento nel contesto di una filiazione iniziatica, ed il terzo deteneva la possibilità di tale iniziazione, in modo non virtuale, ma reale.
Nel porgere questi insegnamenti Procesi incarnava la quintessenza dell’Ermetismo, che è ermafrodito, nel senso di Ermete che ama Afrodite, ovvero la sapienza che sposa l’amore, qualcosa di simile, ma filosoficamente più articolato, dell’Intelletto d’Amore dei nostri Stilnovisti.
Sta di fatto che chiunque si fosse rivolto a lui per un qualsiasi problema, spirituale, esistenziale o di salute, non ne ritornava mai a mani vuote.
Aveva sicuramente alcuni carismi, che talvolta lo inducevano a divertirsi in modo curioso. Una volta disegnò su di un pezzetto di carta un gingillo dalla forma inusuale ed incaricò una persona di andarglielo a trovare sulle bancarelle del mercato di Porta Portese: peggio che cercare il classico ago nel pagliaio! Ebbene, l’incaricato si presentò qualche tempo dopo con il gingillo, che aveva casualmente scoperto in un mucchio di cianfrusaglie.
Tra gli amici che lo frequentavano vi erano coloro, me compreso, che erano convinti che una speciale aura benefica lo avvolgesse, particolarmente avvertibile nella parte alta del volto (fronte e capelli). Non ho alcun intento agiografico, per cui ciascuno è libero di pensare quello che vuole e considerare ciò come una semplice illusione di giovani discepoli pieni di ammirazione. Del resto anch’egli aveva i suoi difetti come, più o meno, li abbiamo tutti.
Ciò che più conta era la sostanza estremamente interessante, anzi fascinosa, dei nostri incontri, per i quali veniva attuato un singolare dispositivo a beneficio di coloro che avevano impegni il mattino successivo. Una sveglia, cioè, veniva caricata per la mezzanotte, quindi ricaricata per le due ed infine ancora per le quattro, in modo da avvertire i ritardatari. Ma anche questo a volte non bastava. Ricordo che una volta me ne andai alle sei del mattino, riposatissimo e felice di quanto avevo appreso.
Era il medico di Julius Evola e forse la frequentazione di questo fiero difensore della Tradizione accentuò in lui la sua innata avversione alla decadenza dei valori che intossica la società contemporanea, conducendolo a schierarsi contro quella che considerava la “sovversione”, intesa anche come principio metafisico oscuro e nefasto. Fu così che quella che si era manifestata, per ricorrere ad una metafora non priva di un riscontro quasi visibile, come l’anima di un medico ed alchimista taoista, si tinse dei colori più combattivi, ma pur sempre sapienziali, delle discipline marziali presenti nel contesto del Buddismo Zen. A questo scopo fondò una Scuola Romana di tiro con l’arco giapponese, che ebbe l’onore di avere una filiale nel Paese del Sol Levante, ove è stata altamente apprezzata per lo spirito rigorosamente tradizionale che la informa.
La sua ripugnanza per i molteplici ed insidiosi aspetti della sovversione lo avvicinò al Cattolicesimo romano ed alle tradizioni cavalleresche occidentali, nelle quali scorgeva l’equivalente dello spirito del Samurai. In questo suo crescente avvicinamento al Cattolicesimo svolse forse un ruolo la sua amicizia con Cristina Campo, la squisita e sensibile scrittrice cattolica, che conobbe frequentando Elémire Zolla.
Non sono in grado di descrivere con maggiore precisione questi sviluppi del pensiero di Procesi, anche perché intorno alla metà degli anni Ottanta lasciai Roma per altri lidi. Egli stesso, tuttavia, in una delle nostre ultime telefonate, mi riferì di aver detto ad uno dei suoi amici giapponesi che tre sono i troni che, nel mondo, meritano oggi di essere difesi: quello del Mikado, quello del Dalai Lama e quello del Pontefice Romano.
Nell’accennare ai misteri della trascendenza che ci attendono tutti, mi disse che sperava di essere accolto in uno dei paradisi che tanto avvicinano le escatologie del Cattolicesimo e del Buddismo del grande veicolo. Sono sicuro che è stato esaudito e che pure da lassù questo singolare samurai dall’accento garbatamente romanesco non si scorderà della sua amatissima Roma, né dell’ambiente umano che gli è stato caro.
(Tratto da ELIXIR n. 1 con il permesso delle Edizioni Rebis)

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