giovedì 5 luglio 2018

Stralci da "Il labirinto della solitudine" di Octavio Paz, l'anima profonda e atavica del Messico

Nel suo magnifico libro "II labirinto della solitudine", il poeta messicano Octavio Paz riflette sulla storia drammatica e sulla società messicane, dalla Conquista fino ai giorni nostri.

Messico in festa ?
In un anno gli aztechi celebravano un grandissimo numero di feste, da duecento a trecento. Oggi le feste sono cambiate, ma restano un aspetto caratteristico e importante della società messicana. Octavio Paz afferma: "È significativo che un paese triste come il nostro abbia tante feste, e così allegre".
Il brano che segue esamina il ruolo della festa, l'esplosione e lo scoppio, la comunicazione e la rottura violenta. 

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tratto da: Octavio Paz - Il Labirinto Della Solitudine
Il nostro calendario è popolato di feste. In certi giorni, nei piccoli villaggi più appartati come nelle grandi città, l'intero paese prega, grida, mangia, si ubriaca e uccide in onore della Vergine di Guadalupe o del Generale Zaragoza.
Ogni anno, i
l 15 settembre, alle undici di sera, in tutte le piazze del Messico celebriamo la festa del Grido; e una moltitudine effettivamente inebriata grida per lo spazio di un'ora, forse per meglio tacere per il resto dell'anno. Durante i giorni che precedono e che seguono al 12 dicembre, il tempo sospende la sua corsa, fa un alt, e invece di spingerci verso un domani sempre irraggiungibile e menzognero, ci offre un presente pieno e perfetto, di danza e di divertimento, di festino e di comunione con ciò che vi è di più antico e di più segreto del Messico. Il tempo cessa di essere successione e torna a essere quello che fu ed è originariamente: un presente, in cui passato e futuro alla fine si riconciliano. Ma non bastano le feste che la Chiesa e la Repubblica offrono a tutto il paese. La vita di ogni città e di ogni villaggio è retta da un santo, che si festeggia con devozione e regolarità. I quartieri, le corporazioni hanno pure le loro feste annuali, le loro cerimonie e le loro fiere. E infine, ognuno di noi, atei, cattolici o indifferenti, possiede il proprio santo, che onora ogni anno.
 Chalma
Sono incalcolabili le feste che celebriamo e il danaro e il tempo che spendiamo per festeggiarle. (…) La nostra povertà si può misurare dal numero e dalla sontuosità delle feste popolari. I paesi ricchi ne hanno poche: non c'è tempo ne humour. Non sono necessarie, la gente ha altre cose da fare e quando si diverte lo fa in piccoli gruppi. [...] Ma un povero messicano, come potrebbe vivere senza quelle due o tre feste annue, che lo compensano delle sue ristrettezze e della sua miseria? Le feste sono il nostro unico lusso; esse sopravvivono, forse con vantaggio, al teatro e alle vacanze, al week-end e ai cocktail-party degli anglosassoni, ai ricevimenti della borghesia e al caffè dei mediterranei. In quelle cerimonie - nazionali, locali, di corporazione o familiari - il messicano si apre all'esterno. Tutte quelle feste gli danno modo di rivelarsi e di dialogare con la verità, con la Patria, gli amici o i parenti. Durante quei giorni il silenzioso messicano fischia, grida, canta, getta petardi, scarica la sua pistola in aria; scarica la propria anima. Il suo grido, come i razzi che tanto gli piacciono, sale fino al cielo, scoppia in una esplosione rossa, verde, azzurra e bianca, e cade vertiginoso, lasciando una coda di scintille dorate. [...]
A volte l'allegria finisce male: vi sono lotte, ingiurie, colpi di pistola, coltellate. Anche questo fa parte della festa. Perché il messicano non si diverte: vuole superarsi, saltare il muro della solitudine che per il resto dell'anno lo isola. Tutti sono posseduti dalla violenza e dalla frenesia. Le anime scoppiano, come i colori, le voci, i sentimenti. Si dimenticano di se stessi, mostrano il loro vero volto? Nessuno lo sa. L'importante è di uscire, di aprirsi la strada, di inebriarsi di rumore, di gente, di colore. Il Messico è in festa. E questa resta attraversata da lampi e da deliri, è come il rovescio brillante del nostro silenzio e della nostra apatia, della nostra riserva e della nostra scontrosità. [...]
Iscritta nell'orbita del sacro, la Festa è, anzitutto, l'avvento dell'insolito. La reggono regole speciali, peculiari, che la isolano e ne fanno un giorno d'eccezione. E con essa si introduce una logica, una morale e persino una economia che frequentemente contraddicono quelle di ogni giorno. Tutto accade allora in un mondo incantato: il tempo è un altro tempo (situato in un passato mitico o in una attualità pura); lo spazio in cui si verifica cambia di aspetto, si stacca dal resto della terra, si adorna e si converte in un "luogo di festa" (in genere si scelgono luoghi speciali o poco frequentati); i personaggi che intervengono abbandonano il loro rango umano o sociale e si trasformano in vive rappresentazioni, anche se effimere. In certe feste sparisce la nozione stessa di ordine, il caos ritorna e regna la licenza. Tutto è permesso: spariscono le gerarchie abituali, le distinzioni sociali, i sessi, le classi, le corporazioni. [...]. Così, dunque, la Festa non è solamente un eccesso, uno spreco rituale dei beni così penosamente accumulati durante tutto l'anno; è anche una rivolta, un improvviso immergersi nell'informe, nella vita pura. [...] La Festa è un'operazione cosmica: l'esperienza del Disordine, la riunione degli elementi e dei principi contrari per provocare la rinascita della vita.


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Nordamericani e messicani: incontro impossibile

tratto da Octavio Paz, Il labirinto della solitudine
(...) Ebbene, il realismo americano è di una specie molto particolare e la loro ingenuità non esclude la dissimulazione e perfino l'ipocrisia. Un'ipocrisia che, se è un vizio del carattere, è anche una tendenza del pensiero, perché consiste nella negazione di tutti quegli aspetti della realtà che ci appaiono sgradevoli, irrazionali o ripugnanti.

La contemplazione dell'orrore e perfino la
familiarità e il compiacimento nel trattarlo costituiscono al contrario uno dei tratti salienti del carattere messicano. I Cristi lordi di sangue delle chiese di paese, l'umore macabro di certi titoli di giornali, le veglie funebri, l'usanza di mangiare il 2 novembre pani e dolci fatti a forma di ossa e teschi sono abitudini, ereditate da indigeni e Spagnoli, inseparabili dal nostro essere.

Il nostro culto della morte è culto della vita, allo stesso modo che l'amore, che è fame di vita, è brama di morte. Il gusto per l'autodistruzione non deriva affatto da tendenze masochiste, ma da una certa religiosità.
 
E le nostre differenze non finiscono qui.
Gli Americani sono creduli,
noi credenti;

amano le fiabe e le storie poliziesche,

noi i miti e le leggende.
I Messicani mentono per fantasia, per disperazione o per vincere lo squallore della loro vita;

loro non mentono, ma sostituiscono la verità vera, che è sempre sgradevole, con una verità sociale.

Noi ci ubriachiamo per confessarci;

loro per dimenticare. Sono ottimisti;

noi nichilisti, solo che il nostro nichilismo non è intellettuale, ma una reazione istintiva; e dunque è irrefutabile.
I Messicani sono diffidenti;

loro invece aperti.

Noi siamo tristi e sarcastici;

loro allegri e spiritosi.
I Nordamericani vogliono comprendere,

noi contemplare.

Sono attivi;

noi tranquilli.
Ci compiaciamo delle nostre piaghe,

come essi delle loro invenzioni.
Credono nell'igiene, nella salute, nel lavoro, nella felicità, ma forse ignorano la vera allegria, che è un'ebbrezza e un vortice.

Nell'urlo della notte di festa la nostra voce scoppia in bagliori, e vita e morte si confondono;

la loro vitalità si pietrifica in un sorriso: nega la vecchiaia e la morte, ma immobilizza la vita.
E qual è la radice di atteggiamenti così contrari?
Credo che per i Nordamericani il mondo sia qualcosa che si può perfezionare;
per noi è qualcosa che si può redimere.

Loro sono moderni.

Noi, come i loro antenati puritani, crediamo che il peccato e la morte costituiscano il fondo ultimo della natura umana.

Solo che il puritano identifica la purezza con la salute. Di qui l'ascetismo che purifica e le sue conseguenze: il culto del lavoro per il lavoro, la vita sobria - a pane e acqua -, l'inesistenza del corpo come possibilità di perdersi o ritrovarsi in un altro corpo. Ogni contatto contamina. Razze, idee, costumi, corpi estranei portano in sé germi di perdizione e impurità. L'igiene sociale completa quella dell'anima e del corpo.

Invece i Messicani, antichi o moderni, credono nella comunione e nella festa; non c'è salute senza contatto. Tlazoltéotl, la dea azteca dell'impurità e della fecondità, degli umori terrestri e umani, era anche la dea dei bagni di vapore, dell'amore sessuale e della confessione.
E non ci sono stati grandi cambiamenti; anche il cattolicesimo è comunione. Entrambi gli atteggiamenti mi sembrano inconciliabili e, allo stato attuale, insufficienti. Mentirei se dicessi che qualche volta ho visto il senso di colpa trasformato in qualcosa di diverso dal rancore, disperazione solitaria o cieca idolatria.
La religiosità del nostro popolo è assai profonda — come la sua immensa miseria e l'abbandono — ma il suo fervore non ha altro effetto che quello di far girare l'argano di un pozzo secco da secoli. Mentirei pure se dicessi che credo nella fertilità di una società fondata sull'imposizione di certi principi moderni. La storia contemporanea invalida la credenza nell'uomo come una creatura che può essere modificata nella sua essenza da questo o quello strumento pedagogico o sociale.
L'uomo non è soltanto frutto della storia e delle forze che la muovono, come ora si pretende; neppure la storia è il risultato della sola volontà umana — presunzione su cui si basa, implicitamente, il sistema di vita nordamericano.
L'uomo, mi sembra, non è nella storia: è storia. Il sistema nordamericano vuole solamente vedere la parte positiva della realtà. Fin da bambini uomini e donne sono sottoposti a un inesorabile processo di adattamento: alcuni princìpi, racchiusi in brevi formule, sono ripetuti senza sosta dalla stampa, la radio, le chiese, le scuole e da quegli esseri affettuosi e sinistri che sono le madri e le mogli nordamericane.
Imprigionati in quegli schemi, come la pianta in un vaso che la soffoca, l'uomo e la donna non crescono o maturano mai. Un tale complotto non può che provocare violente ribellioni individuali. La spontaneità si vendica in mille forme, sottili o terribili. La maschera benigna, cortese e spoglia, che sostituisce la mobilità drammatica del volto umano, e il sorriso che la immobilizza quasi dolorosamente, mostrano fino a che punto l'intimità può essere devastata dall'arida vittoria dei principi sugli istinti.
Il sadismo soggiacente a quasi tutte le forme di relazione della società nordamericana contemporanea, forse non è altro che un modo di sottrarsi alla pietrificazione imposta dalla morale della purezza asettica. E le nuove religioni, le sette, l'ubriacatura liberatoria che apre le porte della « vita ». È sorprendente il significato quasi fisiologico e distruttivo di questa parola: vivere vuol dire passare i limiti, infrangere norme, andare fino in fondo (a che cosa?), « sperimentare sensazioni ». Coabitare è una « esperienza » (per ciò stesso unilaterale e vana).
Ma non è oggetto di queste righe descrivere quelle reazioni. Basti dire che tutte, come le opposte reazioni messicane, mi sembrano rivelatrici della nostra comune incapacità di conciliarci con il flusso della vita. Un'analisi dei grandi miti umani sull'origine della specie e sul senso della nostra presenza terrena rivela che ogni cultura — intesa come creazione e partecipazione comune di valori — parte dalla convinzione che l'ordine dell'Universo è stato infranto o violato dall'uomo, l'intruso.
Dal buco o dall'apertura della ferita che l'uomo ha inflitto nella carne compatta del mondo, può nuovamente irrompere il caos, che è lo stato originario e, per così dire, naturale della vita. Il ritorno « dell'antico Disordine Originale » è una minaccia che assilla tutte le coscienze in tutti i tempi. (...)


 

Il mito di Cuauhtèmoc




Cuauhtèmoc, ultimo imperatore azteco, (sconfitto nell'assedio di Tenochtitlan, si consegna a Cortès, quadro su rame di autore ignoto)
tratto da Octavio Paz, Il labirinto della solitudine
(...) Il messicano venera il Cristo sanguinante e umiliato, colpito dai soldati, condannato dai giudici, perché vede in lui l'immagine trasfigurata del proprio destino. La stessa cosa lo spinge a riconoscersi in Cuauhtémoc, il giovane imperatore azteco detronizzato, torturato e assassinato da Cortès.

Cuauhtémoc vuol dire « aquila che cade ». Il capo messicano sale al potere all'inizio dell'assedio di México-Tenochtitlàn, quando gli Aztechi sono stati abbandonati via via dai loro dei, dai loro vassalli e dai loro alleati. Sale unicamente per cadere, come un eroe mitico.


(...) È un guerriero, ma è anche un fanciullo. Il ciclo eroico però non si chiude: l'eroe caduto è ancora in attesa della sua resurrezione.
Non è sorprendente che per la maggioranza dei Messicani Cuauhtémoc sia il « giovane antenato », l'origine del Messico: la tomba dell'eroe è la culla del popolo. Tale è la dialettica dei miti e Cuauhtémoc, prima che una figura storica, è un mito.

E a questo punto interviene un altro elemento decisivo, un'analogia che fa di questa storia un vero e proprio dramma alla ricerca di uno scioglimento: il luogo della tomba di Cuauhtémoc è sconosciuto. Il mistero del luogo dove sono finiti i suoi resti è una delle nostre ossessioni. Trovarlo significa niente di meno che tornare alla nostra origine, riannodare la nostra ascendenza, rompere la solitudine. Resuscitare.

Se si interroga la terza figura della triade, la Madre, ascolteremo una risposta duplice. Non è un segreto per nessuno che il cattolicesimo messicano si incentra nel culto della Vergine di Guadalupe.

In primo luogo si tratta di una Vergine india; inoltre la località della sua apparizione (davanti all'indio Juan Diego) è una collina che fu in precedenza un santuario dedicato a Tonantzin, « nostra madre », dea della fertilità per gli Aztechi.

Com'è noto, la Conquista coincide con l'apogeo del culto a due divinità maschili: Quetzalcoatl, il dio dell'immolazione (crea il mondo, secondo il mito, gettandosi sul rogo, a Teotihuacàn) e Huitzilopochtli, il giovane dio guerriero sacrificatore.

La disfatta di questi dei — perché questo fu la Conquista per il mondo indio: la fine di un ciclo cosmico e l'instaurazione di un nuovo regno divino
— produsse tra i fedeli una sorta di ritorno alle antiche divinità femminili.

Questo fenomeno di ritorno alle viscere materne, ben cono- sciuto dagli psicologi, è senza dubbio una delle cause che determinarono la rapida popolarità del culto alla Vergine. Orbene, le divinità indie erano dee di fecondità, legate ai ritmi cosmici, ai processi di vegetazione e ai riti agrari. La Vergine cattolica è pure una Madre (Guadalupe-Tonantzin la chiamano ancora alcuni pellegrini indi), ma il suo attributo principale non è quello di vegliare sulla fertilità della terra, ma di essere il rifugio dei derelitti.

La situazione è cambiata: non si tratta più di assicurare le messi, ma di trovare un grembo. La Vergine è la consolazione dei poveri, lo scudo dei deboli, il riparo degli oppressi.
Risultati immagini per octavio paz "Il labirinto della solitudine"Insomma, è la Madre degli orfani.

Noi tutti uomini nasciamo diseredati e il nostro vero stato è quello di orfani, ma questo è vero in modo particolare per gli indi e i poveri del Messico.
(...)

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