mercoledì 13 aprile 2016

L'arena e il rogo dei Catari

Nell’Arena di Verona gli eretici furono bruciati
Chissà se Celentano l’eretico, stasera all’Arena per il doppio concerto, sa che l’anfiteatro veronese è la Montségur italiana. A Verona gli eretici erano di casa: la pianura padana era zona franca per i catari, che se la prendevano con le gerarchie della Chiesa. Ma in Arena gli eretici venivano a...
di Giulio Saletti
8 Ottobre 2012 - 11:31


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Chissà se a Celentano l’eretico, stasera sul palco dell’Arena per il doppio concerto monstre a 18 anni dall’ultimo live, qualcuno avrà detto che l’anfiteatro veronese è la Montségur italiana. Se a lui, al re degli ignoranti che al festival di Sanremo ha strapazzato preti e frati (salvando solo don Gallo, un altro in odore di eresia), qualcuno avrà raccontato cosa accadde in riva all’Adige settecento anni fa. Quando, nel febbraio del 1278, il rogo di decine e decine di catari rischiarò a giorno la notte. Chissà. Perché in quel tempo, a Verona e nel contado, gli eretici erano di casa. Curioso antefatto per una città che oggi passa per bigotta e clericale.
Eppure, specie negli anni di Ezzelino da Romano (l’amico prediletto del demonio, lo definirà Salimbene de Adam) e Oberto Pallavicino, la pianura padana era zona franca per il catarismo occidentale, e il territorio veronese una sorta di Eden. Fovea haereticorum, la tana di tutti i ‘dissidenti’ religiosi. Luogo di passaggio e d’arrivo dei fuoriusciti occitani dopo i massacri della crociata albigese bandita da Innocenzo III e l’implacabile durezza dell’inquisizione. Le fonti parlano di una domus di Spata nei pressi di piazza Erbe e di una chiesa catara attiva in contrada san Nicolò; ma è soprattutto sulle sponde del Garda che gli eretici si compattano.
Desenzano è una delle sei chiese catare in Italia, una delle più radicali e importanti. Portavoce di un dualismo esasperato, la comunità è organizzata, ha scuole e magistri, vescovi e diaconi. Possiede strutture di ‘pastorale domestica’ per il sacramento del battesimo (il consolament) agli aspiranti ‘perfetti’, per l‘accoglienza e la raccolta di risorse. Secondo buona parte degli storici – ma tra gli eresiologi la polemica sul punto è feroce – è una vera e propria ‘antichiesa’, dalla portata eversiva e antagonista. Ma con la discesa in campo di Carlo d’Angiò e la vittoria delle milizie filopapali (in quella guerra di fazioni che si intreccia con il movimento comunale e squassa l’Italia nel basso medioevo), il vento della storia cambia direzione. La morte di Ezzelino, il ‘tradimento’ di Oberto, il decollo dell’inquisizione sono un cataclisma per gli eretici padani. D’improvviso si rovescia il quadro politico e salta ogni protezione e tolleranza. E il castrum di Sirmione, dove peraltro la presenza di caçari è attestata dal 1193, si trasforma nel rifugio fortificato dello stato maggiore dell’eresia.
A Sirmione, la venusta Sirmio di Catullo, in quegli anni – a sentire l’esule francese Guillaume Raffart – si trovano Enrico d’Arusio, vescovo della chiesa catara di Desenzano, Guglielmo Pietro da Verona, vescovo degli eretici di Francia, Bernard Olieu, vescovo originario di Verdun-Lauragais, e numerosi altri credenti e ‘perfetti’ italiani e occitani. E proprio contro Sirmione, il 12 novembre 1276, si scatena la repressione antiereticale. Una vera spedizione armata, con largo impiego di cavalieri e fanti. Guidata dal vescovo di Verona Timideo, dall’inquisitore francescano Filippo Bonacolsi affiancato dal padre Pinamonte (capitano generale di Mantova), e da Alberto della Scala, fratello di Mastino signore di Verona. È una caccia aperta all’eretico, come registra Ubertino de Romano, testimone più che attendibile in quanto vicinissimo al potere scaligero, che finirà con 166 arresti. Due anni dopo, il 13 febbraio 1278, circa duecento patareni, segno che l’operazione di cattura è nel frattempo proseguita, saranno legati su una catasta di legna al centro dell’Arena e bruciati vivi. Come a Montségur, l’ultimo centro di resistenza catara in Linguedoc, una trentina d’anni prima.
Ovviamente c’è anche molta politica dietro l’annientamento della devianza religiosa. I della Scala sono ghibellini, Verona è sotto scomunica e interdetto per l’ospitalità e l’aiuto accordati nel 1267 a Corradino di Svevia e agli imperiali, l’azione contro i catari serve a pacificarsi con il papa. E tra l’altro, a conferma di quanto stretti siano al tempo i legami tra politica e religione (e di come dunque spesso prevalga un uso politico dell’accusa di eresia), vale un precedente. A Verona, infatti, c’era già stata un’esecuzione pubblica esemplare. Nel 1233, nell’anno del movimento dell’Alleluia guidato dal ‘paciere’ fra’ Giovanni da Vicenza, il 21 luglio per tre giorni furono arsi sessanta dei ‘migliori’ cittadini. Donne e uomini. Giustiziati, come scrive il cronista Parisio da Cerea, in foro et glara, non in Arena (come pure qualcuno sostiene) ma in piazza Erbe e forse in piazza Bra o in un campo vicino. Dettagli, resta il fatto che l’eresia trova fertile terreno nelle famiglie ghibelline. E si diffonde al punto che il domenicano Pietro da Verona, celebre predicatore e inquisitore massacrato nel 1252 a colpi di falcastro da sicari eretici in agguato nella boscaglia di Seveso, è in realtà figlio di catari.
Si convertirà a Bologna durante gli anni di studio. Per il suo martirio sarà santificato a tempo record da Innocenzo IV quale simbolo della lotta contro l’eretica pravità. C’è da stupirsi, a questo punto, che l’inquisizione il suo atto di fondazione l’abbia avuto proprio a Verona durante l’incontro, nell’ottobre del 1184, tra Lucio III e Federico Barbarossa? Quello tra il papa e l’imperatore è un convegno importante perché sfocia nella decretale Ad Abolendam, il primo atto ufficiale di criminalizzazione del dissenso: la chiesa cambia marcia e regole d’ingaggio, restringe i confini dell’ortodossia e abbozza, affidandola (per ora) ai vescovi, una prima versione dell’inquisitio ecclesiastica. Basterà poi solo qualche altro decennio per calibrare definitivamente un apparato e una procedura di micidiale efficacia.
Ecco, chissà se all’Adriano nazionale questa storia l’avranno raccontata. I catari forse gli piacerebbero: in fondo se la prendevano anche loro con i preti e le gerarchie ecclesiastiche, e disprezzavano il mondo e la vita materiale contrapponendogli la purezza dello spirito e la semplicità evangelica, e accusavano la chiesa e il papa ("è veramente un papa perché tutto si pappa"’, sferzava l’eretico Guillaume Bélibaste) di ipocrisia, avidità, malvagità. Di fornicare insomma con il potere e il denaro, anziché occuparsi di anime. E poi erano anche frugali e parsimoniosi. Il che, in tempo di crisi e di Rock Economy, non guasta.

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