lunedì 2 gennaio 2012

Una voce fuori dal coro: L'Ungheria


L'Ungheria si cambia la costituzione

Budapest: l’intervento fraterno dei dirittumanisti (di Claudio Mutti)
L’attacco sferrato dalle oligarchie occidentali contro il popolo ungherese, colpevole di essersi dato una costituzione politicamente scorretta, e contro il legittimo governo di Budapest, accusato di “essersi incamminato sulla strada della Bielorussia” (Ferenc Gyurcsány dixit), è salito di grado da quando la madrina di tutte le “rivoluzioni colorate”, Hilary Clinton, ha indirizzato al primo ministro Viktor Orbán una vera e propria lettera minatoria, tale da suscitare lo spettro di un nuovo “intervento fraterno”, politicamente senz’altro più “corretto” di quello del 1956.
Al fischio della Clinton, i cani accorrono. Quelli di razza scelta per primi. Così il “Corriere” del 30 dicembre lancia in prima pagina il grido d’allarme contro la “deriva autoritaria del premier” e riempie un paginone degli Esteri con due articoli di tono terroristico. Il primo è dovuto ad un “inviato” (a Bruxelles, non a Budapest) e titola testualmente: “Bavaglio alla stampa, deputati in manette. L’Ungheria di Orbán spaventa l’Europa”. Per documentare la repressione che il governo avrebbe messa in atto contro i militanti dirittumanisti, la stessa pagina mostra la foto di un deputato dell’opposizione che ha provveduto ad incatenarsi da solo.
L’altro articolo è firmato da un uomo di lettere: Giorgio Pressburger, anzi, il commendator Pressburger (il quale fu infatti insignito della commenda da un ex direttore della Banca d’Italia diventato presidente della repubblica). Nel suo attacco contro il governo ungherese, il commendatore pretende di poter arruolare nientemeno che il Sommo Poeta, citando dal Paradiso dantesco non ovviamente i vv. 80-81 del Canto V (“Uomini siate…”), ma i vv. 142-143 del Canto XIX: “Oh beata Ungheria se non si lascia – più malmenare!”
Commento dell’esegeta del “Corriere”: “Malmenare da chi? Malmenare come? Dante si riferisce ai cattivi re, del casato di Arpád, che avevano regnato fino allora su quella nazione”.
In realtà, Dante non allude affatto ai re della casa di Arpád, ma agli Angioini. È vero che nel momento in cui avviene il mistico viaggio di Dante (settimana santa del 1300) regnava in Ungheria Andrea III, ultimo sovrano della dinastia arpadiana; ma quando Dante scrive questi versi, l’Ungheria è già passata sotto il dominio di Carlo Roberto d’Angiò. D’altronde, lo stesso contesto da cui Pressburger ha estrapolato i due versi contribuisce a chiarirne il senso. Infatti il v. 143 prosegue dicendo “e beata Navarra”: e la Navarra era entrata a far parte del regno di Francia nel 1304. Beata l’Ungheria e la Navarra, vuole dunque dire Dante, “se tengon lontano da sé, difendendosi, il malgoverno della stirpe reale di Francia” (commento di Natalino Sapegno).
Più che con la terza cantica del Poema, il dantista del “Corriere” si troverebbe a suo agio con la prima, in particolare col Canto XVIII, dove un’intera categoria di dannati è “attuffata in uno sterco, che da li uman privadi parea mosso” (vv. 113-114).
Il motivo stercorario, infatti, è una sorta di leitmotiv nella produzione letteraria del comm. Pressburger. Esso compare nel “delicatissimo romanzo” semiautobiografico L’elefante verde (Marietti 1988), scritto da Giorgio Pressburger insieme col gemello Nicola. Il padre dei gemelli, che nel romanzo si chiamano Beniamino e Samuele, trova nella loro scrivania alcune poesie. “Una era intitolata Inno alla merda, e con parole solenni rendeva omaggio alla materia che domina il mondo, provoca le gioie più lievi e il dolore più profondo”.
Il leitmotiv ritorna nel contesto filosofico del saggio intitolato Della fede, apparso su “Nuova Corvina” (una rivista pubblicata sotto l’alto patronato della Fondazione Soros) nel 2002, quando l’Ungheria non era ancora “malmenata” dal “putinismo” di Viktor Orbán e l’illustre letterato era direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest. A edificazione del lettore, estrapoliamo dal saggio qualche riga, così come il comm. Pressburger ha estrapolato un verso e mezzo dal Canto XIX del Paradiso: “Un’altra volta mi capitò di dovermi prendere cura di un vecchio omosessuale ottantenne, completamente solo in Italia, che aveva passato la vita da parassita, divertendo magnati, industriali, re della moda: procurava loro donne (ballerine, giacché si occupava di operette), ragazzi (giacché si occupava di ragazzi) e in cambio ogni giorno aveva qualche invito a cena in case lussuose, e a natale e a pasqua [le iniziali minuscole sono nel testo, ndr] riceveva doni in denaro. (…) Questo vecchio, alla morte di mio padre mi aveva portato in una sinagoga, per la prima volta dopo trent’anni. Lo vidi pregare, sapeva a memoria le preghiere, e quando non le sapeva mormorava sillabe senza senso, imitando l’ebraico. (…) Il suo letto, gli abiti, portavano tracce di sterco: il suo ano era allargato a dismisura per le tante penetrazioni subite”.
“Cosa direbbe Dante di fronte a questo?” – si chiede il comm. Pressburger nell’articolo del “Corriere”. Che cosa direbbe davanti all’Ungheria odierna non lo sappiamo. Ma davanti alle immagini stercorarie di Samuele Coprostomo direbbe quello che dice in Inf. XVIII, 136: “E quinci sian le nostre viste sazie”.

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