lunedì 8 ottobre 2018

Il dionisismo nel XVI sec in europa, una danza coinvolgente che contagiava tutti

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L’epidemia di danza del 1518
Cinquecento anni fa a Strasburgo imperversava una strana mania. A centinaia, i cittadini sono stati costretti a ballare per giorni, apparentemente senza motivo e come in trance, fino all’incoscienza, o, in alcuni casi, alla morte
Su un palco costruito frettolosamente vicino all’affollato mercato dei cavalli di Strasburgo, decine di persone ballano al ritmo di trombe, tamburi e corni. Il sole di luglio batte sulle loro teste mentre saltano qua e là, girano in tondo e piroettano follemente. Da lontano potrebbero sembrare i protagonisti di un carnevale, ma un esame più attento rivela una scena decisamente più inquietante: le loro braccia si flagellano e i loro corpi sono in preda a spasmodiche convulsioni. I vestiti sono stracciati e le facce, distrutte, grondano sudore. I loro occhi sono come di vetro, appaiono assenti. C’è del sangue che scorre copioso dai piedi gonfi agli stivali di pelle e sugli zoccoli di legno. Non si tratta di ballerini ma di “coreomaniaci”, persone interamente possedute dalla mania della danza.
Si trattò della cosiddetta coreomania, una vera e propria mania che tormentò la città di Strasburgo per oltre un mese a metà dell’estate del 1518. Conosciuta anche come “peste danzante”, fu la più fatale e meglio documentata delle oltre dieci epidemie simili scoppiate lungo il Reno e la Mosella sin dal 1374. Ci sono numerose testimonianze dei bizzarri eventi che si svolsero durante l’estate, diffuse in documenti dell’epoca e cronache raccolte nei decenni e nei secoli successivi.l medico e alchimista Paracelso visitò Strasburgo otto anni dopo la peste e rimase affascinato dalla malattia. Secondo il suo Opus Paramirum, in concordanza a varie cronache, tutto è iniziato con una donna. Frau Troffea aveva iniziato a ballare il 14 luglio nell’angusta strada acciottolata fuori dalla sua abitazione. Per quel che si sa non aveva alcun accompagnamento musicale, ma semplicemente “cominciò a ballare”. Ignorando le suppliche di suo marito di cessare, la donna continuò per ore, fino a quando il cielo non si offuscò e lei crollò per la stanchezza. La mattina dopo si alzò di nuovo sui piedi gonfi e iniziò a ballare senza lamentare né fame né sete. Il terzo giorno, molte persone – ambulanti, portinai, mendicanti, pellegrini, sacerdoti e suore – godevano dell’empio spettacolo. La mania possedeva Frau Troffea da quattro o sei giorni, finché le autorità, spaventate, la mandarono a Saverne, a trenta miglia di distanza. Lì avrebbe potuto essere curata presso il santuario di Vito, il santo che si credeva l’avesse maledetta. Ma alcuni di coloro che avevano assistito alla strana esibizione avevano già cominciato a imitarla, e nel giro di pochi giorni più di trenta coreomane (afflitte da coreomania) erano già in movimento, alcune così monomane che solo la morte avrebbe avuto il potere di fermarle.
Man mano che cresceva il numero di cittadini afflitti da questa insolita piaga, più disperato diventava lo sforzo delle istituzioni per controllarla. Il clero la riteneva opera del vendicativo San Vito, ma i consiglieri ascoltavano piuttosto la corporazione dei medici, che dichiarava la danza “una malattia naturale, che deriva dal sangue surriscaldato”. Secondo la teoria umorale, gli afflitti dovevano di conseguenza essere salassati. Ciononostante i medici raccomandarono invece il medesimo trattamento che venne applicato in passato per le vittime di questa stessa bizzarra patologia: dovevano ballare finchè non fosse passata. Una cronaca del sedicesimo secolo, scritta dall’architetto Daniel Specklin, documenta l’attività del consiglio. Ai falegnami e ai conciatori fu ordinato di trasformare le sale della loro corporazione in piste da ballo temporanee, e di “allestire piattaforme nel mercato dei cavalli e del grano” accessibili al pubblico. Per mantenere i malati in movimento e accelerare il loro recupero, decine di musicisti vennero pagati per suonare tamburi, violini, tubi e corna, con ballerini sani per apportare un ulteriore incoraggiamento. Le autorità speravano di creare così le condizioni ottimali perché la danza si esaurisse.
Il piano fallì miseramente. Essendo più inclini a una spiegazione soprannaturale che medica, infatti, la maggior parte degli spettatori vide nei movimenti frenetici delle danze una dimostrazione della grandezza della furia di San Vito e non non considerandosi esenti dal peccato, furono moltissimi a ritrovarsi attratti dall’assurda mania. La cronaca della famiglia Imlin, per esempio, riporta che nel giro di un mese la peste aveva colpito ben quattrocento cittadini.l consiglio tornò sui suoi passi e ordinò di abbattere i palchi. Se i coreomaniaci devono proprio continuare i loro movimenti inquietanti, che lo facciano di nascosto. Il consiglio andò molto oltre vietando quasi tutti i balli e bandendo la musica in città fino al settembre successivo. Certo, non si trattava di un provvedimento da poco per una comunità per cui la danza comunitaria era il centro della cultura dell’epoca – dai ballerini che eseguivano i loro passi con eleganza nella cosiddetta bassadanza, ai contadini carichi di birra che usavano saltellare per sfogare l’ebrezza. Sebastian Brant, un cancelliere di Strasburgo autore de La nave dei pazzi (1494), precisò che esisteva un’eccezione al divieto: “Se qualcuno desidera ballare a matrimoni o alle celebrazioni della prima Messa, in casa, può farlo usando esclusivamente strumenti a corda, ma si raccomanda alla sua coscienza di non usare tamburelli e tamburi”. Gli archi, quindi, erano considerati meno pericolosi, meno propensi a stimolare la mania rispetto alle diaboliche percussioni noltre il Consiglio ordinò che le persone più colpite fossero raggruppate in carri e portate fino al santuario di San Vito dove inizialmente era stata curata Frau Troffea, la prima a essere considerata infetta da questa strana “peste”. I sacerdoti collocano i coreomaniaci, che presumibilmente saranno ancora lì, convulsi come dei pesci spiaggiati, sotto a una scultura in legno di San Vito, misero anche delle piccole croci tra le mani e sulle scarpe rosse di sangue dei danzatori indemoniati. Sulle scarpe, e persino sotto le suole, spruzzarono acqua santa e dipinsero croci con ’olio consacrato. Questo rituale, svolto in un’atmosfera densa di incenso e di incantesimi recitati in latino, ottenne l’effetto desiderato: la notizia raggiunse presto Strasburgo e molte altre persone furono inviate a Saverne per essere perdonate da Vito. Nel giro di una settimana il flusso di pellegrini sofferenti si era ridotto a pochi individui. La peste danzante, che durava da oltre un mese, da metà luglio fino a fine agosto o inizio settembre, si era esaurita. All’apice dell’epidemia morivano ben quindici persone al giorno e se un bilancio esatto non è noto rimane il fatto che, se le stime fossero corrette, il tasso di mortalità giornaliero avrebbe potuto toccare svariate centinaia di deceduti.
Ma se non era colpa di un santo vendicativo o del sangue surriscaldato, che cosa causò la peste danzante? Secondo Paracelso, la maratona di Frau Troffea era uno stratagemma per mettere in imbarazzo suo marito, il signor Troffea: “per rendere l’inganno il più perfetto possibile, e dare davvero l’impressione della malattia, saltò e cantò, rendendo il tutto più umiliante per il marito”. Apparentemente, una volta notato che il trucco aveva successo, anche altre donne cominciarono a ballare per infastidire i mariti, stimolate da pensieri “liberi, lascivi e impertinenti”. Questo tipo di mania danzante fu classificato da Paracelso come Chorea lasciva (causata da desideri voluttuosi, “senza paura o rispetto”), simile alla Chorea imaginativa (causata dalla fantasia, “per rabbia e giuramenti”), e alla Chorea naturalis (una forma molto più mite, motivata da cause corporali). Sebbene il celebre iconoclasta Paracelso abbia il merito di aver posto la causa della malattia nella mente dei coreomaniaci piuttosto che in cielo, egli era così misogino che oggi la sua diagnosi appare quantomeno ridicola.
Diversi storici moderni hanno sostenuto che le piaghe danzanti dell’Europa medievale furono causate dalla segale cornuta, una muffa psicoattiva che si trova sui gambi di segale umida. La muffa può causare convulsioni, sobbalzi e allucinazioni – una condizione nota anche come St. Anthony’s fire . Tuttavia, lo storico John Waller ha sfatato l’ipotesi della segale cornuta nel suo brillante saggio sulla peste danzante, A Time to Dance, a Time to Die (Un tempo per ballare, un tempo per morire) pubblicato nel 2009. Sì, la segale cornuta può causare convulsioni e allucinazioni, ma limita anche l’afflusso del sangue alle estremità: chi viene avvelenato dalla segale non è assolutamente in grado di ballare per diversi giorni di fila.
La spiegazione di Waller della peste danzante emerge dalla sua profonda conoscenza dell’ambiente materiale, culturale e spirituale di Strasburgo del sedicesimo secolo. Lo studioso apre il suo libro con una citazione da A History of Madness in Six-century Germany (1999) di H.C. Erik Midelfort:
Le follie del passato non sono entità granitiche che possono essere estratte dalle loro cave senza alcun mutamento, per essere sottoposte ai nostri microscopi moderni. Sono, forse, più simili alle meduse, che muoiono e si disidratano quando vengono rimosse dall’acqua del mare.
Secondo Waller, i poveri di Strasburgo sono stati colti da un’epidemia di danza isterica. Innanzitutto, c’era un precedente: ogni peste danzante europea tra il 1374 e il 1518 si era verificata nei pressi di Strasburgo, lungo il confine occidentale del Sacro Romano Impero. Poi ci sono delle condizioni ambientali: nel 1518 i cattivi raccolti, l’instabilità politica e l’arrivo della sifilide avevano indotto uno stato collettivo di estrema angoscia nella popolazione. Questa sofferenza venne somatizzata e manifestata come una danza isterica. Le persone possono essere straordinariamente suggestionabili e così fu sufficiente una ferma convinzione nella vendetta di San Vito per renderla reale e concreta. “Le menti dei coreomaniaci erano rivolte verso l’interno”, scrive Waller, “gettate nei mari violenti delle loro paure più profonde”.
un altro modo per chiarire la peste danzante è considerare i casi di trance contemporanea: nelle culture di tutto il mondo, compreso il Brasile, il Madagascar e il Kenya, nei periodi di estremo stress le persone entrano in trance deliberatamente, spesso durante delle cerimonie. Una volta in trance, la loro percezione del dolore e della stanchezza è molto limitata. Waller descrive la diffusione della peste danzante come un esempio di contagio psichico, e fa un parallelo con l’epidemia di risate incontrollabili che ha travolto una regione della Tanganica (l’odierna Tanzania) nel 1963. Successe che una coppia di ragazze di una scuola locale furono contagiate dalle risate, gli amici vennero contagiati cominciando a ridere anche loro, fino a quando i due terzi degli alunni ridevano e piangevano in modo incontrollato e l’intera scuola dovette chiudere i battenti. Ma una volta a casa, gli alunni “infettavano” le famiglie e ben presto interi villaggi erano afflitti dalle risate isteriche. I medici registrarono diverse centinaia di casi, che duravano in media una settimana. Proprio così, una settimana intera di risate.
Naturalmente, le piaghe danzanti hanno un altro parallelo contemporaneo – la cultura rave. Anche se di solito non ci sono i piedi sanguinanti e le richieste di aiuto dei coreomaniaci del sedicesimo secolo, e anche se a volte ricopre un ruolo l’effetto di sostanze stupefacenti, non è raro per i frequentatori dei rave ballare per giorni interi, con brevi pause, rinunciando al sonno e al cibo, a volte muovendo i piedi a ritmo, altre volte invece saltellando a caso. Se una di queste persone – magari per via di una “pozione magica del ballo” – venisse trasportata sul palco del mercato equestre della Strasburgo di mezzo millennio fa, potrebbe non sentirsi così fuori luogo. Anzi....
traduzione italiana di un articolo precedentemente uscito su Public Domain Review)
di Ned Pennant-Rea
1)Particolare di un’incisione del 1642 di Hendrik Hondius, tratta dal disegno di Pieter Breughel del 1564 che ritrae i malati di un’epidemia di danza che si verificò a Molenbeek in quell’anno.
2)Particolare della pittura basata sul disegno di Pieter Breughel di un’epidemia di danza che avvenne a Molenbeek nel 1564.

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