sabato 8 marzo 2014

Il grande sapiente e il ritorno dello gnosticismo: Elémire Zolla



Zolla, Alchimista del Verbo (Paolo Lucarelli)

P    Pavel Aleksandrovič Florenskij Ucciso dal comunismo scienziato e prete indagato e divulgato dagli studi di Zolla!


Stavo, anni fa, preparando un’edizione commentata delle opere di Ireneo Filalete, un grande alchimista del XVII secolo, forse il più importante nella tradizione moderna in Occidente. La sua identità ha rappresentato a lungo un enigma, perché non si sapeva chi si celasse sotto lo pseudonimo diventato celebre.
Mentre proseguivo nelle mie ricerche, ne parlai a Zolla che mi spedì la copia di un suo saggio del 1968 dal titolo “Un alchimista bostoniano. L’immaginazione organica.” Qui si era già data la risposta: John Winthrop, uno dei “padri pellegrini” e primo governatore del Connecticut era il probabile adepto che si nascondeva sotto il nome di Filalete.
Scoprii in seguito che circa 10 anni dopo questo scritto, uno studioso americano, Wilkinson, aveva trovato nella biblioteca della Columbia University una ricca documentazione composta da libri, lettere, annotazioni, che provavano l’ipotesi in modo quasi certo.
Chiesi a Zolla per quale via avesse trovato la soluzione dell’enigma, mi guardò con quell’espressione educatamente interrogativa, un po’ sorpresa, che assumeva di fronte a certe domande, e che mi lasciava disarmato, facendomi sentire un po’ stupido. “Oh, una sciocchezza”, mormorò, in perfetto stile anglosassone. Non aggiunse altro.
In realtà non aveva altro da dire, aveva già risposto nel saggio, e la mia domanda era evidentemente superflua: Come da un osso si dovrebbe saper immaginare l’intero scheletro seguendo la traccia di linee di sviluppo che vi sono implicite, e come partendo da una foglia si dovrebbe saper seguire con la fantasia la crescita di un albero, così, dato un insieme di notizie, se ne dovrebbe trarre gli altri fatti di un periodo, perché le forze che modellano un tratto di storia hanno ritmi e tendenze simili alle spinte formatrici che modellano una pianta.
Sembra semplice, come tutto ciò che nasce dalla natura, il che non significa che sia facile. Da qualche dato sugli eventi del XVII secolo percepisco meccanismi occulti e relazioni nascoste, i “germi” della storia, e me ne sboccia l’immagine di un alchimista, me lo costruisco, lo vedo, lo descrivo, perché è “vero”, perché non può non essere “vero”, e non può che essere in un certo modo che col tutto organicamente si accordi.
Percorso riservato, diceva, ad autentici poeti, ad artisti ed iniziati che abbiano affinato l’immaginazione attiva e ne conoscano uso, rischi e doni infiniti.
Sembra una soluzione puramente alchemica.

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Di alchimia cominciammo a dialogare subito, sin dal primo scambio epistolare, pur se le nostre prospettive inizialmente parevano molto diverse.
Avevo letto, avidamente, o piuttosto avevo esplorato, l’indescrivibile testo de “Le Meraviglie della Natura”: una danza cosmica tra gli archetipi che si manifestano in tutte le loro potenzialità. Un libro che fa disperare, tanto pare impossibile seguire il danzatore nel suo percorso, mentre salta lievemente da un simbolo all’altro, da un tema all’altro, non mostrando, ma suggerendo, dando quasi per scontato, con un sorriso sottinteso, nel  suo stesso movimento il legame occulto che ci sfugge e a lui appare così chiaro e palese.
Si intravede sottesa una metafisica rigorosa, una struttura formante, l’infinita produzione dell’anima del mondo, del qi, del rasa di Šiva, il deposito di tutti gli archetipi, il punto di arrivo del cercatore fortunato, il vaso benedetto che contiene il liquido magico dell’eterna giovinezza, della completa consapevolezza.
Ma come accedere così al mondo archetipale, sino a trovarvisi tanto a proprio agio?
Seguire questo testo equivale a rincorrere quegli arrampicatori che saltano da una roccia all’altra, senza stanchezza né sforzo né vertigini, e talvolta si girano a guardarti, mentre arranchi ansimante a distanza, per chiederti: “Che fai? Non vieni?”
Mentre mi affaticavo passando in difficile equilibrio da un simbolo cristiano a un geroglifico egizio, scoprendo legami insospettati, proprio quando mi pareva di poter riprendere fiato su un’analogia finalmente percepita in tutta la sua ricchezza, e pensavo di averlo raggiunto, lui mi irrideva da un nuovo picco, dove esplorava antiche rune, sefiroth cabalistiche, insegnamenti di sciamani in estasi.
Evidente manifestazione di sapienza, sapienza alchemica: sapienza è guardare alle alternanze degli elementi dietro il gioco delle figure di questo mondo… chi ha l’occhio esercitato ai segni dei quotidiani filtraggi, sublimazioni e cotture e in ogni suono, in ogni tinta coglie un loro segnale, non avrà che da trasporre analogicamente e vedrà dentro le rocce, entrerà dentro la Pietra.

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Sin dal primo incontro, Zolla rappresentò per me un problema, risvegliando un’antica diatriba, un’aporia che si trascina da sempre, e che in passato avevo evitato accuratamente.
Non era, né evidentemente era mai stato, un alchimista “operativo”. Come aveva raggiunto quelle conoscenze, quella visione cristallina e perfetta che si dovrebbe attribuire, che dovrebbe appartenere di diritto, solo a chi manipoli archetipi corporificati nel crogiolo o nel pallone ortodossi?
Il tema è antico, e di norma risolto con indifferenza dal praticante che guarda con senso di sufficienza e commiserazione chi non operi secondo le regole.
Il waidan si oppone al neidan, i rasa siddha ad Abhinavagupta, Jabîr a ‘Ibn Arabi, Paracelso a Jacob Böhme. In Oriente e in Occidente sembra si affrontino due vie, duedarsana, ma con linguaggi, risultati, scoperte, singolarmente simili.
Discutevamo, ed era curiosissimo dei fatti di laboratorio. Le sue domande erano sempre pertinenti, i commenti appropriati, i suggerimenti fecondi.
Il dialogo era facile, la reciproca comprensione totale, e in un qualche modo che mi sfuggiva, l’esperienza, questa pietra di paragone che non permette equivoci o inganni, era simile.
Il problema si faceva vieppiù complesso, e non era più eludibile, se mai lo era stato.
Non era un mistico Zolla, non parlava come un visionario, nel senso banale del termine. E nemmeno era un semplice erudito, un filosofo speculativo, seppure particolarmente dotato. La sua logica era stringente, la metafisica ordinata e coerente. Ma dietro a tutto ciò stava una “pratica” che sosteneva le sue apparenti divagazioni. Questo mi appariva indiscutibile, o non avremmo mai potuto dialogare.
Dove stava l’arcano?
Si può essere stati assidui presso un uomo… eppure ignorare del tutto che in segreto egli trascorre momenti posti a una divina  distanza da quelle misere, invincibili alternanze di umori e di pose. Salvo quei momenti li si conosca anche noi, nemmeno si indovinano in lui le radure di quiete e d’orazione, dove coglie premonizioni, ispirazioni, sottili notizie.
Come parlarne?

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Mi costrinse ad una lunga, e non ancora conclusa, riflessione sull'alchimia. Mi resi conto che mancava una definizione, un'erma che delimitasse il campo, ne configurasse in qualche modo lo spazio, oggettivamente.
In Occidente, almeno sino a tempi recentissimi, appare chiaro cosa si intenda con alchimia. Qualunque testo classico ne conviene: è l'arte che insegna a transmutare i metalli vili in oro, la tecnica con cui preparare la pietra filosofale, la pietra transmutatoria.
Definizione non trascurabile, che talvolta, ma più raramente, si amplia sino a comprendere la panacea, la medicina universale che cura tutti i mali e forse dona una vita, se non eterna, almeno lunghissima.
Non è molto diverso quanto ci insegnano i più antichi maestri indiani e taoisti, anche se in questi è più accentuata la ricerca dell'elisir di giovinezza e lunga vita.
È un messaggio stimolante, molto pratico, mediocre, non rivoluzionario, certamente ben poco metafisico. Eppure, per chiunque scorra la sterminata letteratura ermetica, qui e là, quasi involontarie, spuntano talvolta affermazioni, aforismi, simboli, suggerimenti, che lasciano la mente inquieta, indizi di qualcos'altro cui si è accennato solo con una breve allusione, quasi distrattamente, come se esistesse un segreto racchiuso nel segreto.
Zosimo di Panopolis dice: Resta seduto vicino al tuo forno... e non ti smarrire... il tuo corpo sia seduto, fai sedere anche le tue passioni. E dirigendo così te stesso accortamente, chiamerai a te il divino. E allora realmente verrà da te il divino che è dovunque...
Da qui, e da brani analoghi, sono partite infinite letture parziali dei testi alchemici, in cui pare che ognuno voglia appropriarsi l’antica dottrina, estraendone solo quei passi o quelle immagini che più gli convengono. Ma le letture junghiane, evoliane, spiritualiste, erotiche, magiche, cabalistiche, religiose, mistiche, yogiche, pseudo scientifiche, appaiono presto sfilacciate e consunte. Sono così ragionevoli, così utili a quietare la mente, che non possono soddisfare se non palati forti, cui sfuggano fondamentali sfumature di gusto.
Fu da un confronto con queste che mi resi conto che il testo di Zolla rappresentava un ribaltamento totale. All’inverso degli altri, egli non dava una lettura cabalistica dell’alchimia, ma una lettura alchemica della kabbalah, non un’interpretazione cristiana dell’alchimia, ma un’interpretazione alchemica dei simboli cristiani, e così per il resto.
In realtà è un’operazione consueta, quasi ovvia, nella letteratura alchemica, dove i maestri spesso interpretano secondo i misteri della Grande Opera i simboli e le dottrine delle religioni e dei loro profeti e mistici.
La singolarità, improbabile e inattesa, che inizialmente mi aveva creato imbarazzo, era proprio la totale mancanza di originalità nei riguardi della tradizione ermetica: accettato Zolla nell’antica catena magistrale, il paradosso scompariva.

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Un tempo sentii in Francia, da un maestro operativo, un philosophus per ignem  come si diceva un tempo, definire con rispetto e ammirazione un amico, che non aveva mai frequentato il laboratorio ermetico, alchimista del verbo. Solevano i due, ormai molto anziani, trascorrere lunghe serate a discutere di antichi arcani di fronte al camino acceso, in una vecchia casa di campagna. Ormai sono scomparsi entrambi da tempo. Le famiglie li vollero in un minuscolo cimitero che affianca una chiesetta romanica, dove sono le loro due lastre tombali a occupare quasi tutto il poco spazio dedicato al riposo. Li vollero lì, mi dissero, perché i due filosofi potessero proseguire in pace la loro conversazione.
Non dirò qui, non è l’occasione né il momento, come arrivai a comprendere pienamente la soluzione del problema che ho posto, il significato dell’espressione raccolta in Francia e quello del verbo che attua l’alchimia. Dovrei parlare del suo esoterismo, e dell’esoterismo del suo esoterismo. Proprio Zolla, se fosse presente, e con lui il vecchio maestro francese, scuoterebbero il capo rimproverandomi dolcemente.
Chiuderò invece questo breve ricordo di un’amicizia ricca di riflessioni feconde, horrifique, come amava dire Rabelais, giocando omofonicamente con aurifique, con un breve aneddoto.
Conobbi Zolla per via epistolare. All’epoca vivevo in Sardegna. Trovai occasione per un viaggio a Roma, gli telefonai, ci demmo appuntamento nel suo studio all’Università.
Arrivai nel tardo pomeriggio. Era una tipica stanza universitaria, piuttosto squallida, con un finestrone  e un grande tavolo. Cominciammo a chiacchierare, di tutto: alchimia, fisica, economia, finanza, gnosi. Sapeva di tutto e di tutto era curioso. Si era fatto tardi, decidemmo di lasciarci per un futuro incontro. Chiudemmo il discorso, ci alzammo e in quel momento, solo in quel momento, mi resi conto che da due ore era calato il sole, da due ore stavamo parlando al buio. Mi fu chiaro che la conversazione era stata luminosa.
Con questo voglio rammentare un insegnamento importante, che delimita il campo, ed è forse l’erma che cercavo. Ne “Le meraviglie della natura” disse: Chi non abbia indugiato ad ammirare e lodare la luce non si inoltri sulla via alchemica. E, aggiungo, non c’è mai così tanta luce come nel buio.


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