sabato 27 novembre 2010

In nome del cosiddetto progresso




In nome del cosiddetto progresso stiamo uccidendo la nostra parte
migliore
di Francesco Lamendola - 26/11/2010

Fonte: Arianna Editrice


Un tempo non tanto lontano, diciamo meno di due generazioni fa, la
vita delle persone era ancora piena di piccoli, grandi segni che ne
sviluppavano la parte migliore: la fantasia, la sensibilità, lo
stupore davanti al mondo, la “pietas” verso gli altri e verso i
defunti.
All’avvicinarsi della ricorrenza di Santa Lucia o del Natale, i
bambini scrivevano una letterina in cui tracciavano un bilancio del
proprio comportamento morale, si proponevano di migliorarlo e
chiedevano, trepidando, il giocattolo tanto a lungo sognato: non lo
pretendevano; lo domandavano, pur consapevoli di non averlo pienamente
meritato.
Era una lezione di umiltà verso se stessi e un avviamento alla
chiarificazione interiore. Era anche un esercizio di bello scrivere.
Infine era uno stimolo alla creatività e allo sviluppo del senso
estetico, perché quella letterina, che costituiva un vero e proprio
evento nella vita del bambino, veniva abbellita da disegni e
decorazioni che ne facevano un piccolo capolavoro di inventiva e di
capacità artistiche.
Poi sono venute le letterine natalizie già belle e pronte: si
compravano in cartoleria e avevano già tutti i disegni e le
decorazioni; bastava scrivere il testo.
Da ultimo è scomparsa anche la letterina, così come sono scomparsi
Santa Lucia e Gesù Bambino. I giocattoli li portavano direttamente i
genitori, senza che il bambino avesse fatto niente per meritarseli:
così, in omaggio al consumismo dilagante.
Un altro esempio.
All’epoca di cui stavamo parlando, presso molte famiglie era diffusa
una pia e dolce tradizione: quella di lasciare un bicchier d’acqua sul
tavolo della cucina, alla sera, la vigilia del 2 novembre, il giorno
della ricorrenza dei morti. Quell’acqua era destinata a dissetare le
anime del Purgatorio che, la notte, sarebbero venute a bere.
Un residuo di superstizione, una scoria dei tempi magici che la
scienza moderna ha dissipato? Certo, può darsi. Ma se anche fosse?
Non era una tradizione utile, oltre che poetica, dal momento che
contribuiva a tenere sempre frequentato il sentiero spirituale che
collega i vivi ai morti, mentre oggi quel sentiero si sta ricoprendo
inesorabilmente di erbacce, dato che nessuno più lo percorre?
Potremmo continuare a lungo con esempi del genere, ma crediamo di aver
reso l’idea di quel che vogliamo dire.
In genere, nel rendere ragione della scomparsa di tali gesti, come
quello di rendere grazie per il cibo quando ci si mette a tavola, o di
benedire una persona che esce di casa per affrontare un viaggio, si
risponde - se pure si ritiene di dover dare una spiegazione - che è
giusto liberarsi dei residui del passato, dato che viviamo in un mondo
ove la scienza, la tecnica e l’economia marciano sempre più in fretta.
Gira e rigira, quindi, è sempre la solita, eterna ideologia del
progresso illimitato, che dovrebbe spiegare tutto, giustificare tutto,
rendere ragione di tutto. Che cosa volete farci, è il progresso; e non
si può mica andare contro il progresso, questo è certo…
Eppure, basta una riflessione anche abbastanza frettolosa per rendersi
conto che le cose stanno altrimenti; che questa è solo una spiegazione
che si dà «a posteriori» per illudersi di avere ancora il controllo
della situazione; mentre è vero il contrario: che questo cosiddetto
progresso è sempre più simile a una locomotiva lanciata a tutta
velocità, senza macchinista e senza freni, lungo un binario morto.
Allo stesso modo in cui sono scomparsi i gesti gentili, le parole
buone, i simboli del nostro legame con la realtà soprannaturale, così
stanno scomparendo i popoli, le lingue, le culture; così stanno
scomparendo le specie vegetali e animali, a un ritmo sempre più
vertiginoso; così stiamo entrando, a vele spiegate (si fa per dire),
nel paradiso della modernità.
Vorremmo convincerci che tutto questo sia frutto di un piano
preordinato e che, sì, vi sono forse degli effetti collaterali non
previsti, ma insomma, nel complesso, gli aspetti positivi prevalgono
immensamente, senza possibilità di paragone.
Non è forse vero che tante malattie sono state domate (ma altre ne
sono comparse); che la vita umana si è allungata (ma solo la durata
media); che le comodità e il benessere si sono largamente diffusi (ma
solo in una parte dell’umanità e a prezzo di tensioni e nevrosi ogni
giorno crescenti)? E dunque, come dubitare della bontà del progresso?
E poi, il progresso non si giudica: è un valore evidente in se stesso;
chiunque lo metta in discussione deve soffrire di qualche disturbo
mentale. Meno male che c’è una scienza nuova di zecca, la psichiatria,
per curare questi individui sempre scontenti, inspiegabilmente ingrati
e potenzialmente pericolosi per l’intera società.
In Unione Sovietica si ricorreva alla psichiatria per “curare” quanti
non gradivano le meraviglie del socialismo reale; e il marxismo, a ben
guardare, non era che una delle tante forme di adorazione del
Progresso, una delle tante ideologie uscite dalla nobile e altruistica
convinzione illuminista (e positivista) che la ragione serva per
portare la felicità a tutti, sia che lo vogliano, sia che non lo
vogliano…
I contadini della Vandea, per esempio, non volevano un tal genere di
felicità: volevano tenersi i loro preti, le loro superstizioni e,
«horribile dictu», i loro signori; insomma volevano la tradizione e
l’ancién régime: ragion per cui gli eserciti repubblicani francesi, in
nome della Dea Ragione e della felicità, ne sterminarono circa un
milione.
Ma che cosa è mai un milione di cafoni della Vandea, davanti alle
“magnifiche sorti e progressive” della modernità? Che cosa sono mai
otto milioni di contadini russi, a fronte della creazione di una
industria pesante nel volgere di pochi anni e, nello stesso, della
totale distruzione della proprietà privata rurale, eterno focolaio di
reazione e di superstizione?
Il fatto è che, in nome del cosiddetto progresso, che poi è soltanto
brutale sviluppo materiale, stiamo uccidendo la parte migliore di noi
stessi: quella che sogna e si stupisce; quella che loda e ringrazia;
quella che si sente collegata a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che
vive, a tutto ciò che respira: cominciando con la Terra, «sora nostra
matre Terra», come la chiama San Francesco nel sublime «Cantico delle
creature»: sorella e madre al tempo stesso.
Noi non ci stupiamo più di nulla: sappiamo che la scienza ha una
risposta per ogni cosa; né ringraziamo più per tutto ciò che la vita
ci offre: non si tratta di un dono, ma una preda e, conquistandola,
non facciamo che esercitare un nostro diritto.
Un tempo non troppo lontano, i mandarini sulla tavola erano, per i
bambini, un gradito dono del Natale; anche le mele erano un dono,
anche il pane caldo appena sfornato era un dono. Quei bambini sapevano
quanto lavoro era costato il pane e sapevano che senza il sole, senza
la pioggia, senza il vento, non ci sarebbero stati mandarini sulla
tavola, né mele, né pane…
I bambini di oggi protestano se in tavola non ci sono i frutti fuori
stagione; se non ci sono i dolci confezionati di produzione
industriale; se non c’è la Coca Cola. Non si stupiscono più per le
piccole cose, non si sognano nemmeno di ringraziare qualcuno o
qualcosa.
Non è certo “colpa” loro.
I loro genitori li hanno cresciuti così; e, se non i genitori, la
televisione, il cinema, il computer, l’esempio dei compagni e delle
loro famiglie.
Eppure, nella vita del singolo così come in quella delle società, sono
soprattutto i piccoli gesti quotidiani, sono soprattutto i pensieri di
ogni giorno che costruiscono, lentamente ma immancabilmente, i valori
intorno ai quali la vita e il mondo trovano un significato; sicché,
aver lasciato scomparire quei gesti e quei pensieri non può che
produrre un vuoto esistenziale nel quale subito tendono ad introdursi
le male piante dell’edonismo, dell’egoismo, dell’indifferentismo.
Suvvia, dirà qualcuno, non esageriamo: dopotutto, si trattava
semplicemente di simboli.
Vero, verissimo; ma i simboli non sono un di più, non sono un fronzolo
o un abbellimento; i simboli rivelano l’anima stessa della vita, tanto
individuale che collettiva, qualora formino una rete armoniosa e
coerente tessuta dal susseguirsi delle generazioni.
Un individuo e una società che abbiano smarrito il linguaggio dei
simboli, hanno con ciò smarrito sia le proprie radici, sia il senso
del proprio destino; ed è inevitabile che vadano incontro al nulla,
cioè all’autodistruzione. Poco importa se ci vanno col sorriso sulle
labbra.
Questo è il pericolo che attualmente ci sovrasta.
Non la crisi economica, dalla quale ci si può riprendere; non la
guerra mondiale, dalle cui ceneri si potrà ricominciare; e nemmeno la
catastrofe ecologica, che pure servirà ad insegnare ai sopravvissuti
la strada di un nuovo inizio.
No: il pericolo mortale è la perdita delle radici e la perdita del
senso circa il proprio destino; diremo meglio: la perdita dell’idea
del destino. Al destino subentra il caso; a una visione organica del
mondo, subentra una visione meccanica; a un modo di porsi qualitativo,
subentra un modo di porsi puramente quantitativo.
Il mondo vivo, elastico, malleabile, del destino e del simbolo, viene
gradualmente sostituito da un mondo rigido, solidificato, morto, ove
una tecnica senz’anima celebra i suoi ultimi, spettacolari trionfi, in
una luce corrusca da apocalisse.
Dobbiamo fare molta attenzione.
Il mondo si regge anche sul piccolo gesto quotidiano di ringraziare il
Cielo per il nostro nutrimento, di ringraziare la Terra per i beni che
ci elargisce, e di benedire il figlio che esce di casa, andando
incontro al suo destino di adulto.
Questa rete di simboli ci teneva legati in una unità organa ed
impediva che le forze individualistiche dell’egoismo sfrenato ci
conducessero all’autodistruzione.
Il gesto pietoso rivolto ai nostri cari defunti ci teneva legati al
mondo dell’Aldilà e consentiva alle anime di coloro che ci hanno
preceduti di agire positivamente su di noi, proteggendoci dalle
conseguenze di un materialismo cieco e distruttivo.
Un tempo si insegnava ai bambini che accanto ad ognuno di essi vi è
una Presenza benevola, un Angelo custode che ne sorveglia
affettuosamente i passi e che gli fa scudo contro le energie malefiche
in agguato sulla sua strada.
Era solo una favoletta edificante? Non lo crediamo.
Le forze del Bene esistono, e così quelle del Male; e la loro azine
sul mondo fisico è tanto certa, quanto lo è quella degli agenti
atmosferici o della realtà storica.
Tuttavia ben diversa è la condizione di una umanità che ignora questa
rete di presenze spirituali e che fa affidamento solo e unicamente
sulle proprie forze; che spesso, anzi, tende a stringere un patto
scellerato con le forze del Male, in cambio di potere e successo.
Tale è la nemesi dell’uomo moderno, dell’uomo faustiano: colui che
stringe un patto col Diavolo, vendendogli la propria anima in cambio
di un dominio sempre più spietato sulla natura e sul mondo delle cose.
I gesti volgari e insultanti, le smorfie di irrisione, le parodie del
sacro che oggi imperversano ed il cui pessimo esempio giunge, sovente,
proprio da parte delle persone più in vista, magari da quelle che
ricoprono ruoli istituzionali, hanno sostituito i gesti benedicenti e
le parole di fede e di carità che, un tempo, accompagnavano la vita
umana.
Tutto questo è il prodotto di una modernità che ha smarrito le strade
dell’anima; che, anzi, ha smarrito perfino la coscienza di possedere
un’anima, e quindi di possedere una vocazione ed un destino
soprannaturali.
In cambio, abbiamo eretto i nuovi altari alla Ragione, alla Scienza,
alla Tecnica, al Progresso.
Da ultimo, li abbiamo eretti solo al nostro sfrenato egoismo e alla
nostra superbia luciferina.
E poi, che cosa ne sarà di noi?

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