giovedì 5 novembre 2020

L'eterno mistero nella morte, dalle antiche sepolture e i loro rituali

Dalle tombe a “grotticella” alle decapitazioni rituali, dal “columbarium” all’arcosolio, dal banchetto funebre alla festa dei defunti: il mistero della morte nelle necropoli dell’ennese.
Fra tutti gli esseri viventi l’uomo è l’unico che percepisce la morte biologica, non solo come evento naturale ed inevitabile, ma come evento culturale inteso a dare un senso alla vita stessa. I riti funerari hanno così tanto contraddistinto le diverse civiltà che, in base al tipo di sepoltura, gli archeologi sono oggi in grado di individuare l’epoca e l’etnia di appartenenza. Nei tempi più antichi non v’erano particolari attenzioni verso i defunti, essi, dopo breve commiato, essendo la morte un evento a sorpresa ancora privo del connotato della ritualità, erano abbandonati alla naturale decomposizione e divenivano pasto per gli animali selvatici (pratica ancora in uso in alcune parti del mondo). Allorché l’uomo si organizzò in gruppo prese coscienza dell’importanza del trapasso mettendolo in relazione con il soprannaturale ed adottando rituali che evidenziavano la valenza sociale e collettiva della dipartenza del singolo, non più sentita come fatto individuale ma come importante evento sociale capace di mettere in crisi oltre che la famiglia di appartenenza anche la stirpe, la discendenza, il clan, la tribù, la società locale. Una delle deposizioni tipiche dei primi abitanti della Sicilia fu la “grotticella artificiale” di tradizione preistorica: veniva scavata una piccola grotta nella roccia tufacea ed il defunto era deposto all’interno in posizione fetale, rannicchiato su se stesso, come a volerlo ricollocare nel grembo della madre terra per assicurargli la rinascita. Questo tipo di deposizione rupestre, sigillata con un portello di pietra, si trova sparso in tutto il territorio ennese, ivi comprese le alture circostanti il Lago Pergusa, tuttavia, l’esempio più efficace è quello della necropoli di Realmese (IX - VII sec. a.C.), a Calascibetta, ove è possibile ammirare centinaia di piccole tombe abbarbicate sulle pareti rocciose quasi con l’intento di “monumentalizzare” la morte ed i riti collegati. Tipica della cultura neolitica era anche la variante di tomba a pozzetto, uni o pluricellulare per più deposizioni (es. necropoli di Malpasso presso Calascibetta). Tale architettura funeraria degli Erei si origina dall’età del rame, a partire dal III millennio a.C., e giunge fino all’età del ferro. Una interessante tomba a grotticella si può ammirare, in alto, sulla destra dell’antico ingresso ipogeico che conduceva al “teatro più vicino alle stelle” del castello di Lombardia di Enna. In epoca ellenistica, la tomba fu violata e vennero scolpite due colonne nel banco roccioso con lo scopo di abbellire l’ingresso all’area sacra a Cerere; di tali colonne una sola sopravvive al piccone selvaggio dell’uomo moderno. Con l’avvento della colonizzazione greca, non prima della metà del VI secolo a.C., venne introdotto il rito dell’incinerazione ed anche l’uso delle tombe a camera con banchine interne, soffitto a doppio spiovente e prospetto sagomato a timpano, collegato al rito del banchetto funebre greco. L’utilizzo delle tombe a camera era spesso familiare, tanto che esse venivano chiuse e riaperte in occasione della tumulazione dei componenti della famiglia. In periodo ellenistico si diffusero anche le sepolture a cassa e copertura “a cappuccina”, di cui qualche esempio è riscontrato nella necropoli della valle del Pisciotto, in Enna. Alcune rare tombe “a circolo di pietre”, sono state rinvenute a Rossomanno (EN) negli anni ‘80; singolare è la loro somiglianza con le sepolture etrusche. Un “unicum” è, tuttavia, rappresentato dal "campo di crani" di Monte Rossomanno, che costituisce impressionante testimonianza di un particolare rito funerario destinato forse ad onorare le vittime della “battaglia del Crisa” (l’attuale fiume Dittaino) tra i cartaginesi e le armate siracusane di Dionisio I (392 a.c.). Circa un centinaio di teschi furono trovati all’interno di una fossa rettangolare, piantati a terra come se fossero stati schierati in un campo di battaglia, essi costituiscono un rarissimo caso (forse unico) di Akephalia o decapitazione rituale di gruppo. Questi teschi, rinvenuti durante le ricerche del 1978, vennero inviati per "ulteriori indagini" all'Università di Pisa, nei cui magazzini pare siano tuttora conservati “sine die” in attesa di essere sottoposti a specifici esami scientifici che possano dare risposte certe alle tante domande ipotizzabili. Due analoghe sepolture “acefale” mi capitò di osservare e fotografare negli anni ‘80 in occasione degli scavi realizzati dalla Soprintendenza ai BB CC di Enna presso il villaggio indigeno di Cozzo Matrice (EN). Si trattava di due piccole tombe a camera ovale, di epoca arcaica, nelle cui pareti erano collocate due o tre file di crani sovrapposte; la documentazione fotografica di questi reperti, da me realizzata all’epoca, è l’unica testimonianza esistente. Nel corso della medesima campagna di scavi venne rinvenuta anche una rara sepoltura in vaso, detta ad “enchytrismos”, all’interno di un grande cratere laconico (spartano) a vernice nera del VI sec. a.C., oggi conservato nel Museo Archeologico Varisano di Enna. Nel cratere era ed è ancora conservato un teschio sovrapposto ai resti inceneriti del corpo del defunto. Secondo alcune ipotesi, la pratica della sepoltura “acefala” sarebbe retaggio della fusione tra la cultura indigena e quella ellenica che prevedeva l’uso alternativo della cremazione dei defunti. Più realisticamente si parla anche di “rituale funerario collettivo” che prevedeva, in caso di nuovi seppellimenti, pratiche di esumazione, manipolazione, selezione e riposizionamento delle ossa in “sepoltura secondaria” al fine di far posto ad un nuovo defunto che andava ad occupare il centro della camera. Così le ossa lunghe venivano disposte verticalmente lungo la parete e quelle corte erano sistemate a mucchio 
accanto il cranio. Nel caso di Cozzo Matrice i crani, addossati alla parete, “osservavano” l’ingresso 
della camera funeraria, chiuso da un portello di pietra.
In epoca romana, si diffuse il “columbarium” il cui corrispondente ennese trova riscontro nella famosa “grotta della spezieria”, ubicata nell’alto dello sperone roccioso della Via Pergusa. Trattasi di un monumento funebre rupestre caratterizzato da 65 piccole nicchie intagliate nelle pareti della roccia, destinate a contenere le urne cinerarie dei defunti. Tale tumulazione risultava molto funzionale per le città in cui v’era una elevata concentrazione di abitanti in quanto i colombari potevano contenere, in spazi limitati, le ceneri di molte persone. Purtroppo, la “grotta della spezieria”, erroneamente ritenuta una sorta di antica farmacia o rivendita di spezie, da cui prese il nome, non è più raggiungibile per il crollo del sentiero di accesso, in compenso è visitabile analogo “colombarium” nel Villaggio bizantino di Calascibetta, in contrada Canalotto.
In epoca tardo imperiale e bizantina l’architettura funebre evolvette verso le tombe ad “arcosolio”, costituite da un sarcofago scavato nella roccia sormontato da un arco, forse simboleggiante il sole nascente e quindi la rinascita del defunto. Alcuni di tali sepolcri sono visibili, tra l’altro, sotto l’attuale cimitero di Enna, in contrada Ve’ Nova, nonché nello stesso Villaggio bizantino di Calascibetta.
Una particolare usanza molto diffusa, quasi un comune denominatore dei vari riti, era quella del banchetto funebre che prevedeva il consumo di cibi e bevande alcoliche, i cui resti venivano abbandonati all’interno del sepolcro o nelle vicinanze. I vasi da mensa venivano talora deliberatamente fatti a pezzi dopo la libagione ed infilati in una fossetta terragna realizzata a tale scopo. Analogo significato aveva il Mundus Cereris cioè la fossa circolare ubicata all’ingresso del santuario di Cerere, dea del frumento e della fecondità, associata anche al mondo degli inferi, custode dei fenomeni tellurici e sotterranei. Tre giorni l’anno (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre), la fossa veniva aperta per mettere in comunicazione il mondo dei morti con quello dei vivi. Erano questi i giorni del “Mundus Patet” (il Mondo Aperto), durante i quali i defunti ritornavano dal mondo dei morti ma il Mundus poteva attrarre anche le anime dei vivi. Per tale motivo era proibito dare battaglia, prendere moglie, svolgere funzioni pubbliche e le porte dei templi erano chiuse. Non è un caso che simili riti siano confluiti nelle attuali tradizioni, sebbene, nella moderna società capitalistica e consumistica, si assista ad un fenomeno inverso a quello sopra delineato in quanto l’idea della morte, ineluttabile limite dell’agire umano nonché argomento che per millenni ha alimentato lo sviluppo delle civiltà umana, è stata gradualmente rimossa e sostituita da una impietosa quotidianità che, nascondendo e banalizzando il pensiero del trapasso (vedasi Hallowen et similia), finisce anche per svalutare il vero dono che è la vita.

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