martedì 11 marzo 2014

Il mitico rogo del Gran Maestro

Templari, il rogo e il mito
di Ranieri Polese - 09/03/2014



Fonte: Corriere della Sera


Il gran maestro viene arso nel marzo 1314 La storia dura 200 anni, inizia la leggenda 


Parigi, sera dell’11 marzo 1314. Sull’isolotto detto degli Ebrei (oggi unito all’Ile de la Cité), per ordine del re Filippo il Bello, Jacques de Molay, gran maestro dei Templari, e Geoffroy de Charnay, precettore di Normandia, vengono bruciati sul rogo. Prima di essere avvolto dalle fiamme, de Molay pronuncia una maledizione contro il Papa Clemente V e il re: «Vi chiamo a comparire entro un anno davanti al tribunale di Dio per ricevere il castigo che meritate. Maledetti! Maledetti! Sarete tutti maledetti, voi e i vostri discendenti fino alla tredicesima generazione!». Un mese dopo, il Papa Clemente V muore e in novembre muore anche il re Filippo. Nel giro di appena quindici anni, poi, si estingue senza eredi il ramo diretto dei Capetingi. Non citata da nessun testimone diretto (quella sera a Parigi c’era anche il padre di Giovanni Boccaccio, ricordato nel De casibus virorum illustrium ), la maledizione di de Molay — compare la prima volta in un testo del Cinquecento — è un’invenzione. Sarà ripresa infinite volte, darà lo spunto ai sette romanzi di Maurice Druon, Les Rois maudits , ma è falsa. 
Da una leggenda all’altra. Ancora Parigi, 21 gennaio 1793. Mentre l’assistente del boia Sanson mostra la testa mozzata di Luigi XVI, uno sconosciuto in mezzo alla folla grida: «Jacques de Molay, sei stato vendicato!». Nasce, questa leggenda, nel clima dell’Europa controrivoluzionaria, che vuol credere in un Grande Complotto alle origini dei misfatti dei giacobini: primi colpevoli, naturalmente, gli illuministi e i massoni. Ma nei molti libelli stampati in Germania e Inghilterra si chiamano in causa anche i Templari e le loro eresie. Riscoperti nel Settecento, i Cavalieri del Tempio erano stati considerati vittime del potere assoluto e dell’oscurantismo della Chiesa. A loro si erano ispirate le confraternite massoniche e altre sette di illuminati. Ora però, nell’ideologia reazionaria, sono cultori di magia nera e adoratori di Satana, che istigano alla sovversione per spirito di vendetta. 
La condanna
Ma torniamo all’11 marzo 1314 (la data è quella stabilita dallo storico Alain Demurger, molti altri la fissano al 18 marzo). De Molay ha ormai passato quasi sette anni in prigione da quando, il 13 ottobre 1307, Filippo il Bello lo aveva fatto arrestare insieme a tutti i Templari di Francia. Quella mattina, con altri tre alti dignitari dell’ordine, è comparso di fronte ai cardinali inviati dal Papa e ha confermato la sua prima deposizione. Ma a questo punto viene emesso il verdetto: i quattro sono condannati alla prigione a vita. De Molay e de Charnay protestano e ritrattano la confessione. I giudici si ritirano. Le guardie del re prendono in custodia i due relapsi (si definivano così coloro che rinnegavano le loro deposizioni), che in tutta fretta vengono messi a morte. 
Gli storici che si sono occupati del processo contro i Templari (la prima trascrizione integrale si deve a Jules Michelet, 1841-1851) hanno denunciato la mostruosità di un procedimento che prevedeva un sistema di accuse preconfezionate, confessioni estorte con la tortura e la pena di morte per chi ritrattava, i relapsi . Ma hanno anche giudicato troppo incerta e mutevole la strategia difensiva di de Molay. 
Interrogato il 24 ottobre 1307 dall’inquisitore di Parigi, de Molay aveva in parte ammesso le accuse contestate a lui e a tutto l’ordine monastico cavalleresco, fondato due secoli prima a Gerusalemme per proteggere i pellegrini e difendere i Luoghi Santi, conquistati dai cristiani in seguito alla Prima Crociata, dalla minaccia islamica. Secondo voci raccolte (e, forse, anche dicerie diffuse da un cavaliere rinnegato) i Templari nei loro riti di iniziazione peccavano di eresia, rinnegando Cristo e sputando sul crocifisso; erano idolatri perché adoravano la testa di un uomo barbuto chiamato Baphomet; infine, tenevano un comportamento sessuale scandaloso, come baciare i loro superiori nelle parti intime e avere rapporti sodomitici con i loro confratelli. 
De Molay ammette solo il primo capo d’accusa. Ma viene obbligato a ripetere la sua confessione in pubblico e a scrivere una lettera ai cavalieri perché ammettano le loro colpe. A poco serve il fatto che nel dicembre, davanti ai cardinali mandati dal Papa, il gran maestro ritratti tutto. Anche perché, pochi mesi dopo, in un’audizione a Chinon davanti ai cardinali e agli emissari del re, riconferma la prima confessione. Uno strano comportamento, senz’altro. Ma nel frattempo il re aveva imposto al Papa una spartizione: alla giustizia del re erano affidati i singoli cavalieri; l’ordine nel suo complesso e i dignitari più alti in grado erano di pertinenza del Pontefice. Che comunque, in una bolla emessa dopo l’audizione di Chinon, assolve i cavalieri dall’imputazione di eresia. Poi, convocato ancora una volta di fronte a una commissione papale nel novembre del 1309, de Molay torna a negare tutto. Dopo di allora, non parlerà più. Fiducioso nell’appoggio del Papa, de Molay non sembra tener conto dell’estrema debolezza di Clemente V, il francese Bertrand de Got, che ha spostato la curia a Poitiers. Malato, intimorito, non riesce a opporsi alle prepotenze del re. Che medita di impadronirsi dell’imponente tesoro del Tempio (Dante nel canto XX del Purgatorio attribuisce la rovina dei Templari all’avidità di Filippo) e anche per questo nel 1310 fa condannare al rogo come relapsi 54 Templari che avevano ritrattato le loro confessioni. 
La risposta del Papa è lenta. Solo nel marzo 1312 si riunisce il Concilio di Vienne, che sospende l’ordine dei Cavalieri del Tempio e dispone che il loro patrimonio sia affidato ai Cavalieri di San Giovanni. Si deplorano i comportamenti scandalosi del rituale, ma i Templari non sono considerati eretici. Due anni dopo, l’ultimo atto. E con un nuovo colpo di mano di Filippo il Bello, de Molay e de Charnay vengono portati al rogo. I testimoni raccontano che affrontarono la morte con coraggio, affermando una volta ancora la fede del loro ordine. 
Un guerriero sconfitto
Figlio cadetto di una famiglia della piccola nobiltà della Franca Contea, Jacques de Molay nasce nel 1245 circa. A vent’anni viene accolto nell’ordine e probabilmente viene presto inviato in Oriente. Perduta Gerusalemme per ben due volte (1187 e 1244), i cavalieri cristiani si sono ritirati a San Giovanni d’Acri. Nel 1291, anche San Giovanni cade nelle mani dei mamelucchi d’Egitto. I Templari si spostano a Cipro, dove, l’anno dopo, de Molay viene eletto gran maestro. La sua prima preoccupazione sarà quella di ridare vigore alle forze cristiane, in vista di una riconquista dei Luoghi Santi. Ma deve affrontare il discredito con cui i Templari, troppe volte sconfitti, sono ormai guardati in Francia e nel resto di Europa. 
Fra il 1293 e il 1296, così, viaggia in Occidente, cercando di promuovere una nuova crociata. Al ritorno a Cipro organizza spedizioni sulla costa contro i mamelucchi, conquista l’isolotto di Ruad, al largo della Siria (1300), ma due anni dopo lo deve cedere di nuovo. Cerca l’alleanza con i mongoli di Ghazan, ma la morte del khan mongolo (1304) mette fine al suo sogno di riconquista. Convocato a Poitiers dal Papa, de Molay lascia Cipro nell’ottobre 1305. Non vi farà più ritorno. Quando arriva in Francia è un guerriero sconfitto. 
Romanzi
Oggetto da almeno tre secoli di morbose curiosità e di improbabili resurrezioni (ancora oggi sono numerose le confraternite dei Cavalieri del Tempio), i Templari sono diventati ormai popolarissimi personaggi di romanzi. Peraltro, anche nei pamphlet scritti dopo la morte di Luigi XVI, le vicende legate al supplizio di Jacques de Molay vengono narrate come in un fosco feuilleton. 
Per esempio, Charles Louis Cadet de Gassicourt, nel suo Le t ombeau de Jacques de Molay (1797), ci racconta che il gran maestro, in prigione, fonda quattro logge massoniche che giureranno di vendicarlo; poi, il giorno dopo l’esecuzione, dei cavalieri travestiti da muratori (maçons ) raccolgono le ceneri di de Molay e le depositeranno nella tomba, ad Avignone, dove l’infame Papa Clemente aveva fatto seppellire un traditore dell’ordine, ammazzato per mano ovviamente dei Templari. Ma è nel 1982, con Il Santo Graal degli inglesi Baigent, Leigh e Lincoln, che la febbre dei Templari diviene, letterariamente parlando, contagiosa. La fantasiosa inchiesta sul Grande Segreto del Graal (Cristo non morì sulla croce, ma sposando Maria Maddalena dette origine alla progenie del «Sang Réal») assegna ai Templari un ruolo importante: avrebbero trovato a Gerusalemme i testi apocrifi dei primi cristiani e degli gnostici, e li avrebbero trasmessi in Occidente. Secondo i tre autori, de Molay, avvertito dell’imminente retata, aveva fatto bruciare codici e documenti e aveva messo in salvo il tesoro del Tempio. 
Sei anni dopo, Umberto Eco pubblica Il pendolo di Foucault , un romanzo che è quasi un’enciclopedia delle pseudo-scienze esoteriche e delle leggende che stanno dietro le teorie del complotto. Anche qui, ovviamente, i Templari e il loro gran maestro figurano alla grande. Nel 2003, Il Codice da Vinci di Dan Brown, in gran parte debitore del Santo Graal , diventa il bestseller numero uno mondiale e scatena una vera frenesia. Ormai non si contano più i romanzi sui Templari, sul Graal e sui misteri connessi. Anche un videogame di enorme successo, Assassin’s Creed (2007), si allinea: per lo sceneggiatore, de Molay rinuncia a difendersi e muore sul rogo per far credere ai nemici che i Templari sono definitivamente estinti. 
Ma l’Oscar per la fantasia più sfrenata spetta a La chiave di Hiram degli inglesi Christopher Knight e Robert Lomas (1996). In questo saggio semidelirante su «Faraoni, Massoni e la scoperta dei Rotoli del Mar Morto», c’è un colpo di scena che fa impallidire tutti i romanzieri: l’uomo della Sindone è Jacques de Molay! Il lenzuolo conservato a Torino, secondo i due fanta-storici, avrebbe avvolto il corpo piagato e sanguinante del gran maestro dopo la tortura. Che in realtà fu una crocifissione simulata: de Molay fu inchiodato a una porta di legno, venne frustato e alla fine gli fu praticata una ferita sul costato. Sempre i due inglesi aggiungono che al gran maestro fu dato da bere dell’aceto, proprio come a Cristo.
 

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